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Aristotele
Etica a Nicomaco

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7. [Bellezza morale del coraggio].

Ciò che suscita paura non è la stessa cosa per tutti gli uomini; ma noi diciamo che c’è qualcosa che suscita paura anche al di sopra delle forze umane. Questo, dunque, fa paura a chiunque: a chiunque, almeno, abbia senno. Ma le cose a misura d’uomo differiscono per grandezza, cioè per il fatto di essere [10] più grandi o più piccole; allo stesso modo anche le cose che ispirano ardire. L’uomo coraggioso è impavido quanto può esserlo un uomo. Temerà, dunque, anche le cose a misura d’uomo, ma vi farà fronte come si deve e come vuole la ragione, in vista del bello, perché questo è il fine della virtù. È possibile temere queste cose di più e di meno, ed inoltre temere le cose non temibili come se lo fossero. [15] L’errore si produce o perché si teme ciò che non si deve, o perché si teme nel modo in cui non si deve, o perché non è il momento, o per qualche motivo simile: lo stesso vale anche per le cose che ispirano ardire. Orbene, colui che affronta, pur temendole, le cose che si deve, e che corrispondentemente ha ardire come e quando si deve, è coraggioso: infatti, [20] il coraggioso patisce e agisce secondo il valore delle circostanze e come prescrive la ragione. Il fine di ogni attività è quello che è conforme alla disposizione da cui essa procede: dunque, anche per il coraggioso. Il coraggio, poi, è una cosa bella: tale, quindi, sarà anche il suo fine, giacché ogni cosa si definisce in base al suo fine. Dunque, è in vista del bello morale che il coraggioso affronta le situazioni temibili e compie le azioni che derivano dal coraggio. Di coloro che peccano per eccesso, colui che pecca per mancanza di paura [25] non ha nome (abbiamo detto in precedenza che molte qualità non hanno nome) ma sarebbe un uomo folle o un insensibile se non temesse nulla, né terremotoflutti, come dicono dei Celti: colui invece che eccede nell’ardire di fronte a cose temibili è temerario. Si ritiene comunemente che il temerario sia anche un millantatore, [30] cioè uno che simula coraggio: come il coraggioso è realmente di fronte alle cose temibili, così il temerario vuole apparire: in ciò che può, quindi, lo imita. Perciò i più di loro sono una mescolanza di viltà e temerarietà, giacché in queste situazioni si mostrano coraggiosi, ma non sanno affrontare quelle realmente temibili. Chi eccede nel temere è vile, perché teme ciò che non si deve [35] e come non si deve, e tutte le caratteristiche di questo genere gli competono di conseguenza. [1116a] Difetta anche nell’ardire, ma ciò che è più evidente è che eccede nel temere nelle situazioni dolorose. Certo il vile è una specie di uomo senza speranza, giacché ha paura di tutto. Il coraggioso, invece, è tutto il contrario: l’avere ardire, infatti, è proprio dell’uomo ricco di speranza. Il vile, dunque, [5] il temerario e il coraggioso hanno rapporto coi medesimi oggetti, ma vi si rapportano in modo differente: i primi, infatti, peccano per eccesso e per difetto, quest’ultimo invece si tiene nel mezzo e si comporta come si deve. I temerari, inoltre, sono precipitosi, e, mentre prima che i pericoli si presentino, li vogliono, quando i pericoli sono attuali si tirano indietro: i coraggiosi, invece, sono risoluti nei fatti e calmi prima. [10] Dunque, come abbiamo detto, il coraggio è una medietà che ha per oggetto cose che suscitano ardire e cose che suscitano paura, nelle circostanze che abbiamo indicato, e le sceglie e le affronta perché è bello il farlo, o perché è brutto il non farlo. Il morire per fuggire la povertà o l’amore o una sofferenza qualsiasi non è da uomo coraggioso, ma piuttosto da vile: infatti, è una debolezza quella di fuggire i travagli, e chi in tal caso affronta la morte [15] non lo fa perché è bello, ma per fuggire un male.

 




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