-- OMELIA DEL SANTO PADRE
La lettura tratta dal profeta Isaia e il Vangelo di questo giorno mettono
davanti ai nostri occhi una delle grandi immagini della Sacra Scrittura:
l’immagine della vite. Il pane rappresenta nella Sacra Scrittura tutto quello di
cui l’uomo ha bisogno per la sua vita quotidiana. L’acqua dà alla terra la
fertilità: è il dono fondamentale, che rende possibile la vita. Il vino invece
esprime la squisitezza della creazione, ci dona la festa nella quale
oltrepassiamo i limiti del quotidiano: il vino “allieta il cuore”. Così il vino
e con esso la vite sono diventati immagine anche del dono dell’amore, nel quale
possiamo fare qualche esperienza del sapore del Divino. E così la lettura del
profeta, che abbiamo appena ascoltato, comincia come cantico d’amore: Dio si è
creato una vigna - un’immagine, questa, della sua storia d’amore con l’umanità,
del suo amore per Israele, che Egli si è scelto. Il primo pensiero delle
letture di oggi è quindi questo: all’uomo, creato a sua immagine Dio ha infuso
la capacità di amare e quindi la capacità di amare anche Lui stesso, il suo
Creatore. Con il cantico d’amore del profeta Isaia Dio vuole parlare al cuore
del suo popolo – e anche a ciascuno di noi. “Ti ho creato a mia immagine e
somiglianza”, dice a noi. “Io stesso sono l’amore, e tu sei la mia immagine
nella misura in cui in te brilla lo splendore dell’amore, nella misura in cui
mi rispondi con amore”. Dio ci aspetta. Egli vuole essere amato da noi: un
simile appello non dovrebbe forse toccare il nostro cuore? Proprio in quest’ora
in cui celebriamo l’Eucaristia, in cui inauguriamo il Sinodo sull’Eucaristia,
Egli ci viene incontro, viene incontro a me. Troverà una risposta? O accade con
noi come con la vigna, di cui Dio dice in Isaia: “Egli aspettò che producesse
uva, ma essa fece uva selvatica”? La nostra vita cristiana spesso non è forse
molto più aceto che vino? Autocommiserazione, conflitto, indifferenza?
Con ciò siamo arrivati automaticamente al secondo pensiero fondamentale delle
letture odierne. Esse parlano innanzitutto della bontà della creazione di Dio e
della grandezza dell’elezione con cui Egli ci cerca e ci ama. Ma poi parlano
anche della storia svoltasi successivamente – del fallimento dell’uomo. Dio
aveva piantato viti sceltissime e tuttavia era maturata uva selvatica. In che
cosa consiste questa uva selvatica? L’uva buona che Dio si aspettava – dice il
profeta – sarebbe consistita nella giustizia e nella rettitudine. L’uva
selvatica sono invece la violenza, lo spargimento di sangue e l’oppressione,
che fanno gemere la gente sotto il giogo dell’ingiustizia. Nel Vangelo
l’immagine cambia: la vite produce uva buona, ma gli affittuari la trattengono
per sé. Non sono disposti a consegnarla al proprietario. Bastonano e uccidono i
messaggeri di lui e uccidono il suo Figlio. La loro motivazione è semplice:
vogliono farsi essi stessi proprietari; si impossessano di ciò che non
appartiene a loro. Nell’Antico Testamento in primo piano c’è l’accusa per la
violazione della giustizia sociale, per il disprezzo dell’uomo da parte
dell’uomo. Sullo sfondo appare però che, con il disprezzo della Torah, del
diritto donato da Dio, è Dio stesso che viene disprezzato; si vuole soltanto
godere del proprio potere. Questo aspetto è messo in risalto pienamente nella parabola
di Gesù: gli affittuari non vogliono avere un padrone – e questi affittuari
costituiscono uno specchio anche per noi. Noi uomini, ai quali la creazione,
per così dire, è affidata in gestione, la usurpiamo. Vogliamo esserne i padroni
in prima persona e da soli. Vogliamo possedere il mondo e la nostra stessa vita
in modo illimitato. Dio ci è d’intralcio. O si fa di Lui una semplice frase
devota o Egli viene negato del tutto, bandito dalla vita pubblica, così da
perdere ogni significato. La tolleranza, che ammette per così dire Dio come
opinione privata, ma gli rifiuta il dominio pubblico, la realtà del mondo e
della nostra vita, non è tolleranza ma ipocrisia. Laddove però l’uomo si fa
unico padrone del mondo e proprietario di se stesso, non può esistere la
giustizia. Là può dominare solo l’arbitrio del potere e degli interessi. Certo,
si può cacciare il Figlio fuori della vigna e ucciderlo, per gustare
egoisticamente da soli i frutti della terra. Ma allora la vigna ben presto si
trasforma in un terreno incolto calpestato dai cinghiali, come ci dice il Salmo
responsoriale (cfr Sal 79,14).
Così giungiamo al terzo elemento delle letture odierne. Il Signore, nell’Antico
come nel Nuovo Testamento, annuncia alla vigna infedele il giudizio. Il
giudizio che Isaia prevedeva si è realizzato nelle grandi guerre ed esili ad
opera degli Assiri e dei Babilonesi. Il giudizio annunciato dal Signore Gesù si
riferisce soprattutto alla distruzione di Gerusalemme nell’anno 70. Ma la
minaccia di giudizio riguarda anche noi, la Chiesa in Europa, l’Europa e
l’Occidente in generale. Con questo Vangelo il Signore grida anche nelle nostre
orecchie le parole che nell’Apocalisse rivolse alla Chiesa di Efeso: “Se non ti
ravvederai, verrò da te e rimuoverò il tuo candelabro dal suo posto” (2,5).
Anche a noi può essere tolta la luce, e facciamo bene se lasciamo risuonare
questo monito in tutta la sua serietà nella nostra anima, gridando allo stesso
tempo al Signore: “Aiutaci a convertirci! Dona a tutti noi la grazia di un vero
rinnovamento! Non permettere che la tua luce in mezzo a noi si spenga! Rafforza
tu la nostra fede, la nostra speranza e il nostro amore, perché possiamo
portare frutti buoni!”.
A questo punto però sorge in noi la domanda: “Ma non c’è nessuna promessa,
nessuna parola di conforto nella lettura e nella pagina evangelica di oggi? È
la minaccia l’ultima parola?” No! La promessa c’è, ed è essa l’ultima,
l’essenziale parola. La sentiamo nel versetto dell’Alleluia, tratto dal Vangelo
di Giovanni: “Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui,
porta molto frutto” (Gv 15,5). Con queste parole del Signore, Giovanni ci
illustra l’ultimo, il vero esito della storia della vigna di Dio. Dio non
fallisce. Alla fine Egli vince, vince l’amore. Una velata allusione a questo si
trova già nella parabola della vigna proposta dal Vangelo di oggi e nelle sue
parole conclusive. Anche lì la morte del Figlio non è la fine della storia,
anche se non viene direttamente raccontata. Ma Gesù esprime questa morte
mediante una nuova immagine presa dal Salmo: “La pietra che i costruttori hanno
scartata è diventata testata d’angolo …” (Mt 21, 42; Sl 117, 22). Dalla morte
del Figlio scaturisce la vita, si forma un nuovo edificio, una nuova vigna.
Egli, che a Cana cambiò l’acqua in vino, ha trasformato il suo sangue nel vino
del vero amore e così trasforma il vino nel suo sangue. Nel cenacolo ha
anticipato la sua morte e l’ha trasformata nel dono di se stesso, in un atto
d’amore radicale. Il suo sangue è dono, è amore, e per questo è il vero vino
che il Creatore aspettava. In questo modo Cristo stesso è diventato la vite, e
questa vite porta sempre buon frutto: la presenza del suo amore per noi, che è
indistruttibile.
Così, queste parabole sfociano alla fine nel mistero dell’Eucaristia, nella
quale il Signore ci dona il pane della vita e il vino del suo amore e ci invita
alla festa dell’amore eterno. Noi celebriamo l’Eucaristia nella consapevolezza
che il suo prezzo fu la morte del Figlio – il sacrificio della sua vita, che in
essa resta presente. Ogni volta che mangiamo di questo pane e beviamo di questo
calice, noi annunciamo la morte del Signore finché Egli venga, dice san Paolo
(cfr 1 Cor 11,26). Ma sappiamo anche che da questa morte scaturisce la vita,
perché Gesù l’ha trasformata in un gesto oblativo, in un atto di amore,
mutandola così nel profondo: l’amore ha vinto la morte. Nella santa Eucaristia
Egli dalla croce ci attira tutti a sé (Gv 12,32) e ci fa diventare tralci della
vite che è Egli stesso. Se rimaniamo uniti a Lui, allora porteremo frutto anche
noi, allora anche da noi non verrà più l’aceto dell’autosufficienza, della
scontentezza di Dio e della sua creazione, ma il vino buono della gioia in Dio
e dell’amore verso il prossimo. Preghiamo il Signore di donarci la sua grazia,
perché nelle tre settimane del Sinodo che stiamo iniziando non soltanto diciamo
cose belle sull’Eucaristia, ma soprattutto viviamo della sua forza. Invochiamo
questo dono per mezzo di Maria, cari Padri sinodali, che saluto con tanto
affetto, insieme alle diverse Comunità dalle quali provenite e che qui
rappresentate, perché docili all’azione dello Spirito Santo possiamo aiutare il
mondo a diventare in Cristo e con Cristo la vite feconda di Dio. Amen.
[00004-01.04] [NNNNN] [Testo originale: italiano]
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