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Platone
Il Fedone

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  • VII
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VII

«Può essereammise Cebete. «Ma quello che mi sembra assurdo è il fatto che proprio i filosofi debbano desiderare la morte se, come dicevi poco fa, di noi si prendono cura gli dei e, anzi, noi stessi siamo un loro possesso. Infatti non riesco proprio a capire come costoro, che sono i più saggi, non debbano dolersi di liberarsi, con la morte, da questa tutela che gli impedisce di continuare a servire i migliori padroni che ci siano, cioè gli dei. Infatti, non è possibile credere che un uomo con la testa sulle spalle possa pensare di star meglio, una volta libero; soltanto un pazzo potrebbe avere una simile idea e credere che sia un bene fuggire dal proprio padrone, senza pensare che è, invece, un grosso errore e che è un bene, al contrario, restar legati, quanto più è possibile, al buon padrone: chi ha un po' di senno, desidera restare sempre con chi è migliore di lui. Il fatto è, Socrate, che così ragionando, veniamo ad affermare proprio il contrario di quello che dicevamo prima, che cioè gli uomini di buon senso si dolgono di morire e gli sciocchi, al contrario, se ne rallegrano

Socrate s'era tutto rallegrato (almeno così mi pareva) ascoltando il fervorino di Cebete e, rivolgendosi dalla nostra parte, disse: «Come al solito Cebete va in cerca di sottigliezze e non si lascia mica tanto facilmente convincere da quello che gli dicono gli altri.»

«Sì, però, stavoltaintervenne Simmia, «mi pare che nel ragionamento di Cebete ci sia qualcosa di valido. Per qual motivo, infatti, degli uomini di buon senso dovrebbero fuggire e piantare in asso padroni migliori di loro? E, poi, mi pare che Cebete ce l'avesse proprio con te che, a cuor leggero, vuoi abbandonare non soltanto noi, ma anche degli ottimi padroni, quali, come tu stesso dici, sono gli dei.»

«Avete ragione. Ed io credo che voi vogliate proprio invitarmi a difendermi da queste argomentazioni, come se fossi in tribunale

«Proprio così,» confermò Simmia.




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