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Platone
Il Fedone

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  • XXIV
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XXIV

«Eppure, se non mi sbaglio, tu e Simmia, vorreste esaminare più a fondo la questione perché mi pare che siete spaventati come dei bambini, quasi che l'anima, appena fuori del corpo, se la portasse via il vento e la disperdesse, specie poi quando ci tocca morire non con tempo sereno ma in mezzo a una gran bufera.»

«E tu assicuraci, Socrate,» fece Cebete, sorridendo, «come se noi, effettivamente, avessimo paura o meglio, come se non fossimo noi ad essere spaventati ma quel fanciullo che è in noi. Dunque, fa in modo che questo fanciullo non abbia paura della morte come del bau-bau.»

«Bisognerebbe fargli ogni giorno gli incantesimi,» ammise Socrate, «per liberarlo da questi timori.»

«E dove andremo a trovarlo un incantatore capace, per queste paure, visto che tu ci stai per lasciare?»

«Oh, Cebete, la Grecia è grande,» rispose, «e non manca di uomini in gamba; e poi, vi sono i paesi esteri, verso i quali voi dovete rivolgere le vostre ricerche. E non risparmiate né spese né fatiche per un tale incantatore, perché voi non potreste spendere meglio il vostro denaro. Ma soprattutto datevi da fare voi stessi, gli uni con gli altri, perché è difficile che troviate persone capaci di assolvere questo compito, più che voi stessi.»

«Ma certo, lo faremo,» assicurò Cebete. «Però, ora, se non ti dispiace, torniamo al punto dove eravamo.»

«Affatto, figurati, perché dovrebbe?»

«Bene, allora.»




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