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Aristotele
Poetica

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22. Le regole del linguaggio poetico

La virtù propria dell’elocuzione è di essere assieme chiara e non pedestre. Chiarissima è quella costituita da parole comuni, ma [20] è anche pedestre; ne è esempio la poesia di Cleofonte e quella di Stenelo. Elevata invece e diversificata rispetto all’uso comune è l’elocuzione che si serve di termini esotici, e chiamo esotici la parola peregrina, la metafora, l’allungamento e tutto quanto è fuori del comune.

Ma se si facessero tali tutte le parole impiegate, ne risulterà o un enigma o un barbarismo; se l’elocuzione fosse costituita da metafore l’enigma, se invece da parole peregrine un barbarismo. [25] Giacché la forma stessa dell’enigma è questa: pur dicendo le cose come stanno, mettere assieme delle assurdità; e dunque non è possibile far questo mediante l’espressione ordinaria, mentre è possibile con le metafore, come ad esempio "vidi un uomo che incollava con il fuoco bronzo [30] ad un altro uomo" e simili. La frase invece costituita di termini peregrini è un barbarismo.

Bisogna dunque servirsi di queste espressioni in un certo modo, giacché l’elemento esotico produrrà l’uso non comune ed il carattere non pedestre (cosi la parola peregrina, la metafora, l’ornamento e le altre specie di elocuzione di cui si è parlato), mentre l’elemento comune produrrà la chiarezza.

Non poco contribuiscono [1458 b] alla chiarezza dell’elocuzione, ma anche al carattere non usuale, gli allungamenti, i troncamenti e le alterazioni delle parole, giacché l’essere diverso dal comune discostandosi dal consueto produrrà il carattere non usuale, mentre a motivo della perdurante partecipazione [5] al consueto ci sarà la chiarezza. Di modo che a torto i detrattori di questo modo di linguaggio condannano e mettono in burletta il poeta, come fa Euclide il vecchio, che diceva esser facile fare a questo modo, ove si concedesse la licenza di allungare le parole a piacimento, e cosi parodiava Omero nella sua stessa elocuzione " jEpicavrhn ei\don Maraqw'navde [10] badivzonta" e †. Una certa ostentazione nel valersi di questo tropo è dunque ridicola, mentre la giusta misura è requisito comune per tutte quante le parti dell’elocuzione, giacché raggiungerebbe lo stesso effetto anche chi si servisse delle metafore, dei termini peregrini e di tutte le altre specie impropriamente e apposta [15] per ottenere il ridicolo, mentre quanto differisca l’usarne con proprietà, nell’epopea si può vedere inserendo nel verso parole comuni.

Si vedrà che diciamo il vero se in luogo del termine peregrino, delle metafore e delle altre specie di parole esotiche si sostituiscano parole comuni. Ad esempio [20] Eschilo ed Euripide hanno composto un medesimo trimetro giambico, ma Euripide con il cambiare una sola parola, ponendo in luogo di un termine comune uno peregrino, ha fatto sì che il verso sembrasse bello mentre prima era ordinario. Giacché Eschilo nel Filottete aveva scritto: "l’ulcera che mangia la carne del mio piede", mentre Euripide in luogo di "mangia" pose "banchetta". Lo stesso si avrebbe se in luogo di

"ora essendo piccino, dappoco e meschino"

si dicesse, ponendo parole comuni,

[25] "ora essendo piccolo, debole e informe"

e così pure se si mutasse

"posto un seggio indegno e poca tavola"

in

[30] "posto un seggio brutto e una piccola tavola",

e invece di "mugghiano le spiagge" "fanno rumore le spiagge".

E similmente Arifrade fece la parodia dei tragediografi perché si servivano di espressioni che nessuno direbbe nel parlare, come ad esempio: "dalle case via" e non "via dalle case", "teco", "io lui" [1459 a], "ad Achille interno" e non "interno ad Achille" e così via. Giacché proprio il fatto che queste espressioni non sono comuni fa sì che esse si sollevino sul linguaggio corrente; ma proprio questo Arifrade non voleva riconoscere.

È cosa di grande importanza sapersi servire con proprietà di ciascuno di questi tropi, [5] e cioè delle parole doppie e di quelle peregrine, ma la cosa più importante di tutte è di riuscire nelle metafore. Soltanto questo infatti non è possibile desumere da altri ed è segno di dote congenita, perché saper comporre metafore vuol dire saper scorgere il simile.

Delle varie specie di nomi, quelli doppi convengono soprattutto ai ditirambi, quelli peregrini [10] all’epica e le metafore ai giambi. Ma nell’epica tutte le specie di cui si è parlato sono utilizzabili, mentre nei giambi, per il fatto che soprattutto imitano la lingua parlata, convengono, dei nomi, quelli di cui ci si servirebbe anche nel discorrere; e questi sono il vocabolo comune, la metafora e l’ornamento.

[15] Sulla tragedia e cioè sull’imitazione che si compie nelle azioni basti quel che si è detto.

 




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