La necessità di
nascondere, in certi casi, quello che si pensa, mi si presentò per la prima
volta evidentissima in una circostanza che ti voglio raccontare a fine di
chiarir meglio il mio ragionamento.
Ero giovine affatto, forse
ancora nella adolescenza, quando frequentavo la casa di una ricca signora che
era stata molto elegante e che dall'abitudine dell'alta società conservava i
modi più attraenti.
Mi voleva bene, mi usava
infinite gentilezze; i giorni passati da lei erano per me giorni di festa; li
ricordo ancora con dolcezza. Una volta trovai sul tavolino della mia nobile amica
l'almanacco di Gotha e mi misi a sfogliarlo, fermandomi sopra i ritratti di due
principesse di cui ora non saprei ricordare il nome.
La signora, che guardava al
disopra della mia testa, additò improvvisamente una delle principesse
esclamando: «Assomiglia tutta alla mia povera figlia!»
Le era morta una figlia
bellissima nel fiore degli anni. Io non l'avevo conosciuta; ma, osservando
entrambe le figure dell'almanacco, trovai più di mio gusto l'altra principessa,
e mentre la povera madre si estasiava in esclamazioni: «Vedi che occhi! che
fronte! che bocca!» io scioccamente, senza necessità, per quella stupida mania
di dire tutto ciò che si pensa, affermai risolutamente: «Eppure, è più bella
l'altra.»
Il volto, l'accento, i modi
della gentilissima dama mi dimostrarono in un baleno quanto ero stata zotica e
male educata, come il mio giudizio fosse inutile e la mia schiettezza
inopportuna, ed evidente solo la mia assoluta ignoranza del vivere sociale.
Che importava il mio gusto sopra
un genere piuttosto che sopra un altro di bellezza femminile? Non era invece il
caso di accondiscendere la parzialità materna, di dare una gioia, una
consolazione, una soddisfazione a lei che piangeva sempre la figlia morta? E
neppure era necessaria una bugia, una negazione della mia preferenza. Bastava
ch'io avessi detto: «Sì, è bella.»
* * *
Ora, se si possono presentare
delle circostanze in cui la prudenza, la cortesia od altro fanno transigere
colla assoluta schiettezza riguardo al nostro prossimo, ciò non deve esser per
noi e con noi. Ed è il punto difficile.
I lenocini della vanità sono
sempre lì pronti a persuaderci dei nostri meriti. Ci acconciamo subito senza
esame, senza indagini, senza paura di offendere la giustizia quando si tratta
di credere a un complimento.
Vantano il nostro ingegno? La
cosa ci sembra affatto naturale. Esaltano la nostra bellezza, la nostra
amabilità? Niun vero ci appare sulla terra più chiaro di questo.
Ammettiamo astrattamente di
avere dei difetti; ma alla resa dei conti, non ci ritroviamo che difetti
graziosi, simpatici, provenienti dall'eccesso stesso delle nostre buone
qualità.
Ah! povera schiettezza, quando
si tratta di noi, quando bisogna discendere nel nostro interno risolutamente, e
ghermire il nostro io nel momento della colpa, e smascherarlo, e batterlo e
gridargli: «Sei vile!»
Eppure, figlio mio, bisogna fare
così.
* * *
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