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Aristotele Etica a Nicomaco IntraText CT - Lettura del testo |
9. [Come si acquista la felicità?].
Di qui nasce anche la questione se la felicità si acquista mediante studio o per consuetudine, o [10] con qualche altro tipo di esercizio, ovvero derivi da un dono divino o addirittura dal caso. Se dunque c’è qualche altra cosa che sia dono degli dèi agli uomini, è ragionevole che anche la felicità sia un dono divino, tanto più che essa è il più grande dei beni umani. Ma questo potrà essere argomento più appropriato di un’altra ricerca; d’altra parte è manifesto che, se [15] anche non è un dono inviato dagli dèi ma nasce dalla virtù e da un certo tipo di apprendimento o di esercizio, la felicità appartiene alle realtà più divine, giacché il premio ed il fine della virtù è, manifestamente, un bene altissimo, cioè una realtà divina e beata. E si può dire che sia accessibile a molti: infatti, con un po’ di studio e di applicazione, può appartenere a tutti coloro che non siano costituzionalmente inabili alla virtù. [20] Se è meglio essere felici in questo modo piuttosto che per caso, è ragionevole ammettere che (se è vero, come è vero, che le realtà secondo natura ricevono dalla natura stessa la maggior bellezza possibile) è così anche per le opere dell’arte e di ogni altra causa, e tanto più quanto migliore è la causa. Abbandonare al caso la cosa più grande e più bella sarebbe troppo sconveniente. [25] Ciò che andiamo cercando risulta chiaro anche dalla nostra definizione di felicità: si è detto 18 infatti che essa è un certo tipo di attività dell’anima conforme a virtù. Di tutti gli altri beni alcuni le appartengono di necessità, altri invece hanno per natura un’utile funzione ausiliaria, a guisa di strumenti. E questo sarebbe in accordo anche con quello che abbiamo detto all’inizio 19: abbiamo infatti posto come [30] sommo bene il fine della scienza politica, ed essa pone la sua massima cura nel formare in un certo modo i cittadini, cioè nel renderli buoni e impegnati a compere azioni belle. È naturale, dunque, che non diciamo felice né un bue né un cavallo né alcun altro animale: nessuno di loro, infatti, è [1100a] in grado di aver parte in una attività simile. E per questa ragione neppure un bambino è felice, giacché non può ancora compiere nessuna di queste azioni a causa dell’età; e i bambini che chiamiamo felici sono tali nella speranza. La felicità, infatti, come abbiamo detto 20, richiede virtù perfetta [5] e vita compiuta, giacché nel corso della vita si verificano molti cambiamenti e casi d’ogni genere, e può succedere che chi gode della massima prosperità precipiti in grandi disgrazie nella vecchiaia, come si racconta di Priamo nei poemi troiani: ma chi è stato vittima di simili sventure ed è morto miserevolmente, nessuno può chiamarlo felice.