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Platone
Il Protagora

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[316] Eravamo appena entrati e dietro di noi arrivarono Alcibiade il bello - come tu lo chiami e io sono d’accordo - e Crizia, il figlio di Callescro. Quando noi entrammo, avendo indugiato un poco e osservate queste cose, ci avvicinammo a Protagora e io dissi: "Protagora, io e questo Ippocrate che vedi siamo venuti da te".

"Volete parlare con me solo o anche con gli altri?"

"Per noi non c’è nessuna differenza: stabiliscilo tu stesso dopo aver ascoltato il motivo per cui siamo venuti".

"Qual è dunque questo motivo?"

"Ippocrate è uno della città, figlio di Apollodoro, di famiglia illustre e ricca: per le sue capacità mi sembra che sia in grado di gareggiare con i coetanei. Credo che abbia voglia di diventare un cittadino importante e pensa che ciò sarà possibile se ti frequenterà. Dunque considera tu, se ritieni che sia necessario discutere di queste cose da solo a solo o davanti agli altri".

"Socrate, ti preoccupi giustamente per me. Uno straniero che va, infatti, in grandi città e in queste convince a frequentarlo i giovani più illustri, che, per diventare migliori grazie al suo insegnamento, tralasciano le compagnie degli altri, familiari ed estranei, anziani e giovani, è necessario che stia attento a questo comportamento. Ne nascono, infatti, non piccole invidie e altre ostilità e insidie. Io sostengo che l’arte sofistica sia antica, ma che quelli che l’hanno praticata tra gli uomini antichi, temendo l’invidia che ne può derivare, la travestirono e la mascherarono alcuni con la poesia, come Omero, Esiodo e Simonide, altri con iniziazioni e profezie, come i seguaci di Orfeo e di Museo. Mi sono accorto che alcuni altri la mascherano anche con la ginnastica, come Icco di Taranto e il sofista Erodico di Silimbria, in origine megarese, ancora vivente e in nulla inferiore a nessuno. Con la musica la mascherarono il vostro Agatocle, un grande sofista, e Pitoclide di Ceo e molti altri. Tutti questi, come dico, temendo l’invidia usarono come veli queste arti.




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