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Platone Il Fedone IntraText CT - Lettura del testo |
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XIII «E non pensi,» riprese «sia una prova più che sufficiente vedere uno che, in punto di morte, si rattrista, per dire che egli non è amante della sapienza ma del proprio corpo? Anzi, c'è da credere che costui amerà anche ricchezze e onori o addirittura le due cose insieme.» «Di sicuro, è proprio come dici tu.» «E dimmi un po', Simmia, ciò che noi chiamiamo coraggio, non si addice, forse, in modo particolare, ai filosofi?» «Senza dubbio.» «E la temperanza, quella che comunemente si chiama così, cioè quell'atteggiamento distaccato e prudente in virtù del quale si dominano le passioni, non è proprio e soltanto di quelli che disprezzano il corpo e vivono da filosofi?» «Certo.» «E se pensi un po' al coraggio e alla temperanza degli altri uomini, vedrai che sono ben strani.» «Lo sai che tutti gli altri uomini considerano la morte tra i mali peggiori?» «E che quelli, tra costoro, che si ritengono coraggiosi, quando sono a tu per tu con la morte, l'affrontano per il timore di mali ancora più grandi?» «È così.» «E, dunque, tutti paurosi e vigliacchi nel loro coraggio, tranne i filosofi, anche se è una contraddizione dire che si è coraggiosi per paura e per viltà.» «Ah, certo.» «E passiamo a quelli che sono i temperanti; non è per una sorta di intemperanza che sono tali? Potremmo dire che anche questo è assurdo, ma, in effetti, costoro, in virtù di questa loro specie di temperanza, si vengono a trovare in una situazione analoga. Infatti, solo nel timore di privarsi di certi piaceri, che essi desiderano e di cui sono schiavi, rinunciano ad altri. Ma l'esser dominato dai piaceri è proprio dell'intemperante ed è quello che succede a costoro che, solo per godere di alcuni piaceri, ne dominano altri. Questo era quello che volevo dire poco fa quando accennavo che per intemperanza costoro sono temperanti.» «E, infatti, è così.» «Ma questo, caro Simmia, non è proprio un cambio all'insegna della virtù, questo barattare piaceri con piaceri, dolori con dolori, paura con paura, una cosa che vale di più con una che vale di meno, come se fossero monete. E, invece, bisognerebbe dar via tutto per la sola moneta che vale, il sapere, grazie alla quale si possono davvero vendere e comprare coraggio, saggezza, giustizia, insomma la virtù vera, non disgiunta dalla sapienza, si accompagnino, poi, o meno, piaceri, timori e passioni del genere. «Quando, invece, tutto questo è separato dal sapere e diviene oggetto di mutuo scambio, oh, allora, non è vera virtù ma la sua apparenza ingannevole, una virtù d'accatto, che non ha nulla di sano e di vero. Piuttosto là verità è che la temperanza, il coraggio, la giustizia nascono quando ci si purifica di tutte queste passioni e che il sapere è, forse, il mezzo per questa purificazione. «Inoltre io non credo che siano stati uomini dappoco quelli che istituirono i Misteri i quali, sotto il velo dell'enigma, ci hanno pur detto, fin dai tempi più remoti, che chi giungerà nell'oltretomba, come un profano, senza esserne iniziato, giacerà immerso nel fango, mentre chi vi giungerà purificato e consapevole, abiterà con gli dei. Perché, vedi, come dicono gli interpreti dei Misteri, ‹molti portano il tirso ma pochi sono i veri iniziati›. E solo questi ultimi, a mio avviso, son quelli che si son dedicati nel vero senso della parola, alla filosofia. E per essere anch'io dei loro, nulla ho trascurato nella mia vita ma anzi, per quanto ho potuto, vi ho messo tutto lo zelo e, se ho agito rettamente, se ho ottenuto qualche risultato, lo sapremo quando, a dio piacendo, saremo di là, come io credo. «Questa è la mia difesa, o Simmia e Cebete, e queste le ragioni per cui, lasciando voi e i miei padroni di quaggiù, io non sono in pena né in collera, dal momento che sono convinto di trovare laggiù, non meno che qui, padroni e amici altrettanto buoni. La gente non presta fede a queste cose, è vero, ma io sarei felice se in questa mia difesa fossi stato con voi più persuasivo di quanto non fui con i giudici ateniesi.»
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