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Vittorio Alfieri
Del principe e delle lettere

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CAPITOLO SECONDO.

 

Se le lettere possano nascere, sussistere, e perfezionarsi, senza protezione.

 

Il solo titolo che promuove una sì fatta quistione, mi pare a bella prima una cosa interamente degna di riso. Egli è lo stesso per l’appunto, come il muovere quest’altra: Se sia vero che abbiano esistito e scritto, un Platone, un Cicerone, un Locke, e la lunga serie di tanti altri e Greci, e Romani, ed Inglesi sommi; i di cui libri rimanenti e palpabili immediatamente la sciolgono.

Ma la viltà moderna, che si fa riparo ed usbergo di se stessa, non osa pure, abbenchè sfacciatissima, negare che tali lettere e sì perfetti letterati senza protezione nessuna esistessero; ma ella afferma bensì, ciò non potere oramai esser più, vista la differenza dei tempi e degli uomini. Ed in prova di quanto asserisce, ne arreca gli esempj di diciotto secoli consecutivi; ed armandosi dei venerandi nomi di Virgilio, di Orazio, e degli altri dell’aureo secolo Augustano; e quindi dei nomi a noi non men cari, dell’Ariosto, Tasso, Bembo, Casa, e degli altri molti benchè inferiori posti pure a confronto co’ grandi del secolo Leonino; ed in ultimo armandosi dei recenti nomi dei Corneille, Racine, Moliere, Boileau, ed altri del bel secolo gallico; a conchiudere ne viene la moderna viltà, che senza gli Augusti, i Leoni, e i Luigi, codesti sommi scrittori non sarebbero stati; e che altri simili non ne potrebbero rinascere, senza dei simili protettori.

Io discuterò da prima, se non ne potrebbero esistere dei simili a questi, senza protezione veruna; quindi, se non sarebbero molto migliori, cioè più utili, que’ sommi scrittori, che in quasi nulla si assomigliassero a questi, e in quasi tutto si assomigliassero a quelli del secolo d’Atene.

E incomincio, col domandare: «Qual parte dell’ingegno e del libro di Orazio e di Virgilio era loro somministrata da Augusto?» Mi si risponde: «L’ozio, e gli agj, e quella pubblica stima, necessaria pur tanto al ben fare: e n’ebbero in oltre, i molli costumi di una splendida corte, la purità ed eleganza di un aureo sermone, che soltanto si può creare o perfezionare nelle corti.» Cioè (interpreto io la parola, nelle corti) in que’ tristi luoghi, dove gli uomini pel troppo desiderare e temere, nulla vagliono; dove, pel molto conoscersi ed odiarsi fra loro, e dal non ardirsi mostrare a viso scoperto il loro vicendevole dispregio, ne cavano i sottili e delicati modi di offendere, di lusingare, di chiedere, di negare, e di prendere. E questi sottili modi dappoi (perchè la tirannide, finchè non è giunta al sommo, non ritorna mai indietro) dai popoli, che nascendo dopo, nascono più schiavi ancora dei precedenti, vengono qualificati e reputati in appresso come la vera perfezione dell’eleganza del favellare.

Ecco dunque quanto può aver somministrato Augusto a Virgilio e ad Orazio. Ma poniamo, che Virgilio ed Orazio, fossero nati cavalieri romani, bastantemente provvisti dei beni di fortuna, e altamente educati, non avrebbero essi potuto senza Augusto scrivere con la stessa eleganza, e pensare qualche cosa più? Così l’Ariosto ed il Tasso, senza gli Esti, in Italia; Corneille, Racine, e Moliere, senza i Luigi, in Francia? Costoro dunque avrebbero, per se ed in se stessi, avute tutte le facoltà del loro ingegno per iscrivere, e ad un tempo tutti i mezzi che a loro venivano somministrati dai protettori; ma di più avuta ne avrebbero tutta quell’altezza d’animo che è sì necessaria al fortemente pensare, al fortemente sentire, ed al dir fortemente: e questa suole esser figlia soltanto degli indipendenti natali; e questa mai non s’impara: ma questa bensì dai protettori necessariamente si viene a togliere a chi da natura l’avesse; nè questa in somma si potrà mai da nessun protettore prestare a chi non l’avesse. Degli scrittori adunque simili a Virgilio Orazio, Ariosto, Tasso, Racine, Moliere, &cc., ne possono nei nostri, come in tutti i tempi, sussistere e fiorire senza protezione veruna, tosto che bisognosi di essa non nascono.

Ora, perchè dunque sempre gridare, che non vi sono Mecenati? che, se vi fossero.…. Quanto più ragionevole grido sarebbe il dolersi, che nella classe dei ben nati ed agiati uomini non vi siano degli animi forti innestati sopra forti ed acuti ingegni: poichè chiarissima cosa è, che alto animo, libere circostanze, forte sentire, ed acuto ingegno, sono i quattro ingredienti che compongono il sublime scrittore; ma non mai la mediocrità innestata su la protezione. Ma, se pure alcuno di questi sopra nomati, avvedendosi in tempo d’avere queste quattro doti, si riscuote, e si pone all’impresa, chi può negare che quegli senza Mecenate nessuno il tutto farà? e che tanto maggiormente il farà, che niuno protetto schiavo? Ora, perchè mai questi nobili o ricchi, e non stolti, che tanto orgoglio insultatore dispiegano nella pompa del loro servaggio; perchè costoro, con più vera nobiltà d’animo, non si fanno eglino, non protettori inetti di lettere, ma valenti letterati e scrittori essi stessi, e protettori quindi efficaci della verità e degli uomini? Ben altri mezzi avrebbero costoro nel principato, che ogni altr’uomo natovi umile e povero. Ma il timore, che maggiormente può in chi più ha, li disvia e impedisce; oltre che il nascere, per opinione stolta, fra i primi, toglie lor quell’impulso e quel divino furore di volersi far primi per realità. Ma, se pure il timore non concederà ai nobili o ricchi di divenire nel principato sublimi scrittori di feroci verità, qual cosa mai potrà loro impedire di assomigliarsi ai Virgilj, agli Orazj, Ariosti, Tassi, Racine, e simili? Si noti in oltre, che questi nobili facendosi scrittori, a eguale ingegno, tosto maggiori sarebbero di quelli non nobili e poveri: poichè, come non necessitosi, e assai men dipendenti, mondati sarebbero ed essi e i loro libri dalla feccia della vile adulazione e della sfacciata menzogna.

Ma i nobili e i ricchi nel principato, non vogliono essere (pur troppo!) nè poeti filosofi, nè semplicemente poeti. Quindi, vedendo io che in tale governo, chi ha più mezzi per coltivare le lettere, meno le coltiva; e vedendo, che vi si danno solamente coloro che a ciò fare hanno tutti gli ostacoli; o quelli, che mossi da un mediocrissimo impulso d’ingegno, sospinger si lasciano da un impulso assai più incalzante, dalla necessità, che è morte in parte del primo; verrei facilmente a conchiudere: «Che le lettere nel principato, ancorchè protette, non vi possono sussistere se non a stento, e male, e posticcie; appunto, per quella necessaria protezione che elle vi ricevono.» Il che mi pare assai diverso dal non potere esse sussistere senza protezione.

Venendo quindi alla seconda parte del mio assunto, brevemente dimostrerò, che quegli scrittori che farsi saprebbero dissimili dai sopra mentovati scrittori cortigiani, sarebbero assai migliori di essi. Chi vuole con imparzialità riflettere ed attribuire gli effetti alle vere cagioni, ed a ciascuno restituire il suo, è pur costretto a dire; che, sì il nascimento come la perfezione delle lettere, sono stati frutto da prima di libertà, e non di principato: ma, che i principi trovandosele poscia tra’ piedi, le hanno, col proteggerle, assai più deviate al mero diletto, che non accresciutele col farle più utili. E gli esempj pure una tal cosa ci provino. Virgilio ed Orazio tolsero bensì le invenzioni ed i metri dai Greci; ma da Augusto e dai loro tempi null’altro ne trassero che la timidità e la lusinga; e non ardirei aggiungervi, l’eleganza; poichè certamente questi due autori, come tutti gli altri Latini, più assai ne accattarono e ne trasportarono nel loro idioma dal Greco, che non dal bel favellare di Augusto e de’ suoi cortigiani. La più nobile parte di questi due eccellenti scrittori era dunque in loro trasmessa dalla passata greca libertà; la peggiore e la men necessaria, dal loro presente servaggio.

Così l’Ariosto ed il Tasso, che sono pure le due gemme del nostro bel secolo, presero dai nostri antichi, Dante, Petrarca, e Boccaccio, le invenzioni, i metri, e di più tutto il nerbo, il fiore, e la eleganza del favellare, che già si era perfezionato in Toscana, senza nè l’ombra pure di niuna medícea protezione. Ma, da essi stessi, e dai loro protettori, e dai tempi, altro non presero l’Ariosto ed il Tasso fuorchè il timore, le adulazioni, il poco e debolmente pensare. E così in Francia gli eleganti scrittori, benchè non vi appajano se non sotto l’apice della tirannide di Lodovico decimoquarto, non sono per ciò figli di essa: ma, le lettere preparate già nel precedente meno avvilito secolo, fiorirono poscia in quello; e, a dir vero, più assai vi fiorirono per forza d’imitazione dei Greci, Latini, e Toscani, che non per forza di protezione. Che la protezione, in somma, altro ajuto non può dare ai letterati, fuorchè i mezzi d’investigare, traspiantare, e farsi (ma deviandole) proprie, quelle lettere già nate, coltivate, e perfezionate senza protezione nel seno della creatrice libertà.

Ma questo triplice incalzante esempio di Dante, Petrarca, e Boccaccio, che non fiorirono sotto nessun principe, più che niun altro è atto a terminar la questione. La lingua toscana si è fatta colossale in mano di questi tre grandi, che per proprio impulso scrivevano, e non protetti: nelle loro mani riuniva questa lingua in se stessa la maggiore eleganza e delicatezza alla maggior brevità ed energia: ed ecco che la toscana, come la greca, perfezionavasi senza macchia di protezione. Ma nei due secoli susseguenti l’italiana letteratura essendo dai protettori traviata, poco o nulla si accrebbe la lingua quanto alla nuda eleganza, e tutto perdè quanto al sugo, brevità, e robustezza. In oltre, questi stessi tre sommi scrittori mi vagliano anche per una viva prova della immensa superiorità degli ingegni sprotetti sopra i protetti, A volersi convincere di quanto questi tre, e massime Dante, soverchiassero tutti i nostri seguenti scrittori, sì pel robusto pensare e forte sentire, che pel libero e ardito inventare, e per la eleganza e originalità di locuzione, credo che basti il metter loro a confronto l’Ariosto ed il Tasso come i due migliori che a quelli succedessero. E lascierò anche giudice colui, che sarà il più parziale di questi, se ci sia in essi cosa, e massime quanto alla locuzione e al concepire, che si possa agguagliare all’Ugolino, e ai tanti altri squarci non meno perfetti, ma meno conosciuti, di Dante; ovvero, ai perfetti sonetti, canzoni, e squarci dei trionfi del Petrarca. E giudice lascio parimente ciascuno, se il Tasso e l’Ariosto scrivendo fra i ceppi di corte, avrebbero ardito mai concepire quei veracissimi sonetti del Petrarca su Roma, o le tante satiriche, ma vere e libere terzine di Dante; ed anche quel solo suo verso su Roma; Paradiso, canto 17, verso 49.

Là dove Cristo tutto dì si merca:

 

e così, se l’Ariosto e il Tasso avrebbero senza l’ajuto di quei nostri due primi, e con l’ajuto dei soli loro Esti, inventata e condotta a sì alto punto la lingua. Ma giudichi pur anco chiunque all’incontro, se quegli stessi Dante e Petrarca, nati due secoli dopo, e preceduti già da due altri Danti e Petrarchi, non avrebbero anch’essi potuto eseguire i due poemi dell’Ariosto e del Tasso, e forse qualche cosa anche meglio: mentre a me par dimostrato, che l’Ariosto e il Tasso, o sia per l’essere stati protetti, o per l’essere nati minori, non avrebbero potuto mai eseguire molte canzoni, trionfi, e squarci liberi e forti del Petrarca, e nulla quasi del maschio, e feroce poema di Dante. E mi conviene pure osservare di passo, che in codesto poema di Dante era facile a chi fosse venuto dopo lui di emendare o sfuggirne le bizzarrie e le incoerenze; ma non mai di agguagliarne le infinite stragrandi bellezze. E circa al Petrarca, si osservi, che ancorchè andasse egli vagando di corte in corte, non essendo tuttavia inceppato in nessuna, non si contaminò quindi nè di adulazione, nè di falsità. Attribuisco io ciò, al non essere egli nato suddito di nessun di quei principi, in corte di cui praticava; al non essere i principi d’allora così immensamente assoluti, nè così oltraggiosamente distanti dai privati, come i nostri; poichè il re Roberto di Napoli, che poetava egli stesso, (e Dio sa come) più amico era e compagno, che non protettor del Petrarca: lo attribuisco in fine all’animo stesso del poeta, che per non essere egli nato in servitù, ancorchè perseguitato poscia dalla fortuna e bisognoso d’ogni cosa, non potè pure mai in appresso in nessun modo smentire i suoi non servi natali. Il Tasso all’incontro, nato figlio d’un segretario di un principuccio di Sorrento, ancorchè d’alto animo ei fosse, si trovava pure abbagliato dalla corte dei principotti estensi, che bisognoso di tutto lo aveano raccolto.

Ma d’una in un’altra prova, e seguendo io oramai più assai l’impeto del cuore che l’ordine delle ragioni, parmi pure che due se ne presentino a me così forti, che bastino sole a provare l’assunto di questo capitolo. Per convincere anche i più ostinati, che degli scrittori simili a Virgilio ed Orazio ne possono pure nascere e sussistere senza protezione, basta l’esempio del nostro Petrarca. Questi, per quanto le moderne povere e inceppate lingue ardiscano correre a prova delle due bellissime antiche, diede alla nostra una tale lirica sublimità ed eleganza, che non si andò mai più oltre. Il divino Petrarca, nel fraseggiare imitato con poca felicità, e con assai minore negli affetti, non è tuttavia niente sentito nè imitato nell’alto e forte pensare ed esprimersi; anzi, sotto un tale aspetto non è conosciuto se non da pochissimi. Così, a convincere che degli scrittori meno simili ai sopraccennati dei tre ultimi bei secoli, ma più simili a quelli del secolo primo d’Atene sussistere potrebbero e perfezionarsi nei moderni tempi, basti soltanto l’esempio di Dante. Se questo poeta non agguaglia sempre gli scrittori d’Atene nell’eleganza o delicatezza, o sia che nol voglia, o che nol creda necessario, o che inventando egli stesso la propria lingua nol possa; non resta certamente egli mai indietro di loro nella profondità, nell’ardire, nell’imitazione, evidenza, brevità, libertà, ed energia; qualità, che quasi tutte non ammettono principato, o che certo almeno protezion non ammettono. E se in una nazione due Danti consecutivi nascessero, il secondo ritroverebbe certamente il non plus ultra della letteratura; e tali due scrittori farebbero pensare gli uomini assai più, che non dieci Orazj e Virgilj.

Da quanto ho allegato finora, o siano ragioni, o sian fatti, mi pare (se pur non m’inganno) che non solamente possano sussistere le lettere e perfezionarsi senza protezione, ma che la sublimità di esse non possa veramente sussistere sotto protezione. E di Dante mi sono prevaluto per prova, perchè io molto lo leggo, e mi pare di sentirlo, e d’intenderlo: di Omero, di Sofocle, o di altri simili massimi e indipendenti scrittori mi sarei pure prevaluto per prova, se nella loro divina lingua mi fosse dato di leggerli. Ma in Dante solo mi pare d’aver io bastantemente ritrovata la irrefutabile dimostrazione del mio assioma; poichè Dante senza protezione veruna ha scritto, ed è sommo, e sussiste, e sempre sussisterà: ma nessuna protezione ha mai fatto, nè vorrebbe, nè potrebbe far nascere un Dante. Potrebbe la protezion principesca bensì, dove un tanto uomo nascesse, impedirlo; pur troppo!

 

 

 




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