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Platone
Il Fedone

IntraText CT - Lettura del testo

  • XXXVII
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XXXVII

«Non è mica tanto sbagliato quello che dice Simmia,» e Socrate volse intorno quel suo sguardo penetrante che gli conoscevamo, poi soggiunse sorridendo. «Se qualcuno di voi si sente meno incerto di me, risponda pure; infatti, mi pare proprio che Simmia abbia mosso un attacco in piena regola alla mia tesi. Sarebbe, però, opportuno che, prima di rispondere, sentissimo cosa ne pensa Cebete, anche per prenderci tempo per la nostra risposta. Dopo che li avremo ascoltati entrambi, o accetteremo le loro obiezioni, se ci sembreranno intonate, o riprenderemo a difendere la nostra tesi tutta da capo. E, allora, parla, Cebete, pure quello che ti rende perplesso

«Eccomi qua,» rispose Cebete: «mi pare che la discussione sia ferma allo stesso punto e che su quanto abbiamo detto ora si possono fare le stesse obiezioni di prima. Che la nostra anima esista anche prima di assumere la forma umana, io non lo nego: la cosa, infatti, è stata dimostrata con molta finezza e, senza voler essere presuntuosi, anche in modo del tutto soddisfacente; ma che l'anima, anche dopo la nostra morte, continui a vivere, questo, poi, proprio non mi persuade. D'altro canto non sono nemmeno d'accordo su quanto ha detto Simmia, che, cioè, l'anima non sia affatto più forte e resistente del corpo. Son convinto, invece, che c'è una gran bella differenza, sotto tutti i punti di vista. ‹Ma, allora,› tu potresti dirmi nel tuo ragionamento, ‹perché hai ancora dei dubbi, quando vedi che dopo la morte dell'uomo la sua parte più debole continua ad esistere? Non ti pare allora che anche la parte più resistente e durevole, necessariamente, debba continuare a vivere, almeno quanto l'altra?› Vedi un po', ora, se a questo proposito, dico bene, perché anch'io, come Simmia, devo parlare per immagini. Io credo che lo stesso discorso si potrebbe fare a proposito di un vecchio tessitore morto e dire che il poveretto non è mica morto ma viva sano e vegeto in qualche parte e, a prova di questo, si mostrasse il mantello che egli indossava e che si era tessuto con le sue mani, ancora in buone condizioni e per niente rovinato. A chi non volesse crederci, si potrebbe domandare se sia più lunga la vita di un uomo o quella del mantello che indossa. Indubbiamente la risposta sarebbe che è più lunga la vita di un uomo e con ciò, a più forte ragione, sarebbe dimostrato che l'uomo è senz'altro vivo, dato che il mantello, che è cosa meno durevole, non è ancora consumato. Ma io credo, Simmia, che le cose non stiano così; cerca, perciò di seguirmi. Ognuno può rendersi conto che questa tesi è molto debole. Infatti, questo tuo tessitore, che ha tessuto e consumato molti mantelli, se è vero che è morto dopo averne usati molti, è anche vero che egli ha cessato di vivere prima di aver consumato l'ultimo e questo non mi sembra affatto un motivo valido per affermare che l'uomo sia da meno e più debole di un mantello. Lo stesso esempio potrebbe farsi, penso, riguardo all'anima e ai suoi rapporti col corpo e credo che andrebbe proprio bene, cioè che l'anima è di natura molto resistente, il corpo, invece, più fragile e meno durevole. In realtà, si potrebbe dire che ogni anima logora molti corpi, specialmente poi se vive per molti anni (supponiamo, infatti, che mentre l'uomo vive se il corpo è come un flusso che scorre e si esaurisce, l'anima, invece, rinnova via via ciò che si consuma); ma è inevitabile che essa, quando giunge l'ora della morte, si troverà ad avere la sua ultima veste e che muoia, quindi, prima di questa. Morta l'anima, il corpo, allora, rivelerà tutta la sua fragilità e, corrompendosi rapidamente, si dissolverà. Da questo discorso, ne viene, di conseguenza, che noi non possiamo ancora credere che, dopo morti, la nostra anima continui a vivere da qualche parte. Ma voglio anche concederti più di quanto affermi, ammettere, cioè, che le nostre anime non solo siano esistite prima della nostra nascita, ma che nulla impedisce che esistano anche dopo la nostra morte in altri esseri che nasceranno e morranno (e l'anima è, per sua natura, così resistente da poter sopportare tutte queste reincarnazioni); ammesso tutto ciò, non si potrebbe mai concederti che l'anima non si indebolisca in queste continue rinascite e che, alla fine, in una delle tante sue morti corporali, non muoia anch'essa definitivamente, una buona volta. In verità, tu potresti affermare che nessuno può saperne nulla di quest'ultima morte del corpo che segna anche la rovina dell'anima - infatti è impossibile per qualsiasi di noi averne completa consapevolezza -; in tal caso, nessuno può giustificare la sua tranquillità dinanzi alla morte, se non è in grado di provare che l'anima è senz'altro immortale e indistruttibile, almeno che non la giudichi egli stesso un'insensatezza. Diversamente, chi sta per morire, deve per forza temere per la propria anima, che, al momento della sua separazione dal corpo, noti si dissolva anch'essa del tutto.»




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