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Vittorio Alfieri Del principe e delle lettere IntraText CT - Lettura del testo |
CAPITOLO OTTAVO.
Che il principe, quanto a se stesso, dee poco temere chi legge,
e nulla chi scrive.
Ma, il timore dovendo pur sempre essere la tacita norma di ogni uomo, che sotto qualunque titolo ne costringa ad arbitrio suo molti altri; dico, e spero di provare, che anco lo stesso timore dovrà indurre i moderni principi a non perseguitare i letterati, altrimenti che coi loro doni, e col loro proteggente disprezzo.
Gli scrittori, per quanto esser possano caldi, ed anche entusiasti, rarissimamente sono da temersi per se stessi; o sia, perchè la loro vita molle e sedentaria li rende poco atti all’eseguire, o tentare azioni grandi; o sia, perchè lo sfogo del comporre indebolisce nella massima parte e minora il loro sdegno. Da temersi dunque sarebbero soltanto i loro scritti nella persona dei diversi loro lettori. Ma, in questo secolo, in cui pur tanto si legge e si scrive, esaminiamo rapidamente quali siano coloro che leggono; e quali scritti, e in qual modo, si leggano. Quale animo vediamo noi, infiammato da quei tanti generosi tratti di storia antica, dar segno di averne ricevuto una profonda impressione, col fare, o dire, o tentare, o almeno caldissimamente lodare alcuna di quelle imprese alte e memorabili, che dai moderni col freddo e vile vocabolo di pazzie vengono denominate? Ma, poniamo anco, che tali cose si vadano pure leggendo, e con qualche frutto; chi è, che le legge? non il popolo, che appena sa leggere; che, sepolto nei pregiudizj, avvilito dalla servitù, fatto stupido dalla povertà, non ha nè tempo, nè mezzi, nè ajuti, per imparare a discernere i suoi proprj diritti: ed egli pur solo potrebbe farli valer, conoscendoli. Leggono adunque veramente nel principato i pochi uomini rinchiusi nelle città; e fra questi, il minor numero di essi; cioè quei pochissimi, che non bisognosi di esercitare arte nessuna per campare, non desiderosi di cariche, non adescati dai piaceri, non traviati dai vizj, non invidiosi dei grandi, non vaghi di far pompa di dottrina, ma veramente pieni di una certa malinconia riflessiva, cercano ne’ libri un dolce pascolo all’anima, e un breve compenso alle umane miserie; le quali forse assai più vivamente vengono sentite da chi il minor danno ne sopporta. E così fatti lettori (a questi soli attribuisco io un tal nome) che non sono uno in dieci mila, spaventare potrebbero il principe?
Leggere, come io l’intendo, vuoi dire profondamente pensare; pensare, vuol dire starsi; e starsi, vuol dir sopportare. Si esamini la storia, e si vedrà, che i popoli tutti ritornati di servitù in libertà, non lo furono già per via di lumi e verità penetrate in ciascuno individuo; ma per un qualche entusiasmo saputo loro inspirare da alcuna mente illuminata, astuta, e focosa: e neppur quella era una mente seppellita nell’ozio degli studj, ma pensante per se stessa; e di quel pensare che nasce da un sentimento naturale e profondo; forse risvegliato da un tratto di tale, o tal libro, ma non mai accattato dai molti di essi. Ed in fatti; Giunio Bruto, Pelopida, Guglielmo Tell, Guglielmo di Nassau, Washington, e altri pochi grandi che idearono od eseguirono rivoluzioni importanti, non erano letterati di professione. Crederei anzi, (e l’effetto finora me lo dimostra vero, pur troppo!) che i lumi moltiplicati e sparpagliati fra i molti uomini, li facciano assai più parlare, molto meno sentire, e niente affatto operare. Si parla e si legge e si scrive in Parigi; e ci si obbedisce pure finora, quanto e più che a Costantinopoli, dove nessuno scrive, e pochi san leggere. Ma pure, fra’ Turchi, come in ogni altro asiatico dispotismo, sorge di tempo in tempo un tal capo, che nessuna altra dottrina conoscendo, fuorchè le leggi di natura fortemente sentite, dice con energica rozzezza a molti di quegli idiotissimi uomini: «Questo nostro principe è irreligioso; è tiranno; non è guerriero; si deponga, si uccida». E spesso viene egli e deposto, ed ucciso.
Non nego però, che a lungo andare, lo spirito dei libri non s’incorpori, direi così, nello spirito dei popoli che nella loro lingua gli hanno; e penetra questo spirito in tutti gl’individui, o sia per tradizione, o sia per lettura effettiva, o sia per lo diverso pensare che si va facendo strada nel discorrere familiarmente; e penetra a tal segno, che in capo a qualche secolo si trova poi mutata affatto l’opinione di tutti. Ma, colla stessa lentissima progressione, si trovano poi anche mutati i mezzi e l’arte del comandare; e gli uomini (pur troppo!) non si vengono niente meno di prima a tener sotto il freno da chi conoscere li sa e prevalersene.
Parmi adunque, che i principi moderni, visto i progressi non impedibili oramai delle lettere, non abbiano perciò a perseguitare i letterati, perchè invano il farebbero: ma, che sapendo essi serpeggiare fra loro, e, per così dire, innestarseli, potranno forse riuscire a rendere col tempo le lettere non essenzialmente contrarie alla somma della loro illimitata autorità, ed appena debolmente sfavorevoli a un certo eccessivo modo di esercitarla.