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Platone
Il Fedone

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  • XLV
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XLV

Socrate rimase a lungo in silenzio, tutto assorto in un suo pensiero, poi disse: «Non è una questione da nulla questa che proponi, perché si tratta di indagare sulle cause della vita e della morte. E io voglio incominciare col narrarti, se lo desideri, quello che è capitato a me, in proposito; e se ciò che dico ti sembrerà utile, giovatene pure per rendere convincente la tua tesi

«Ma certo,» assicurò Cebete, «è proprio questo che voglio.»

«Sta attento, allora, a quel che sto per dirti. Quando ero giovane, Cebete, avevo una gran passione per quella scienza che vien detta storia naturale; mi sembrava, infatti, che fosse una disciplina meravigliosa quella che insegnava a conoscere le cause delle singole cose, della loro nascita e della loro morte, nonché il mistero della loro vita. E spesso gravi dubbi sorgevano in me quando meditavo su questi problemi: ‹Che forse quando il caldo e il freddo producono una specie di putrefazione, come dicono alcuni, si ha allora la vita?› - ‹O è forse il sangue che origine, in noi, al pensiero, o l'aria, o il fuoco?› - ‹O nulla di tutto questo, ma è il cervello, invece, che ci le sensazioni dell'udito, della vista, dell'olfatto, dalle quali poi nascerebbero la memoria e le opinioni che una volta stabilizzatesi in noi, ci darebbero, poi, la conoscenza?› E andavo studiando anche i processi opposti, il morir delle cose e le vicende del cielo e della terra, ma, alla fine, dovetti persuadermi di non essere assolutamente portato per studi di questo genere. E te ne darò una prova sufficiente: infatti, quello che sapevo prima, in modo abbastanza chiaro, o almeno, così sembrava e non solo a me ma anche agli altri, dopo quelle mie ricerche, mi divenne così oscuro che disimparai letteralmente tutto ciò che prima credevo di sapere, una tra le tante, per esempio, come fa l'uomo a crescere. Prima d'allora credevo che fosse una cosa evidente che l'uomo cresce perché si ciba e si disseta. Infatti, quando col cibo si aggiungono carne alla carne e ossa alle ossa e, così, per la stessa legge, ogni elemento specifico alle altre parti, credevo, allora, che, in tal modo, il volume del corpo, da piccolo che era, divenisse più grande. Così io pensavo e non ti pare che avessi ragione

«Secondo me, sì,» rispose Cebete.

«Continua a seguirmi. Io credevo che fosse giusto pensare che un uomo alto posto accanto a uno piccolo sembrasse più grande, appunto, per il capo e, così, un cavallo, rispetto a un altro; e posso farti altri esempi anche più lampanti: dieci, mi pareva che fosse più di otto per il fatto che ha due unità in più e che la misura di due cubiti fosse più grande di quella di un cubito perché superiore della metà

«Ma qual è, ora, la tua opinione in propositointervenne Cebete.

«Ah, io oraesclamò, «sono ben lontano dal credere di conoscere la causa di questi fatti, io che non mi azzardo più ad ammettere che un'unità cui si aggiunga un'altra unità, diventa due o che, per questa aggiunta, risultino tali sia la prima che la seconda unità. Non so proprio rendermi conto come, finché ciascuna di queste unità era separata dall'altra, fosse una e non due mentre, poi, una volta congiunte insieme, ecco che son diventate due e la causa di questo sia stata proprio l'averle collocate l'una accanto all'altra. Del resto non riesco più nemmeno a capacitarmi come, dividendo per metà un'unità, essa diventi due, per il fatto stesso della divisione, cioè per una causa contraria alla precedente per la quale l'uno era ugualmente diventato due. Prima, infatti, l'uno è diventato due perché un'unità era stata aggiunta a un'altra e ora, invece, perché l'una viene allontanata e separata dall'altra. Non mi faccio più alcuna illusione di sapere com'è che si forma quest'unità né, in una parola, come nasce, vive e muore ogni altra cosa con questo sistema che non mi fa approdare più a nulla. Ecco, perciò, la necessità di trovare un nuovo metodo, ma così, a caso magari perché questo non va assolutamente.




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