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Vittorio Alfieri Del principe e delle lettere IntraText CT - Lettura del testo |
CAPITOLO QUINTO.
Differenza totale che passa, quanto alla protezion principesca,
fra i letterati e gli artisti.
Ma un’altra classe d’uomini sublimi a me si appresenta, che io chiamerei letterati muti. Questi, con tele, bronzi, marmi, o altri simili, grandissima fama acquistano a se stessi, e moltissimo diletto, misto pur anche d’alcuna utilità, procacciano altrui. Costoro, come imitatori anch’essi, e ritrattori della natura, vanno quasi del pari coi letterati. Le opere loro vengono poste in cielo dall’opinione universale, e dagli stessi scrittori; i più grandi tra essi vengono paragonati ai maggiori letterati. Si dice in oltre, e si crede, che l’impulso dei sommi artisti fosse assolutamente lo stesso che quello degli scrittori: talchè, a stringere in una parola, le arti e le lettere sarebbero una cosa stessa; e tra Michelangelo, e Dante non passerebbe altro divario che d’aver l’uno spiegato i suoi sensi con lo scarpello e pennello, l’altro con la penna e l’inchiostro.
Agli artisti sublimi io tributo quel rispetto e ammirazione tutta che loro è dovuta; ma non penso interamente così. E volendo io investigare il fonte di questo moderno e tardivo entusiasmo, che si professa per le arti assai più che per le lettere, principalissima cagione di esso ritrovo pur anche essere l’assoluta potenza, che non teme in nulla le arti, e quindi le favorisce; mentre le temute lettere disturba, se può, o almeno le svolge, o le discredita, o le impedisce. Ma pare, che anche l’arti stesse, smentendo in questo nostro secolo la loro dipendente natura, concorrano a gara con le lettere a schernire la protezion principesca; poichè in questi tempi, ove elle sono pur tanto ricompensate, incoraggite, e protette, elle negano assolutamente di dare nessun sommo artista, mentre pur tanti ne diedero allorchè assai meno ci si pensava.
Ma tornando al mio tema, che è di provare la differenza che passa fra l’arti e le lettere, dico, e sempre dirò; che un ottimo quadro non volta però mai il foglio; onde egli è pur sempre un assai minore sforzo d’invenzione, di composizione, di condotta, di giudizio, di combinazioni, di abbondante e maturo pensare, di quel che lo sia un buon libro qualunque, e massimamente un poema: quindi è pur sempre assai minore l’effetto, che egli produce nell’animo altrui. Che se in vece dei libri antichi greci e latini, pervenute ci fossero soltanto le greche pitture e sculture, noi certamente saremmo ignorantissimi e barbari; poichè la vera grandezza dei Romani sta nelle cose che di loro ci narra Tito Livio, e non già nel Panteon, o nel Colosseo: anzi le opere grandiose, e perciò di gran costo, fanno sempre fede di un’assoluta sterminata autorità, di molto ozio politico, e di gran corruzione. Le altre imprese, al contrario, e gli uomini che le condussero, fanno fede di un popolo libero e grande.
Perciò, anche ammettendo che uno stesso impulso per diversa via spinga e il sublime artista e il sublime scrittore, si dee pure sempre anteporre l’opera di colui che ha trascelto la più utile, la più durevole, difficile, e pericolosa impresa. Onde, a chi guarda le umane cose con occhio filosofico e sano, non ripugna affatto il confondere insieme e pareggiare i letterati e gli artisti; ma intieramente ripugna bensì il confondere o pareggiare in nulla le lettere e l’arti.
E per sola prova della immensa differenza, che passa tra l’effetto di quelle e di queste; si esamini imparzialmente qual cosa utile e grande potrebbe sapere, operare, o pensare, quell’uomo, che non sapendo leggere, nè usando con gente colta di nessuna maniera, avesse tuttavia sortito dalla natura un gusto finissimo per le belle arti, e avesse visto ed esaminato e sentito tutti i prodigj di esse. Costui al certo nulla saprebbe; e tutti i più dotti dipinti non gli potrebbero mai aprir l’intelletto; anzi ignorandone i soggetti, non li potrebbe nè intendere, nè gustare. Ma, che vo io perdendo le parole in cosa che non abbisogna di prove? Dico bensì; che se l’artista stesso non si è fatto dotto quanto basti su i libri, ancorchè dalla natura avesse egli ottenuto il dono del più eccellente pennello o scarpello, riuscirà pur sempre un ignorante e mediocre pittore o scultore: nè da una vera, ma sterile imitazione della natura, perverrà egli mai a ricavarne quel vero e perfetto sublime a cui può giungere l’arte sua. Ogni bell’arte è figlia del molto pensare; il che vuol dir, leggere, o parlare con chi ha letto: poichè il pensare altro non è che il combinare il già detto e pensato; ed una idea che chiamiam nuova, non può essere se non figlia di cento antiche.
Tra le lettere dunque e le arti corre, a mio parere, il divario, che corre tra lo sviluppo intero della facoltà pensatrice, e l’esercizio della potenza degli occhi e delle mani. Si può benissimo non aver visto mai quadro, ed esser Dante, e farne dei maravigliosi con poche righe d’inchiostro: ma non si può essere Michelangelo, senza avere in molti Danti imparato a pensare, inventare, e comporre.
E a voler provare questa primazía delle lettere, non solo su le arti mute, che troppo chiara cosa ella è, ma anche su tutte le cose grandi e grandissime che gli uomini possono eseguire, si dimostri soltanto che lo scrivere è la sola arte che basti a se medesima, e il di cui artista ritrovi tutta in se stesso la materia per eseguire. Onde, non solamente il pittore, scultore, e architetto, abbisognano di tele, di colori, di marmi, e di chi loro commetta e paghi il lavoro; ma il legislatore, il politico, il capitano, ove non abbiano e stato e popolo e soldati, nulli affatto per se stessi riescono: o, se pure adombrare vogliono i loro vasti e negati disegni, si fanno scrittori; e così all’immortalità arrivano per via più lenta, ma più durevole. E non mi si dica, che appunto per lo aver tutto in se stesso, lo scrittore abbia più facilità, che non è per certo così; anzi, tanto è severo il mondo per gli scrittori, che ai soli eccellenti accorda la fama; in vece che anche ai non sommi artisti ne accorda pure una certa; perchè un quadro, una statua, una reggia, od un tempio, ancorchè non siano eccellenti, non costano però niuna fatica a chi li rimira, e di alcun utile riescono a chi se ne prevale. Così anche una certa fama si accorda ai legislatori, benchè mediocri; ed una, ma assai meno durevole, ai capitani felici. Tanto può più, presso al comune degli uomini, il fare che il dire. Non pensano essi, che il dire altamente alte cose, è un farle in gran parte; e che per lo più chi ben disse, in parità di circostanze, di tanto avrebbe superato chi ben fece, di quanto dovea il dicitore aver avuto un ben maggior impulso per darsi interamente ad esaminare, conoscere, innovare, o rettificare una cosa, da cui, non potendola egli eseguire, niuno altro frutto per allora sperava, che la semplice gloria dell’averla ben ideata, e ben detta. Non si può fortemente ritrarre ciò che fortissimamente non si sente; ed ogni gran cosa nasce pur sempre dal forte sentire. Esemplifico, e domando; Omero in parità di circostanze non avrebbe egli potuto essere quello stesso Achille, o quell’Agamennone, o quel Priamo, che con tanta fantasia, con tanta dignità e verità egli immagina e ritrae? Ma Omero è maggiore assai di costoro nella più lontana memoria degli uomini, perchè, oltre la possibilità che si vede in lui di far cose grandi in valore ed in senno, riunisce anco in se la divina arte di ben inventarle, e di ottimamente colorirle ed esprimerle.
Io perciò credo, che lo scrittore grande sia maggiore d’ogni altro grand’uomo; perchè oltre l’utile che egli arreca maggiore, come artefice di cosa che non ha fine, e che giova ai presenti ed ai lontani, si dee pur anche confessare che in lui ci è per lo più l’eroe di cui narra, e ci è di più il sublime narratore. Ed in fatti, gli eroi nati dopo quell’Achille (interamente forse fabbricato nella testa d’Omero) tutti vollero più o meno rassomigliarsi a lui. Ma, se un eccellente scrittore vuol dipingere un eroe, lo crea da se; dunque lo ritrova egli in se stesso. L’uomo in somma non può perfettamente inventare e ritrarre ciò che egli non potrebbe (avendone però i mezzi necessarj) eseguire: ma può bensì l’uomo eseguire ciò che ritrar non saprebbe. Onde io nell’esecutore di una impresa sublime ci vedo un grand’uomo; ma nel sublime inventore e descrittore di essa, a me pare di vedercene due.
Ritornando ora al mio proposito, (da cui pure mi son forse dilungato assai meno di quel che si paia) dico; che se innegabil cosa è che lo scrittore di cose sublimi debba essere di sublimissimo animo, e ch’egli abbia tutti in se stesso i mezzi dell’arte sua; innegabilissima sarà, ch’egli disonora l’arte e se stesso, cercando o ricevendo protezione o soccorsi di cui non ha egli bisogno; poichè i suoi mezzi per eseguire sono semplicemente poca carta, inchiostro, ed ingegno; mezzi che nessun principe gli può dare, se a lui gli ha negati natura. Ma, non è già delle arti così. Da prima, per esser elle opera di mano, raramente vi si acconciano persone altamente educate, ed agiate dei beni di fortuna; poi, perchè l’esecuzione di esse ne riesce faticosa, dispendiosa, ed incomoda, non ne può essere mai indipendente l’artefice. E in fatti, la pittura, che pure è la meno incomoda di tutte le belle arti, si può ella vantare di aver avuto mai alcuno eccellente artefice, che prezzolato non fosse? Una cosa che si fa per vendersi, abbisogna di compratore; ed ecco tosto la dipendenza e servitù di quell’arte. E benchè si vendano anche i libri, si possono pur fare senza venderli; e prima della stampa così accadeva per lo più. Ma un pittore, che abbia e molto e bene dipinto per serbare o donare i proprj quadri, non vi è stato mai; così, nè scultore delle sue statue; e molto meno architetto; che questo artefice più di tutti ha bisogno d’altrui per esercitar l’arte sua; ove però non si voglia egli contentare di dar vita alle sue idee nei semplici disegni.
La musica, nobilissima arte anch’essa, e la prima forse per muovere, e per esprimere (benchè passeggeramente) le passioni tutte e gli affetti; la musica potrebbe, in un certo aspetto, bastare ella pure a se stessa. Ma nei nostri tempi da alte persone non viene esercitata, se non per proprio diletto; inoltre, le sue creazioni abbisognano pure d’esecutori, poichè quelle carte notate sono mute per se stesse, se a farle parlare non vengono gli strumenti. E la musica vocale, che dee pur preferirsi a tutte l’altre, le quali altro non sono che una imperfetta imitazione di essa, la musica vocale è schiava nata dello scrittore; ed anzi (come già era in Grecia per lo più) non si dovrebbe ella mai scompagnar dal poeta.
Si lascino dunque proteggere dai principi queste quattro arti, che per se stesse o sussistere non possono, o non abbastanza fiorire; e che, anzi, dalla protezione e dai premi ottengono incoraggimento e miglioramento, senza che all’artefice ne scemi punto la fama. Ma le alte e sacre lettere, sdegnino, abborriscano, e sfuggano ogni protezione, come a loro mortifera; poichè pur tanto debbono elle scapitarvi, e per se stesse, e per gli artefici loro.
I principi, senza avvedersi forse della vera ragion che li muove, ricompensano in fatti le arti, e le fanno anzi stromento della loro grandezza. Non possono dissimulare a se stessi, che una vasta e bene architettata reggia, in cui, fra l’oro e i ben ideati arredi, campeggino molti dipinti e statue sublimi, ella è la maggiore e la più nobile parte del loro essere. Ben sanno i principi, che la stoltezza del volgo reputa veramente grande colui che in mezzo a cose preziose e grandi si ricovera. Ma sfuggono essi bensì di proteggere, di ricompensare, e d’accogliere i veramente alti scrittori; perchè al confronto di questi, appariscono vie più sempre minori essi stessi. Se il tiranno Dionisio avesse albergato nella sua reggia Platone, chi avrebbe più badato a Dionisio?
E benchè la scultura e pittura con una certa maschia libertà e filosofia possano lumeggiare i più utili tratti della storia antica, e consecrare le più libere imprese, nulladimeno, come arti mute, elle vengono lasciate fare, e di esse poco si teme. Un principe non darà forse per tema a un pittore la morte di Lucrezia; ma pure ne ricompenserà l’autore, e ne collocherà il quadro nella sua reggia, ancorchè il gran Bruto col ferro in mano, e pieno di mal talento contra i tiranni, nel quadro primeggi. Ma quello scrittore, che sovra Bruto dicesse tutto ciò che l’eccellente pittore dee e vuole farne pensare, e che la maestà di un tanto uomo richiede, non sarebbe certamente, nè egli nè il suo libro, egualmente ricompensato ed accolto nella reggia. E ciò perchè? perchè assai più dicono sopra Bruto le poche parole di Livio, di quello che mai esprimerà o farà pensare un Bruto dipinto, o scolpito; e il fosse pur anco da Michelangelo stesso, il quale solo era degno di ritrarlo. E le parole di Livio son queste: Juro, nec illos, nec alium quemquam regnare Romae passurum.3