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Platone
Il Fedone

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  • LXIII
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LXIII

«Certamente, affannarsi a dimostrare che le cose stanno proprio così come io le ho esposte, non mi pare troppo assennato; ma che sia questa la sorte delle nostre anime, questa la loro dimora o presso a poco, dal momento che s'è indiscutibilmente dimostrato la loro immortalità, mi sembra che valga proprio il rischio di crederlo. Bello, infatti, è questo rischio e, in simili argomenti v'è, per così dire, come un incantesimo che bisogna fare a se stessi, ecco perché, da un pezzo mi sto indugiando nel mio racconto. Ma ecco anche perché deve aver fede nella sorte della sua anima chi nella vita ha allontanato i piaceri del corpo e i suoi vezzi, considerandoli del tutto estranei, anzi più dannosi che altro; chi ha goduto, invece, dei piaceri che la sapienza, chi ha abbellito la sua anima non di ornamenti esteriori ma di quelli che le si addicono, temperanza, giustizia, fortezza, libertà, verità, costui sì che attende il momento di mettersi in viaggio verso l'Ade, quando lo chiami il destino

E così concluse: «Anche voi, Simmia e Cebete e tutti gli altri, ve ne partirete, uno alla volta, quando verrà la vostra ora; quanto a me, invece, il destino già mi chiama, direbbe qui un eroe tragico, e quindi, quasi quasi è il momento che io faccia un bagno: è più giusto, infatti, che mi lavi da me, prima di bere il veleno e non dar così il fastidio alle donne di dover lavare un cadavere




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