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Platone Il Fedone IntraText CT - Lettura del testo |
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XXXV Un lungo silenzio seguì a queste parole di Socrate che, a guardarlo, sembrava tutto assorto a ripensare a quanto aveva detto, come, del resto, un po' tutti noi. Soltanto Cebete e Simmia continuavano a discorrere tra loro a bassa voce. «Dite un po', voi due,» fece Socrate quando se ne accorse, «forse che quanto s'è detto non vi ha soddisfatti? Certo che se si volesse approfondire la questione, ci sarebbero ancora molti punti da chiarire e parecchie obiezioni da fare. Se, però, voi state parlando di altro io ho finito, ma se avete qualche incertezza in proposito, parlate pure, dite le vostre ragioni, se vi pare di poter meglio precisare qualche punto e servitevi pure di me se questo vi potrà giovare.» «Ebbene, Socrate,» ammise Simmia, «la verità è che da un pezzo noi abbiamo qualche dubbio in proposito e ci stiamo esortando a vicenda a farti delle domande, perché vorremmo sentire il tuo parere, ma abbiamo paura di darti fastidio, di turbarti troppo nella presente sventura.» Sorrise Socrate placidamente a queste parole: «Purtroppo, Simmia, mi sarà difficile persuadere gli altri del fatto che io non reputo una sventura la mia sorte presente, dal momento che non riesco a convincere nemmeno voi che ve ne state lì tutti preoccupati, credendo che io sia d'un umore più tetro che per il passato. Si vede che in fatto di virtù profetiche voi mi giudicate assai meno dei cigni che, pur avendo sempre cantato, quando sentono vicina la morte, levano più alto e più bello il loro canto, lieti perché sanno di recarsi presso il dio di cui sono i ministri. Gli uomini, invece, con tutta la loro paura della morte, interpretano erroneamente questo canto e dicono che essi si lamentano così perché stanno per morire e, quindi, cantano per il dolore, senza sapere che nessun uccello canta se ha fame o ha freddo o sta male, nemmeno l'usignolo, la rondine o l'upupa, anche se si dice che il loro canto sia un pianto di dolore; nessun uccello, credo, canta per il dolore e tanto meno i cigni che son sacri ad Apollo e che, perciò, dotati come sono di senso profetico, prevedono le delizie dell'Ade e cantano felici, in quell'occasione, più di quanto non abbiano mai fatto in tutta la loro vita. «Credo di essere anch'io simile ai cigni, nella mia devozione al dio e sacro a lui e di aver avuto dal mio signore, non meno di loro, il dono della profezia e di non staccarmi dalla vita meno lietamente. Per questo voi dovete dirmi e chiedermi ciò che volete finché ce lo concedono gli Undici di Atene.» «Va bene, allora,» disse Simmia. «Comincerò io a dirti i miei dubbi e Cebete, poi, ti dirà quello che non approva di quanto è stato detto. Mi sembra, Socrate, e forse sarai anche tu del mio parere, che essere così sicuri su certe questioni, sia una cosa impossibile o, per lo meno, molto difficile, almeno in questa vita; d'altronde, io penso che il non esaminare da un punto di vista critico le cose che si son dette, il lasciar perdere il problema, prima di averlo indagato sotto ogni aspetto, sia proprio dell'uomo dappoco; quindi, in casi simili, non c'è altro da fare: o imparare da altri, come stanno le cose, o trovare da sé, oppure, se questo è impossibile, accettare l'opinione degli uomini, la migliore s'intende, e la meno confutabile e con essa, come su di una zattera, varcare a proprio rischio il gran mare dell'esistenza, a meno che uno non abbia la possibilità di far la traversata con più sicurezza e con minor rischio su una barca più solida, cioè con l'aiuto di una rivelazione divina. Ecco perché io, ora, non mi faccio scrupolo di interrogarti, dal momento che anche tu insisti e d'altra parte non voglio che, un domani, io debba rammaricarmi di non averti detto quello che oggi penso. Infatti, Socrate, ripensando tra me e poi anche con Cebete, alle questioni discusse, non mi sembra che siano molto chiare.»
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