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Vittorio Alfieri Del principe e delle lettere IntraText CT - Lettura del testo |
CAPITOLO QUARTO.
Ma pure, quella smania stessa che tormenta l’uomo, e lo sforza a tentare di farsi superiore ai suoi simili per via dell’opere d’ingegno, spesso anche lo martìra sotto altri non nobili aspetti, inducendolo a tentare di superarli negli agj, nella ricchezza, e nel lusso. Il grand’uomo, è pure uomo; e quindi picciolissima cosa è anch’egli; e quindi in mezzo al più sublime delirio di vera gloria, ammette anch’egli benissimo il desiderio d’una miglior mensa, di un comodo cocchio, e in somma d’una più delicata e morbida vita. Anzi, la vita letteraria ha in se questo veleno, che sfibrando ella il corpo, l’animo ammollisce non poco. Da questo provengono quei tanti immoderati desiderj di migliorar sorte, che o tutti poi o in parte identificandosi, minorano di così gran lunga l’intrinseco pregio e la fama del letterato. E, in queste, o in simili puerilità, sentendomi io più uomo che ogni altro, mi mostrerei pure stolido e superbo, se a tali naturalissime debolezze non compatissi. Ma, ciò non ostante, io sempre ridico ciò che sopra già ho detto: che questa voglia di migliorar sorte può adattarsi, e non pregiudica, a qualunque altro mestiere; ma ch’ella è mortifera all’arte delle lettere. Io perciò consiglierei di farsi scrittori a quei pochi soltanto, che non hanno bisogno, o non vogliono migliorare il loro stato quanto alla ricchezza: e, a chi non si trova in queste circostanze, consiglierei pur sempre di prescegliere ogni altra arte a quella dello scrivere.
Nulladimeno, per non escludere pure così assolutamente di mia propria autorità dalle lettere i bisognosi di pane, o di superfluità, voglio imparzialmente, e con lume di sana ragione, esaminare, se un letterato vero possa lasciarsi proteggere da un uomo più potente di tutti, e fino a qual punto: ciò viene a dire; come e fin dove il più sommo uomo possa assoggettare se stesso al più infimo. E, a voler provare che questi due opposti in superlativo grado sian veri, basta porre in contrapposto i nomi di eccellente scrittore e di principe. Quegli, se veramente degno è di un tal nome, dev’essere l’apice della possibilità umana; questi, se nato è ed educato al trono, dev’essere il più picciolo prodotto di essa; e lo è quasi sempre. In una tale aderenza dunque, passiva affatto per parte dello scrittore, ci fa egli più guadagno il principe, o più scapito il letterato? Si esamini.
Che può egli dare il principe allo scrittore? onori, parole, ricchezze; cose tutte, che da lui possedute in copia, nulla gli costano, e nessuno ingegno richiedono per darle altrui: vi sarebbe pur quello del discernere il merito; ma siccome non lo fanno presso che mai, nè possono nè debbono farlo, io prescindo interamente da questo. Che dà egli in contraccambio al principe lo scrittore? s’egli è poeta, lodi; se istorico, menzogne; se filosofo, falsità; se politico, inganni: e così, di qualunque altra provincia egli sia, (toltone però sempre le scienze esatte, di cui parlerò a suo luogo) il letterato a ogni modo non può mai piacere, nè guadagnarsi, nè scontare il suo debito col principe, se non sacrificando o interamente o in parte la verità, e quindi l’utile di tutti, al lustro e al soverchiante potere di un solo.
Ed a ciò dimostrare, parlino per me i fatti. Socrate, Platone, e l’immensa turba di Greci filosofi; Omero, Eschilo, Demostene, Sofocle, Euripide, e tanti altri ottimi antichi scrittori; non cercarono costoro di piacere a principe nessuno; e quindi il loro divino ingegno se n’andò esente ed illeso dalla terribile protezion principesca. Così, fra i moderni che hanno veramente illuminato il mondo, sviscerando le facoltà e i diritti dell’uomo, Locke, Bayle, Rousseau, Machiavelli; e fra quelli che l’hanno dilettato con utile, Dante, Petrarca, Milton, e pochi altri; non ebbero costoro nulla che fare con principi. E se pure alcuni degli ottimi ve ne furono, maculati di corte; come Moliere, Corneille, Racine, Ariosto, Tasso, ed altri pochi, che la sublimità del lor temere e adulare colla sublimità del loro immaginare e scrivere rattemprarono; convien pur confessare, che per tutto poi dove essi possono mostrarla, traluce la loro indegnazione contra le circostanze, contra i principi, e contra se stessi; spessissimo deplorando la necessità che gli avea fatti schiavi. Ma, siccome chi legge tien conto all’autore del solo suo libro, e non di veruna sua privata circostanza; (poichè se egli non avea la libertà dell’alto scrivere, avea pur sempre quella del nulla scrivere) da ciò ne risulta, che codesti autori vengono giudicati minori di se stessi, appunto di quel tanto che vilmente sagrificarono al proprio timore e all’altrui forza; ciecamente vendendo il loro intelletto, il lor tempo, i loro costumi, a quegli insultanti benefattori del corpo loro, ma micidiali ad un tempo fierissimi della lor fama.
Io dunque penso, e conchiudo; che il letterato tanto più va perdendo delle sue intellettuali facoltà quanto più accresce egli stesso la sua dipendenza, qual ch’ella sia. E per contrario, conchiudo che tanto più l’animo, il pensiero, e lo scrivere gli s’innalza, quanto egli più si fa libero e sciolto da ogni qualunque risguardo o timore; toltone però sempre quello, di non offendere le giuste leggi e gli onesti costumi.
«Ma il letterato potrebbe pure ricevere un’altra protezione assai meno insultante, qual è per esempio quella di un suo eguale ed amico: ora, perchè dunque non potrà egli riceverla dal principe, quasi da un suo amico privato?» Rispondo: «Il dipendere da un eguale può bensì molto amareggiare la vita allo scrittore, ma può non influire affatto sul pensare e scrivere suo; poichè quell’eguale od amico, può pur pensare com’egli su le cose umane, e non abborrire nè temere la verità che a lui può giovare altresì, come a tutti. Ma il principe non ha nè amici nè uguali; e non può mai essere nel sopraddetto caso».
In nessun’altra maniera dunque potrebbe il letterato lasciarsi protegger dal principe, senza guastare nè se, nè il suo libro, nè la sua fama, fuorchè cavandone quelle tanto desiderate necessità superflue della vita, vivendo ad un tempo sempre fuori degli stati suoi, e non gli facendo mai capitare alcun de’ suoi scritti. Questa inurbana e stravagante aderenza, che io do per una pura chimera, prova bastantemente, che sotto niuno aspetto vi può essere commercio onesto e legittimo fra il letterato ed il principe. Ma, posto pure, che un tal principe proteggente e non inquirente potesse esistere, quel letterato che ne trarrebbe mercede, senza null’altro restituirgli che oltraggi, (lo scrivere il vero è un continuo oltraggiare chi vive del falso) non vi scapiterebbe forse come scrittore; ma moltissimo vi scapiterebbe come uomo onorato, in riga di gratitudine. Non si può onoratamente cercare di nuocere a chi ti giova: e come si può egli scrivere un buon libro qualunque, che alle massime, all’esistenza, e al potere del principe non contraddica? e che quindi non lo offenda? e che quindi, in tutto o in parte, immediatamente o col tempo, non gli riesca dannoso?
Tra il principe dunque e il letterato vero, che facciano e sappiano amendue l’arte loro, non vi può essere comunanza, nè reciprocità, nè armonia, nè assolutamente legame nessuno giammai.