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Vittorio Alfieri
Del principe e delle lettere

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CAPITOLO PRIMO.

 

Se i letterati debbano lasciarsi protegger dai principi.

 

Lo scrivere, è una necessità di bisogno in molti; e questi per lo più non possono essere veramente scrittori, nè io li reputo tali: lo scrivere, è una necessità di sfogo in alcuni; e questa, ben diretta, modificata, e affatto scevra di ogni altro bisogno, può spingere l’uomo ad essere quasi che un Dio.

Spessissimo però accade (pur troppo!) che i sommi ingegni nascono necessitosi di pane. Né io certamente imprendo qui a fare l’apologia dei ricchi; i quali anzi, per lo più nascono di assai meno robusta natura, così di corpo, come d’ingegno: vorrei bensì persuadere e convincere gli scrittori tutti, che non possono essi mai ottenere gloria verace con fama intatta e durevole, nè quindi mai cagionare utilità vera e massima nei loro lettori, se il loro scrivere non riesce alto, veridico, libero, e interamente sciolto da ogni secondo meschino fine. Parlando io dunque ai grandi ingegni (ma ai soli e pochi grandissimi) che per ingiustizia di fortuna si trovano esser nati poveri, dico loro; che se vengono a conoscere se stessi in tempo, debbono da prima, ove sia possibile, con qualunque altra arte migliorare la loro sorte, per poi potersi, per mezzo della indipendenza, valere del loro ingegno liberamente. E di ciò gli scongiuro, per quel sommo utile, che dai loro scritti ne può ridondare agli uomini tutti; e per quella purissima gloria, che ad essi ne dee ridondare. Ma, se non possono assolutamente procedere nel modo su divisato, li consiglio a desistersi dalla impresa dello scrivere, e a cercare altri mezzi per campare; che tutti, in ogni tempo e governo, riescono a ciò più atti che non il mestier delle lettere. In una parola in somma, io dico; che all’ingegno dee bensì la ricchezza servire, ma non mai alla ricchezza l’ingegno.

Se il più nobile, se il più elevato, il più sacro, e quasi divino ufficio tra gli uomini si è quello di voler loro procacciare dei lumi, dilettare la loro mente, infiammarli d’amore di vera virtù, e di nobile gara in ben fare; ardirà egli mai eleggersi ad una così importante impresa colui, che per necessità vien costretto ad essere, o a farsi vile? In molte e in quasi tutte le democrazie, sono esclusi dai voti i nulla tenenti; i Greci liberi proibivano ai servi l’esercitare per fino la pittura: e all’esercizio di una così nobile arte quale è lo scrivere; in una repubblica così augusta, quale esser dee quella delle sacre lettere, si ammetteranno i desideranti, i domandanti, o gli abbisognosi d’altro, che di schietta e sublime gloria? Non credo ingiusta una tale esclusione; ed i fatti mel provano. O i grandissimi scrittori erano agiati per se stessi; o erano contenti della loro povertà; o, se da ciò sono stati diversi, essi sono stati meno grandi di tutto quel più, che a loro è toccato di fare per migliorar la propria fortuna. E chi togliesse a Virgilio le lodi d’Augusto, e dei Cesari; all’Ariosto e al Tasso le Estensi; e a tanti altri scrittori le adulazioni tutte, o i timidi loro riguardi, non accrescerebbe egli di gran fatto la gloria agli autori, e ai lettori di gran lunga la luce, il diletto, e l’utilità?

Io spingo tant’oltre questa totale indipendenza necessaria all’autore per ottimamente scrivere, che ardisco asserire; che se i principi, attese le loro circostanze educazione e costumi, potessero pur mai pervenire a ben conoscere gli uomini, e a bene imparare ed eseguire alcuna cosa qualunque; i principi, dico, mediante la loro totale indipendenza, e mediante il non-timore di verun altro individuo più potente di loro, potrebbero senza dubbio essere gli scrittori per eccellenza: perchè nessun rispetto, prudenza, o timore gli sforzerebbe a tacere, o ad alterare la verità; ogniqualvolta però fosse loro stato possibile di superare in se stessi la innata loro avversione per essa; e ogniqualvolta avessero sortito dalla natura un’indole generosa, e capace di svelare quelle stesse verità che sarebbero a loro dannosissime. Ma, siccome questo non potrebbe esser mai, mi si perdoni una tale chimerica supposizione, da me introdotta come un semplice esempio; di cui pure alquanto valendomi, verrò nel mio intento. Quell’uomo privato, che potrà in se stesso riunire la indipendenza tutta del principe, (ma più nobile assai, e più legittima, col non obbedire che a moderate e savie leggi) e riunire in se la educazione del cittadino, l’ingegno, i costumi, la conoscenza degli uomini, l’amor del retto e del vero; quegli, a uguale capacità, avanzerà di gran lunga quanti altri ottimi scrittori ne siano in altre circostanze mai stati.

In somma, io non posso nel cuore di un vero scrittore dar adito ad altro timore, che a quello di non far bene abbastanza; nè ad altro sperare, che a quello di riuscire utile altrui, e glorioso a se stesso. Ammettendo un tale principio, si esamini se il sublime scrittore nel principato potrà mai essere un ente vissuto fra i chiostri; un segretario di cardinale; un membro accademico; un signor di corte; un abate aspirante a beneficj; un padre, o figlio, o marito; un legista; un lettore di università; un estensore di fogli periodici vendibili; un militare; un finanziere; un cavalier servente: o qualunque altr’uomo in somma, che per le sue serve circostanze sia costretto a temere altro che la vergogna del male scrivere, o a desiderare altro che il pregio e la fama della eccellenza.

Rimanendo per se stessa esclusa da quest’arte una così immensa turba di non-uomini, a pochissimi uomini mi rimane a parlare. A quelli dunque, che letterati veri ardiscono e possono farsi, dico; che senza scapito massimo dell’arte, non possono essi lasciarsi proteggere da chi che sia. Ed ella è cosa certa pur troppo, che se essi faranno interamente il severissimo loro dovere, di professar sempre e dire con energia la verità, non dureranno fatica veruna per sottrarsi da ogni protezione: tolta però sempre quella del pubblico illuminato, quando perverrà ad esserlo; protezione, la sola, che onoratamente si possa e bramare e ricevere.

 

 

 




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