AI
MIEI FRATELLI
DEDICO
QUESTO LIBRO
CHE
NON È COMMEDIA
E
DA ESSI LO INTITOLO
R. Z.
I.
IN JOB
A
GOFFREDO PALAZZI.
Responde mihi!
È un simbolo,
Una leggenda, un mito,
Quella mortale angoscia,
Quel dolore infinito
Che com'onda di fiume
Sgorga dal tuo volume,
Sì che atterrita ho l'anima
E la mia mano trema
Quando sfoglia le pagine
Dell'eterno poema?
Giobbe,
vivesti? è un fervido
Delirio di poeta
La tua lotta con Satana,
O oracol di profeta
Che in te adombrò la misera
Umanità ventura,
Sempre in guerra col dubbio,
Stretta dalla paura
E trascinata al male
Da un istinto fatale?
*
* *
Tu fosti: la
tua storia
Livida di spavento,
Scritta con stilo ferreo
Su lamina d'argento,
Fu strappata all'obblìo
Dalla mano di Dio.
Tu fosti e sei: all'impeto
Di tue parole sante,
In te si mostra, sfolgora
Un profeta, un gigante!
Te,
designata vittima
D'una scommessa arcana,
Niuna poteva al demone
Forza ritorre umana,
Ma al tenebroso imperio
Non t'inchinasti mai
E contemplando intrepido
La visïon dei guai,
Negli occhi ti splendea
La vincitrice idea.
*
* *
Piangesti sì
dal turbine
Di furiosi venti,
Nell'ebbrezza dell'agape,
I tuoi figliuoli spenti;
Stanco della tua sorte,
Implorasti la morte
Quando posavi, d'ulceri
Coperto e di ferite,
Sopra lo sterquilinio
Le membra infracidite;
Ma non
avesti sordide
Le labbra di blasfema,
Ma non tentasti sciogliere
il tremendo problema
Della tua vita, il dubbio
Non soffocò la fede,
La viva fè che poggia
Nell'eterna mercede,
Che soffre, che non crolla
E lascia dir la folla.
*
* *
Eppure
inesorabile
Il demone del male
Ti punzecchiava l'anima
Coll'infuocato strale
Dello sgomento, eppure
Le larve e le paure
Stavan sul tuo giaciglio
Nelle diserte notti,
Eppur ti laceravano
Gli stupidi rimbrotti.
E ti
levasti, e l'igneo
Soffio ti fece invitto.
Iddio chiamando a giudice,
Forte del tuo diritto,
Lottasti e ancor le stimmate
Hai sulle carni impresse;
Di vincitor, di martire
La palma ti concesse
Chi vinse la scommessa
Nella tua lotta stessa.
*
* *
Solleva
dalle ceneri.
Giobbe, le membra grame,
Squarcia di tanti secoli
Il torbido velame:
Quella scommessa ardita
Ancor non è finita;
Già vinto Mefistofele
Ma non di forze esausto,
Si piglia la rivincita
Sull'anima di Fausto.
Fausto!
quest'omiciattolo
Sui sciocchi libri immoto,
Anfanò nelle reprobe
Latèbre dell'ignoto
Per indagar coll'ansia
Dell'alchimista, il vero,
Ma al lume di sua lampada
Non lesse che «Mistero»
Il dubbio in cuor gli nacque
E a Satana soggiacque.
*
* *
Chi può
narrar lo spasimo
Di lui che Dio percuote?
Geme con te nel rantolo
Delle dolenti note:
«Pera quel giorno in cui
Tratto dal nulla io fui,
L'oscuri la caligine
D'una notte infinita,
Nè più per me si computi
Nei giorni della vita!»
E piange, e
soffre, e vegeta
Nella sua Idumea,
Ma agli occhi suoi non sfolgora
La vincitrice idea,
Al maledetto arcangelo
Non si sa far ribelle,
Non si leva nell'etere
Per noverar le stelle,
Adora e maledice
Chi lo rende infelice.
*
* *
Annegando
nel pelago
D'un desiderio immenso,
Non spera oltre le tenebre
Un immortal compenso,
Solo l'avvampa e asseta
L'amore della creta;
Desia morir, ma un brivido
Di voluttà l'inonda
E non resiste al fascino
Perfido come l'onda.
Santa
materia, unica
Mercede a chi si danna,
Oh beate vertigini
Dell'oro e degli osanna,
Oh blandizie di vergine,
Amplessi di sirena,
Baci e carezze adultere,
Oh Margherita... Elèna..!
Oh effluvio che ubbriaca
Dei fior della cloaca!
*
* *
Ma appena
tocca, è fracida
L'avvelenata flora,
E la creta che il misero
Non sazïato, implora,
Dal diavolo per gioco
È convertita in fuoco.
Lo schiavo ode il satanico
Cachinno e più si lagna,
Si contorce, si arrotola
Sotto le ree calcagna.
Giobbe,
all'enciclopedico
Il tuo volume è ignoto?
Non ha imparato a leggerlo
Per levarsi dal loto
E come te combattere
Forte del suo diritto?
- Il libro sul catalogo
Da tre mill'anni è inscritto,
Ma era cosa stantìa,
Non è più in libreria.
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