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Vittorio Alfieri Del principe e delle lettere IntraText CT - Lettura del testo |
CAPITOLO OTTAVO.
Se tutti i pregi che si richiedono per fare il sublime scrittore, si trovassero pure riuniti in un principe, di quanto non dovrebbe egli primeggiar sovra tutti, poichè egli può operar tante cose, che lo scrittore può appena accennare? Questa mi pare una questione da doversi esaminare profondamente, per la semplice soddisfazione e persuasione dei più; che se io dovessi parlare a quei soli pochi, che giudicano per forza d’intimo sentimento, non la tratterei altrimenti. Ricapitolerei soltanto tutti i pregi dello scrittore sublime; cioè, sommo ingegno, integrità somma, conoscenza piena del vero, e non minore ardire nel praticarlo e nel dirlo. Da questo solo novero, verrei bastantemente a dimostrare, che se tali e tante doti potessero per semplice forza di natura trionfare degli ostacoli annessi al nascimento e educazione del principe, un uomo che se ne trovasse fornito, inorridirebbe tosto dell’esser principe, ed immediatamente cesserebbe di esserlo; e, divenendo facitore di così savie leggi che impedissero per sempre ogni futuro principe, egli verrebbe in tal modo (senza avvedersene) ad essere ad un tempo il primo degli scrittori tutti, e il solo vero gran principe che vi fosse mai stato. Dei tali non ne conosco dalle storie, che un solo: Licurgo, che di re si facea legislatore, poi cittadino; e quindi finalmente esule si faceva della riprocreata sua patria, per dare così più valore alle proprie leggi, acquetando con la sua lontananza l’invidia. Agide, e Cleomene, tentarono la stessa cosa più secoli dopo: il primo perì nella impresa; il secondo non la riuscì interamente. Per ciò la gloria loro è minore di quella di Licurgo; ma di gran lunga maggiore di quella d’ogni altro principe.
Ma si lasci a parte questa specie di grandezza, principesca ad un tempo e cittadinesca ed umana, la quale, per essere troppo sublime, se non vi fosse stato un Licurgo, verrebbe riputata più ideale che vera. Parliamo per ora delle tre specie di principi grandi di grandezza principesca soltanto; che appunto di tre sorti ce ne somministra alcuni, ed anche rari esempli, la storia. Scegliendo dunque un principe grande di ciascuna classe, e paragonandolo a un veramente grande scrittore, (e di questi non ve n’è se non d’una sola) mi affido di evidentemente dimostrare la verità.
La esatta misura della fama meritata e acquistata, innegabilmente sta nel maggiore o minore utile che si è arrecato agli uomini con imprese difficili, ardite, laboriose, e grandi, sì per se stesse, che pe’ loro effetti. I principi che noi chiamiamo grandi, erano eglino conquistatori? La loro virtù è dunque stata utile soltanto ai pochi dei loro sudditi, dannosa ai più, distruttiva pei moltissimi uomini vicini, incognita o di nessun effetto ai lontani, di debole esempio o di tristo incitamento ai loro successori, e in fine di sterile maraviglia alle susseguenti generazioni. Erano eglino legislatori? ma essi fondavano assoluti principati, e non repubbliche mai. E, fondando governi assoluti, hanno insultati ed oppressi i più; hanno innalzati, insuperbiti, e fatti o lasciati essere oppressori i pochi e malvagj: quindi la loro fama, in proporzione dell’utile arrecato agli uomini, riesce pur sempre picciolissima o nulla agli occhi dei savj; ed agli occhi della moltitudine è durata quanto l’imperio loro, o poco più. In fatti, per quanto sia stato grande Numa, credo che la fama di Giunio Bruto in Roma avanzasse di gran lunga, e giustamente, la sua; poichè Numa con tante savie leggi non avea però potuto o voluto impedire le seguenti tirannidi, che avvilita ed oppressa la tennero; e Bruto all’incontro, con una sola generosissima impresa, avea stabilito quella libertà da cui nacque la vera Roma, che fu poi per tre secoli la maggiore e la più perfetta cosa pubblica di cui si abbia esempio nel mondo. O, finalmente, grandi erano codesti principi per avere, in un regno già stabilito, governati i lor popoli con somma politica, umanità, e dolcezza? ora, qual trista specie di uomini è dunque codesta dei principi, a cui viene ascritto come somma virtù, a cui acquista immensa fama ed eterna, il semplice esercizio del loro più stretto dovere? esercizio, al quale (se essi ben distinguono le cose) va annessa ad un tempo con il maggior loro utile la loro propria intera e sola felicità. Fu egli mai riputato sommo verun giudice, pel non commettere evidenti ingiustizie? verun pastore, per non disperdere il proprio gregge? verun padre, pel non trucidare i suoi figli? un uomo, in somma, è egli tenuto maggiore degli altri, soltanto per non esser egli e scellerato e crudele? Così è, pur troppo! Tanta è la facilità, la possibilità, e l’invito al mal fare per chi sta sul trono, che chi, nol facendo, ha operato, o lasciato operare dalle leggi un certo anche minimo bene, è stato riputato grandissimo. E, vista la nostra debile ed insolente natura, allorchè alcun freno possente non la corregge, un tale principe si dee pur troppo riputare grandissimo.
Fra queste tre specie di principi magnati, piglierò per esempio della prima, Alessandro; della seconda, Ciro; della terza, Tito: e paragonerò l’utile da essi arrecato agli uomini, e quindi la somma della loro fama, alla fama ed utilità arrecata da un solo valente scrittore; e sia questi il più antico; il gran padre Omero.
Alessandro, le cui vittorie e conquiste da nessun principe non furono mai agguagliate, non giovò ai Macedoni; perchè, della infinita gente ch’egli estrasse dal proprio regno, il più gran numero ne periva nell’Asia; e dei pochi che si arricchirono della preda dei Persj, niuno quasi ne ritornava in Macedonia: e questa, allo svanire di quell’aura prima di gloria che al popolo conquistatore si aspetta, rimanea un picciolo regno da se, poco o nulla serbando di quelle sue già tante conquiste. Alessandro ai Greci non giovò, poichè dalla epoca sua si deve ripetere la intera cessazione della lor libertà, per cui sola i Greci si erano creati il primo popolo della terra: ai Persj non giovò, poichè distruggea il loro impero, smembrandolo: agli altri popoli del globo non arrecò nè utile, nè danno: ai principi nati dopo lui, e che senza le sue virtù imitare lo vollero, gran danno arrecò; e più ancora ai popoli posteriori, che furono di quelle mal nate abortive ambizioni la vittima: Alessandro, in fine, alla universalità delle successive generazioni null’altro lasciò di se stesso, se non il terrore, o la maraviglia, del nome.
Ciro giovò ai Persj fondando il loro impero, e assicurandolo con savie leggi; per quanto pure elle siano combinabili col governo d’un solo. Ma Ciro, come avviene in ogni principato, assai più giovò ai suoi successori re, che non ai suoi popoli. E in prova di ciò, tolta una certa disciplina militare, che neppur molto durava, e che in nulla era da paragonarsi alla greca e romana dappoi, in qual virtù, in quale arte divennero mai eccellenti i Persiani? quai lumi ebbero? quali ne arrecarono alle soggiogate nazioni? quai tratti di sublime grandezza d’animo ci hanno tramandati le loro storie? dove sono le loro storie? Un vasto e muto silenzio di molti secoli, interrotto di tempo in tempo da milioni di schiavi armati, e sempre disfatti da poche centinaia di Greci liberi, ogniqualvolta all’Europa affacciavansi; è questa la storia della nazione che nacque dalle leggi di Ciro: e se i greci scrittori stati non fossero, nè di Ciro, nè de’ suoi Persj, il nome pure pervenuto sarebbeci. L’utile arrecato da questo conquistatore legislatore a’ suoi popoli, fu dunque assai picciolo; alle remote nazioni fu assolutamente nullo; alle postere, nullo: ed il nome di Ciro, per essere più antico e non Greco, è anche rimasto assai minore di quello d’Alessandro. Tanto è vero, che negli imperj assoluti non viene nulla più riputato chi fonda che chi distrugge: ed è questa una tacita giustizia degli uomini, che con ciò dimostrano, che negli assoluti imperj anco il fondare è un mero distruggere.
Tito, appellato delizia del genere umano, giovò per pochi anni a Roma col rispettare alquanto le leggi da’ suoi predecessori barbaramente straziate; ma non ne fece pur niuna, che saldamente impedire potesse ai successori suoi di commettere le atrocità dei suoi antecessori. Qual utile effimero fu dunque mai questo? Perdonò Tito ad alcuni congiurati; ma ciò fece anche Augusto, e lo stesso Tiberio. Potea Tito giovare grandemente a Roma, tentando almeno di rifarla libera e virtuosa; ma ad una tal cosa neppure ei pensava. All’universale degli uomini non giovò egli, nè nocque; null’altro di lui rimane, che il nome; e questo si va proponendo ogni giorno per modello ai principi tutti. Tito non è perciò imitato; ma se pure il fosse, quale utile ne risulterebbe ai popoli sudditi? un brevissimo istante di precario respiro, per poi risoffrire al doppio le oppressioni del successore. Ed in fatti, se anco da noi tutti non si dovesse aver mai altri principi, che dei simili a Tito, ne saremmo quindi noi forse maggiormente uomini? nol credo; poichè i Romani non ridivennero maggiormente Romani sotto Tito, nè sotto Trajano, nè sotto gli Antonini, di quello che il fossero sotto Augusto, Tiberio, e Nerone. I veri Romani, cioè l’adunanza di tutte le virtù possibili in un ente umano, erano quella tal pianta, che allignar ben doveva a tempo dei Bruti, dei Catoni, e dei Fabj; ma, all’ombra dei Titi e dei Trajani, non mai.
Esaminate queste tre specie di principi grandi, veniamo presentemente al grande scrittore. Omero, verde e fresco dopo più di due mille anni, come se ier l’altro ei vivesse, agli uomini tutti presenti e futuri giova e gioverà; nè ad alcuno mai nocque, se non a chi volle, senza averne l’ingegno, imitarlo. La virtù, e la sublimità egli insegna; il cuore dell’uomo sviluppa e commove: guerriero egli e legislatore, amico degli uomini e del vero, gli illumina discoprendolo. Ed a così immenso giovamento quanto dal suo insegnare si trae, vi si aggiunge di più quell’immenso diletto che a tutti egli arreca; cosa che nessun gran principe, neppure giovando, non arrecava ai popoli mai. Omero fu invidiato da Alessandro, senza accorgersene questi, nello invidiargli Achille: ma, se Omero rivivendo paragonasse la sua propria fama a quella d’Alessandro, non credo io che egli mai Alessandro invidiasse.
Ma, quando anche in vita fossero essi stati, o sembrati uguali il gran principe e il grande scrittore, eguale non può mai essere in appresso la loro memoria e fama, per due potentissime ragioni. Prima; che il principe non può aver giovato che ai soli suoi popoli, e per un dato tempo; lo scrittore a tutti, e per sempre. Seconda; che il principe ha tratto la propria grandezza da mezzi che non erano in lui stesso; poichè, se non avesse egli avuto e stato e potenza, nessuna delle sue imprese avrebbe potuta condurre a buon fine: ed inoltre, di cotesta sua propria grandezza niuno stabile effetto ai posteri ne può il principe tramandare; null’altro del suo alla voracità del tempo involandosi, fuorchè la memoria ed il nome: e questi anche, se debbono rimanere grandi davvero, abbisognano pur sempre d’un grande scrittore. Al contrario lo scrittore sublime, tutto in se stesso, ed in se solo, trovando; fabro egli solo della propria grandezza, non meno che dell’utile altrui; alle seguenti età tramanda eternamente la viva sua fama, non quasi un vuoto nome, ma corroborata e giustificata dal proprio libro.