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Vittorio Alfieri
Del principe e delle lettere

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CAPITOLO DECIMO.

 

Non potendo il principe estirpare affatto le lettere, gli giova parerne il rimuneratore,

e l’appoggio.

 

I viaggi, il commercio, e l’arte del cambio, hanno emancipato per così dire gli abitatori d’Europa: quindi i nostri padroni e pedagoghi politici non ci possono più tenere come bambini del tutto. In oltre, il rimanervi alcuna picciola parte d’Europa, in cui l’uomo nasce, o libero, o meno oppresso, sforza anche i più risoluti oppressori ad osservare alcuni indispensabili risguardi coi sudditi. In questo stato di cose, facilmente (pur troppo pe’ principi) si promulgano le opinioni diverse, e si estendono rapidamente in Europa, allorchè da eccellenti uomini vengono poste in iscritto. L’amore di novità, l’ozio, la curiosità, e anche il dolce fine di render se stesso migliore, sono le cagioni per cui da alcuni altri non volgari uomini si legge: e, fra tutti i libri, pare che quelli che scuotono il cuore dell’uomo, siano i più universalmente letti e gustati. L’autore ottiene questa commozione in molte maniere; ma in nessuna più efficacemente, che illuminando con colori nobili patetici e forti le imprese grandi in se stesse, e da cui ne siano ridondati effetti importanti. E suole ciò farsi, o fingendo per via di poesia, o traendo dai fonti della storia, o perorando al popolo, o su le cose umane generalmente filosofando. Toltane dunque la passione d’amore, che sotto ogni governo può allignare, e più sotto i meno virtuosi, se l’autore vorrà maneggiarne alcuna dell’altre allegandone splendidi esempj, bisognerà pur sempre ch’egli ricorra ai popoli liberi. Quindi è, che ai giovinetti ampiamente si insegnano le cose di Roma, di Atene, e di Sparta, ma raramente o non mai si favella a loro di Persia, d’Assirja, d’Egitto, e dei loro tiranni. Volendo sotto qualunque velo insegnar la virtù, è dunque sforzato lo scrittore a cercarla dove ella è stata; ad indagarne, o accennarne le cagioni; a narrarne gli effetti; e ad incoraggire in somma i lettori alla imitazione di essa. Perciò non mi pare, che abbisogni di prove l’asserire; che libro di sane lettere non vi può essere, il quale (per qualunque mezzo vi arrivi) non abbia però sempre per fine principalissimo ed unico, l’insegnar la virtù. E intendo qui per virtù; Quella nobile ed utile arte, per cui l’uomo, col maggior vantaggio degli altri, procaccia ad un tempo la maggior gloria sua.

Ammessa questa definizione, che mi pare innegabile, ogni buon libro (che non sia però di scienze esatte, delle quali parlerò in appresso) dee necessariamente in quasi tutti i suoi principj offendere l’autorità illimitata; poichè, per quanto voglia anche lo scrittore essere discreto, e serbare riguardi, non può pure mai laudare il vizio; nè, molto meno, può insegnare la vera virtù, senza dimostrare o accennare, che il fonte di essa non può essere e non è stato mai, nè l’obbedire al capriccio di un solo, nè il servire, nè il tremare.

Ciò posto, io dunque dico; che nessuna vera sublime epica poesia, nessuna tragedia, nè commedia, nè storia, nè satira, nè opera filosofica, nè arte oratoria, nè in somma alcun ramo di belle lettere (tolto il madrigale, il sonetto puramente amoroso, e la pastorale) potrà mai riempire nel principato il suo proprio dovuto scopo, e dare nel vero, senza offendere o più o meno l’autorità assoluta. E, se non volessi esser breve, e massimamente in questo primo libro, potrei ampiamente provare quanto asserisco. Ma, per mille ragioni mi vaglia una sola; e siano i fatti. Domando: Qual è il buon libro, (veramente stimato tale) che sviluppando altre passioni umane che l’amore, o tutto o in parte, da qualche principe, o in qualche tempo, non sia stato proibito, o screditato, o schernito, o calunniato, o perseguitato? Ma, che pro? i libri sussistono, e durano contra ogni ira, potente o impotente sia ella, purch’essi sian ottimi.

Non potendo adunque il moderno principe europeo assolutamente impedire che i libri buoni già fatti continuino ad esistere, e ad esser letti; nè che alcuni altri buoni, ma sempre pochi, se ne vadano scrivendo; accortamente farà egli, se saprà non mostrarsi interamente contrario alle lettere, e se saprà premiarne a tempo gli artefici; anteponendo però sempre i mediocri ai sommi; e astutamente cercando di fare che i sommi rimangano o paiano mediocri, coll’impedir loro cortesemente di pensare, e di scrivere, fin dove bisognerebbe. Per la stessa ragione egli farà benissimo di fingere di onorare gli scrittori morti, col ristamparli; ancorchè tali siano, che se avessero scritto a tempo suo sotto lui, gli avrebbe egli, potendo, piuttosto soffocati, che non mai dati in luce. In tal guisa perverrà forse il principe a persuadere ai più, che egli non teme l’effetto di una certa libertà di scrivere e di pensare. E quella stessa apparente sua non curanza sarà anche uno scoraggimento grandissimo a chi sperasse di farsi un nome liberamente pensando e scrivendo; perchè una certa persecuzione contro ai libri fortemente e luminosamente veraci, costituisce per lo più la base della loro prima fama; e quindi maggiormente e più presto propagandogli, assai più utili in minor tempo li può rendere.

 

 

 




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