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Vittorio Alfieri Del principe e delle lettere IntraText CT - Lettura del testo |
CAPITOLO SETTIMO.
Avendo io nel precedente capitolo, per quanto mi pare, dimostrato, che dal conoscere se stesso con intimo e pieno senso delle proprie facoltà, nasce la perfezione del letterato, e quindi la sua durevole fama; piacemi in questo di ragionare a lungo su la stima di se stesso, che dee necessariamente nello scrittore originarsi dalla intima e assennata di lui securtà nei proprj suoi mezzi.
E dico da prima, che da una tale stima vivamente sentita, e alle volte anche spinta alquanto oltre al vero, ne nasce il divino effetto di valere l’uomo assai più che non varrebbe per se stesso, se egli meno si stimasse. Questa idea di se, per quanto si può osservare dai fatti, ha generato sommi effetti, non solamente in alcuni individui, ma perfino nei popoli interi. Gli Spartani, Ateniesi, e Romani, attesa la smisurata opinione di se stessi, saputa loro infondere dai savi governi, fondata però su alcune vere basi, divennero in fatti per sì gran tempo superiori ai popoli tutti con cui ebbero che fare. E nei loro primi tempi, l’opinione di se stessi certamente avanzava la realità della loro forza: ma si verificò in appresso una tale opinione, perchè nel più delle cose, il crederle fortemente, le fa essere; come il debolmente crederle, cessare le fa. Ma, di nessuna si vede più pronto e sicuro questo effetto, che della opinione avuta da ciascuno individuo di se stesso. Non dico io per ciò, che ad essere un uomo grande basti il credersi tale; anzi, chi lo è, tale per lo più non si reputa: ma dico bensì, che a volerlo divenire, bisogna essere in se stesso convinto di averne tutta la capacità; e aggiungervi un intenso, e incessante volere; e il tutto corredare poi di quella saggia diffidenza di se, che non è nè viltà, nè coscienza della propria debolezza, ma un profondo sentimento della difficoltà e sublimità della perfezione.
Se dunque il letterato, uomo per se privatissimo e oscuro, senza nessun’altra potenza nè autorità, che quella del proprio ingegno; se il letterato osa pur concepire il sublime disegno di voler da se solo persuadere gli uomini, rettificare i loro pensieri, illuminarli, difenderli, dilettarli, convincerli, e far forza ai più; chiara cosa è, ch’egli dovrà aggiungere al molto ingegno naturale, alla dottrina necessaria e bastante al soggetto, al caldo e puro parlare, una altissima stima di se stesso: e non solamente la stima del proprio ingegno, ma della illibatezza dell’animo, del severo costume, della virtuosa e libera sua vita, non contaminata (per quanto si può) da nessuna macchia di timore, di dipendenza, nè di viltà. Che se egli non si reputa e conosce per tale, come ardirà lo scrittore insegnar la virtù, che non ha praticata? altro non sarebbe, che uno svergognare e condannare se stesso. Ma, se egli tal non si reputa, come potrà egli tale mostrarsi? Lo scrittore crede, e pretende, di parlare a tutti. Uno scrittore onorato non dee commettere alla carta veruna cosa, che egli in savia e ben costituita repubblica non ardirebbe pronunziare di bocca ad un popolo intero. Non dee dunque mai porre in iscritto cosa, che non creda esser vera e retta; e che, come tale, non segua primo egli stesso, per quanto è possibile.
Una moderna opinione, sfacciata ad un tempo e timida e vile, asserisce che il lettore dee giudicare il libro e non l’uomo. Io dico, e credo, e facile mi sarebbe il provare; che il libro è, e deve essere la quintessenza del suo scrittore; e che, se non è tale, egli sarà cattivo, debole, volgare, di poca vita, e di effetto nessuno. Ed eccone rapidamente le prove.
A voler fare vivamente sentire altrui, bisogna che vivissimamente senta lo scrittore egli primo: non si può mai fortemente esprimere ciò che debolmente si sente: un pensiero espresso debolmente perchè non è fortemente sentito da chi il concepisce, non potrà mai fare neppure una mediocre impressione in colui che lo legge: da queste tre verità, parmi che ne risulti una quarta; che se lo scrittore non è intimamente persuaso di ciò ch’egli dice, non persuaderà, nè commoverà mai nessuno; e quindi sarà per lo meno inutile il suo libro.
E sempre io parlo di calda, di forte, e di vivissima impressione, come della più importante parte d’ogni buon libro; perchè gli uomini tutti per lo più, e maggiormente i più schiavi (come siam noi) peccano tutti nel poco sentire. Credo, che ciò provenga (almeno in noi) dal troppo parlare, dal poco pensare, e dal nulla operare; esistenza affatto passiva, che ci è singolarmente toccata in sorte a questi tempi, come ho già più sopra osservato; sorte, di cui dobbiamo pure esser degni, poichè con tanta disinvoltura la sopportiamo: ed i più la sopportano, senza neppure avvedersene.
A così fatti popoli non si ardisce in nessun modo annunziare il vero di bocca; conviensi dunque a lor favellare per via degli scritti. Ma così forte e inveterato deve essere il loro callo, ch’io credo necessario il tuonare, per fargli appena appena sentire. Ogni lievissimo cenno è troppo per aizzare la tigre e il leone; ma qual pungolo è mai troppo acuto per inferocire il placido aggiogato bue? Quindi, ogni libro debole di pensieri, e di stile, riuscirà fra noi di nessunissimo effetto; ed ogni forte libro, di picciolissimo effetto riuscirà. Non potendo dunque lo scrittore ottenere una commozione, che egli fortissimamente non provasse prima in se stesso; nè potendola egli in tal modo provare, e causare in altrui, se le cose da lui inculcate non praticava egli primo; ne risulta, che uno scrittore non ha fatto mai un forte e buon libro, senza stimare se stesso moltissimo. Ma, può egli moltissimo stimare se stesso, senza essersi fatto assolutamente libero da ogni servitù di coloro ch’egli stimare non debbe, nè può? Ed essendo egli ingegnoso, libero, virtuoso, costumato, eloquente, potrà egli mai mancar d’alti sensi, nè di giusto ardire, nè di luminose idee, nè di forti, splendidi, e sublimi colori per esprimerle?
Si osservi, che se a Virgilio (come già dissi) è mancata l’energia d’animo, che richiedeasi in un Romano che a Romani parlava, la cagion principale ne fu, che egli debolmente sentiva, e se stesso non istimava, nè stimare potea. Quindi è, che oltre il timore d’Augusto, anche la vergogna di se stesso lo trattenea dal dare certi tocchi risentiti, feroci, e verissimi, i quali smentito avrebbero pur troppo la sua vita servile. E se alcuno volesse anche trovare da ridere in un autor così grave, l’osservi in quei pochi suoi passi, dove egli pur vuole parer cittadino; e lo vedrà procedere con timidità tanta, e con tante cautele, che la di lui pusillanime cittadinanza lo svela, anche più che le ardite sue adulazioni, per un vile liberto di Augusto. Ma, chi vorrà pur trovarvi onde piangere, e con ragione, da quegli stessi passi ne ricaverà non picciolo dolore, riflettendo che da quei mezzi tocchi, e da quelle massimette di semilibertà snervate in versi eleganti, ne nasce assai più danno che utile alla universalità dei lettori. Dal poco dire, ne risulta il meno sentire; e dal sentir poco, allorchè un tale effetto si trae da un autore di grido com’è Virgilio, se ne cava questa falsa induzione; che in un buon libro (e massime di poesia) molte cose importantissime vi si debbano piuttosto tacere, o appena accennare, che scolpire. Non mancava a Virgilio null’altro, che l’alto e robusto pensar di Lucano; ma questa mancanza ad ogni pagina vi si fa grandemente sentire. Se non isbaglio, gli epiteti sono quelli che meglio svelano l’animo, le circostanze, e il più o men forte sentire dello scrittore. Esaminiamo rapidamente, sotto questo aspetto, l’epitetar di Virgilio.
Nel sesto libro, parlando egli d’Augusto, ne dice in diciotto versi ciò che mai d’uomo nessuno dir non potrebbesi senza sfacciata menzogna, e senza che parimente non arrossissero il lodatore e il lodato: ma in quei diciotto versi non ci osservo altro che il vile. Proseguiamo. Nominando egli i Tarquini, cioè quegli abbominevoli tiranni, la cui sola espulsione di Roma la fece poi grande, Virgilio dice: Tarquinios reges6; e non vi aggiunge epiteto nessuno: perchè ogni giusto epiteto che avesse loro dato, veniva ad essere per l’appunto l’epiteto, che in vece dei diciotto versi sopraccennati, meritamente e solo spettava ad Augusto. E si noti, che il buon Virgilio dice: Tarquinios reges; neppure osando dire tyrannos; ed ecco il timido e ingannevole poeta, che scrive, non pei Romani, no, ma pel principe che lo pasce. Più oltre, menzionando Giunio Bruto, cioè il liberatore, e quindi il fondatore vero di Roma, dice il leggiadro poeta: animamque superbam ultoris Bruti; ed ecco il non cittadino, il traditor della gloria, della libertà, e dell’utile verace di Roma. Falsissimo, vile, ed iniquo pensiero fu il suo, di non dire, per la patria liberata da un Bruto, altro che animamque superbam7; e di avvelenare ancora quell’epiteto già improprio, coll’aggiunto di ultoris Bruti; come se Bruto non fosse stato mosso da altro impulso, che dalla privata vendetta; e altra impresa non avesse egli a fine condotta, che il vendicare la contaminata Lucrezia. Ma, per i figli condannati dal padre (tratto, la cui ferocia non può essere scusata, nè abbellita, se non dalla riacquistata libertà) ci impiega egli maliziosamente quattro versi, sparsi di veleno cortigianesco; in cui dovendogli sfuggire per forza l’epiteto di pulcra a libertate, intieramente lo cancella tosto coll’aggiungervi in fine il laudumque immensa cupido;8 e con ciò Virgilio viene a dipingerci Bruto, non come un cittadino liberatore, ma come un vendicatore crudele e vanaglorioso.
Che ne risulta da un così fatto scrivere? o il lettore, che non conosce Bruto altrimenti che da Virgilio, piglierà più avversione che amore per Bruto; e, stimando più le private virtù che le pubbliche, abborrirà il parricida, senza badare al liberator della patria; tollererà gli Augusti; li crederà per anche necessarj alla pubblica felicità: ovvero il lettore, iniziato già nelle cose romane da Livio, nulla potendo aggiungere alla stima e venerazione ch’egli avea già concepita per Bruto, molto aggiungerà pur troppo al disprezzo ch’egli giustamente anche concepito avea per Virgilio ed Augusto, nel leggerne le sopra mentovate lodi, non meno indiscrete che vili. Ma questo falso e debole pensare, potea egli forse provenire in Virgilio dall’avere egli stimato in suo core maggiormente Augusto che Bruto? niuno è, che ciò creda. Non proviene dunque questa virgiliana viltà da null’altro, se non dall’aver Virgilio anteposto gli agj e gli onori del corpo alla altezza e chiarezza della propria fama; dall’aver egli temuto più la povertà che l’infamia; dall’aver egli riguardato Augusto come il tutto, e Roma come il nulla; dall’avere egli in somma tenuto se stesso minor d’un tiranno.
Il sublime letterato, a parer mio, si dee dunque stimare più che uomo nessuno, se egli non vuol tradire la sacrosanta causa dei più, che sempre dev’essere quella, che in mille diversi modi egli tratta. E gli orgogliosi re, che scambiando la loro illimitata potenza con se stessi, si credono essere il tutto, e sono il perfettissimo nulla, debbono ai sani occhi del letterato il nulla parere: che tanto divario corre per l’appunto fra un illustre scrittore ed un volgar re, quanto ne correa tra un cittadino romano ed un servo asiatico eunuco.
Ma, parole al vento gittate sarebbero le mie, se altro aggiungessi per provar la supremazia del sublime ingegno su la volgare potenza: mi pare bensì di dover dir qualche cosa su la preeminenza tra un principe grande, e un grande scrittore; rarissime e sublimi piante l’una e l’altra, ma assai più rara, e sempre meno sublime, la prima.