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Paolo Valera I miei dieci anni all'estero IntraText CT - Lettura del testo |
In Inghilterra o meglio nel Regno Unito, non appena le masse processionano o si sollevano per dei diritti politici o sociali che urtino i «diritti» delle upper classes o delle classi superiori, l'aristocrazia e la borghesia confondono i loro livori di casta e tutti assieme si arruolano come poliziotti straordinari (special constables) per discendere, uniti dalla collera, nelle vie o nelle piazze, determinati a mantenere l'«ordine» e a difendere la «pace».
Che entusiasmo dopo la «domenica sanguinosa!». Il '48, quando i 300.000 «straordinari» - tra i quali era il futuro imperatore dei francesi - volevano rompere la testa ai cartisti e il '67, quando i volontari del bastone poliziesco volevano massacrare i feniani legalmente, avevano nulla di comune col fanatismo del novembre 1887.
Generali, ammiragli, ex ministri, deputati, avvocati, pari di Westminster, ministri della chiesa, medici, artisti, studenti, bottegai, procuratori, ufficiali di terra e di mare, banchieri e il resto della terrocrazia e della plutocrazia scalmanavano, nelle sessioni di questura (police stations), per contendersi la gloria di prestare giuramento, davanti ai magistrati, come «constabili straordinari».
All'alba di mercoledì, 17 novembre, i giornali ne annunciavano un esercito di 100,000. E a otto giorni di distanza - dalla domenica dei flagelli - la capitale dell'impero poteva - volendo - scaraventarne sui miscreants (miserabili) almeno mezzo milione!
Così è: le classi sono assai più organizzate che non le unioni dei mestieri e i nazionalisti irlandesi. Le masse mettono in pericolo il loro benessere? Ed eccoli in piedi, in un giorno, come un esercito, col conciapopoli (il randello) in mano, pronti a precipitarsi sui perturbatori della loro digestione.
Invece noi pitocchi! Le rivoluzioni sono passate attraverso le generazioni che si accumulano in noi e il nostro sangue non si increspa e il nostro pensiero non insorge!
Ah! quando cesseremo di essere vigliacchi?
Del resto, diciamolo, fu un lusso sprecato l'eroismo dei volontari. O che forse gli «insorti» di domenica avevano mostrata della resistenza? La verità per tutti: no, e poi no. Se hanno dato prova di qualche coraggio fu nel voltar strada alla prima minaccia. Il bastone di un policeman bastava a farne scappare un piazzale. È del resto la storia di tutte le dimostrazioni.
S'intende che faccio di tutto un blocco senza mai negare l'audacia o la ribellione personale. Non ho forse veduto un giovane menare una buona legnata alla nuca di un poliziotto? Non ho forse veduto una donna, una madre, col bimbo in braccio, tendere il pugno minaccioso ai birri a cavallo, gridando: assassini! assassini! Non ho veduto un vecchio piangere e strapparsi l'ultimo ciuffetto grigio perché non aveva un revolver da scaricare sui banditi in montura? Non ho veduto un gruppo, in Northumberland avenue, affrontare l'infuriare dei cavalli e resistere fino alla bastonata mortale? Ma questi fatti isolati che consolano anche nelle disfatte non impediscono di dire che gli «ammutinati» del 13 non vollero vincere perché non sono andati al nemico con un pensiero collettivo, con una invincibile resistenza che rinforzata da un convincimento bisognava vincere o perire.
O come credete che cento o centocinquanta mila risoluti da un mese a non perdere il diritto di riunione pubblica - sancito dal sangue degli avi - non bastassero a demolire una muraglia di salariati dello spessore di quattro uomini? Non discuto i capi della dimostrazione malfinita - anche perché io non sono qui a iniettare del maratismo o del dantonismo nelle vene degli agitatori che vogliono essere costituzionali. Ma è certo che se qualcuno avesse spalancato il motto dei tre giovani del 1789: to arms (alle armi)! o se fosse sbucato un Desmoulins a dire presso a poco quello che disse il tribuno del 10 luglio - cioè dicendo all'infâme police, c'est moi, qui appelle mes frères à la liberté, mostrando l'arnese che aveva nelle mani - gli assassini di Carlo Warren e la Bastiglia di Trafalgar square non sarebbero, indubbiamente, restati in piedi.
Un esempio, che il popolo, del resto, può fare anche senza capi e stravincere, lo abbiamo avuto qui, in questa stessa Londra, nel 1866.
Dalla riforma elettorale del 1832 - chiamata dai cortigliani di Guglielmo IV una rivoluzione! - erano escluse, come al solito, le masse, perché non accordava il franchise o il diritto al voto parlamentare, che ai locatari e ai fittabili delle contee che pagavano un affitto di 1250 lire l'anno e agli inquilini della città che ne pagavano 250.
Dal '32 al '66 fu un'agitazione continua per alterare o modificare o distruggere la riforma rivoluzionaria di Guglielmo IV, un re la cui capacità - e badate che lo dicono tutti gli storici - non gli avrebbe permesso di occupare il posto di impiegato del lotto o del dazio consumo. Il più generoso dei suoi biografi, annunciandone la morte, avvenuta il 20 giugno 1837, scrisse che le sue facoltà intellettuali non erano of a high order, di un ordine elevato. Lo credo io! Poteva dire addirittura che era un asino calzato e vestito, che nessuno - lo avrebbe processato per diffamazione. E tuttavia, parrebbe impossibile se non fosse vero, la supineria ufficiale lo mise a cavallo, in nome del popolo, s'intende, del suo amato popolo! Nell'angolo nord-est dello square di Trafalgar!
Popolo, «amato popolo», quando me lo ridurrai in frantumi. Mettici un tipo utile, un mattoniere o un calzolaio. Mettici gente che fu, se non altro, buona e mi leverò tanto di cappello. Ma un re cretino, no, accidempoli!
A proposito, popolo inglese, quando edificherai il tuo Valhalla - il palazzo dell'immortalità - il Pantheon degli eroi caduti nella battaglia del lavoro?
Quando darai una nicchia ai martiri della tua classe a incominciare dai luddisti, i primi ribelli degli opifici di tessitura, coloro che insorsero, in nome del pane, contro le innovazioni meccaniche che diminuivano i lavoranti e aumentavano i guadagni dei padroni?
Sostiamo un minuto. Nessun buffone è mai stato immortalato come Guglielmo IV. Eccentrico, al punto da lasciarsi credere avviato alla pazzia. Era succeduto agli altri Giorgio senza idea della dignità reale. Chiassoso, noioso, intollerante, sempre disposto a cambiar umore. Non aveva rispetto né per lui né per gli altri. Le convenienze sociali non erano di casa sua. Strapazzava la Duchessa di Kent con il linguaggio del cenciaiolo. C'erano giorni in cui dava ramanzine a destra e a sinistra senza arrossire. All'indomani non si ricordava più di nulla. Era capace di applaudire ciò che aveva orribilmente fischiato. Egli assomigliava troppo alla aristocrazia del suo paese che offriva la sua manoforte alla forza pubblica. Il bastone di special aveva dato a tutte quelle facce tonde e grasse che andavano sempre in seconda a bere il whysky un aspetto più marziale che mai.
Le masse col loro baccano fecero diventare la Victoria maggiorenne. Era così regina. Furono sguinzagliate tutte le festività al Castello di Windsor. Si incominciarono subito i dinners, come quando c'era Guglielmo IV. I cuochi entrarono subito in servizio con una moltitudine di istrumenti culinari. Non si è saputo se la Duchessa di Kent piangesse di gioia o di dolore. Tutto era possibile.
I luddisti nacquero nel 1811, nella contea di Nottingham e nelle vicinanze delle contee di Derby e di Leicester. Il loro capo era una persona fittizia dal nome di Ned Ludd. Il loro scopo era la distruzione della macchina, la nemica che li affamava o impoveriva i loro salari. Colle macchine vennero gli ordigni, le fabbriche e i padroni. Il risultato fu il solito: molti luddisti subirono la galera e parecchi dei tumultuanti di Leeds e di Nottingham e di Lancaster morirono appesi alla cavezza del carnefice.
So, o luddisti, che i fiori non vi possono riattaccare il collo e neppure titillare le papille del naso! Ma non importa.
Mi faccio idealista e vuoto la mia corba di mimose fresche su voi, pionieri, che intuivate la lotta assassina tra capitale e lavoro, tra bracciante e speculatore.
Nel 1866 dunque, il conte Russell, mi pare, tentò di convincere lord Derby - il primo ministro tory d'allora - a ridurre la somma voluta per essere elettore. Ma sì! John Bull non cede che alla sommossa.
I «riformatori» - che lavoravano o manipolavano pur sempre il programma dei cartisti - si incaponirono e giurarono, più di una volta, sotto il loro albero di Hyde Park - l'albero del riformatore - di strappare al parlamento i «vogliamo» dei sudditi o di trascinare fuori di Westminster i ministri.
Una irritazione politica che si infiammò fino all'indignazione.
Il 23 luglio erano tutti sulle gambe, colla coccarda di Desmoulins all'occhiello e gli stendardi dei «vogliamo» in faccia ai policemen. «Vogliamo il diritto al voto! Vogliamo il voto segreto (o scrutinio di lista che non passò, in parlamento, che nel 1872 sotto Gladstone)».
Walpole, il ministro dell'interno del 1866, aveva, come il Matthews di Trafalgar square - il carnefice che incominciò l'89 con quattro esecuzioni capitali - fatto affiggere sulle cantonate che Hyde Park - proprietà della corona - avrebbe chiuso le sue otto entrate ai dimostranti.
- Vedremo!
I caporioni del comizio erano Edmundo Beaales, il luogotenente colonnello Dickson, Coffey e Bradlaugh, l'ateo, il quale, raccomandando la calma costituzionale ai processionisti, andò a rischio di essere massacrato come spia.
Il punto centrale del comizio era Marble Arch o alle cancellate dell'Arco di marmo che margina Bayswater-road. Dentro le cancellate, è inutile dirlo, era una lunga siepe di monturati di polizia pronti a spaccare il cranio ai malnati che avessero osato darne l'assalto.
Alle cinque, mentre i capipopolo leggevano, a qualche distanza dal pericolo «che questo meeting condanna con tutta l'energia della parola l'attentato del ministero di dominare il paese colla forza; nomina una deputazione di sei a recarsi dalla regina, colla petizione firmata dal presidente in nome del comizio, a domandare la dimissione del conte Derby e dei suoi colleghi, e la nomina, in loro vece, di un ministero che abbia maggior considerazione della vita dei sudditi di sua maestà e più rispetto dell'alto ufficio che occupa» - i booooooooooh delle masse sibilavano tra i bastoni delle cancellate e passavano sulle facce dei policemen come ventate di rabbia popolare.
Alle cinque e mezzo la fortezza era sventrata. I lunghi bastoni di ferro delle cancellate erano un'arma nelle mani del popolo. E alle cinque e quaranta il parco, detto della corona, era un'altra volta, per diritto di conquista, delle moltitudini.
Da Marble Arch ad Hyde-park-corner - o dai due punti estremi - non era che una fitta di gente vittoriosa che mandava su, abbracciati, gli hooray! della sua gloria.
La Camera, dopo un po' di discussione sulla batosta toccata ai poliziotti, votò, in fretta e furia, l'allargamento del suffragio.
Tutto è dovuto alla violenza rivoluzionaria o alla furia delle masse. I politici, come Hum, del 1819, sul cui vessillo era il motto di Wallace - dio arma il patriota - e i cui «vogliamo» si riassumevano in libertà, diritti dell'uomo, abbasso le leggi sulle granaglie, parlamento annuale, suffragio universale, voto segreto, ecc., - migliorarono la loro condizione dopo il celebre riot (tumulto popolare o sommossa) di Manchester, sul campo detto di Peterloo. Dopo la spaventevole collisione tra cittadini e soldati, tra donne e birri - collisione che finì colle sanguinose cariche militari dei yeomen (gentiluomini di caserma, equivalenti ai corazzieri del re).
Gli affamati di Londra e di Liverpool del 1855 (bread riots o tumulti del pane) conquistarono, temporariamente, il morsello dell'esistenza dopo avere battuta per bene la forza pubblica che non voleva permettere loro di sgolare che avevano fame e avere dato il saccheggio alle botteghe dei fornai e dei pizzicagnoli.
I policemen della capitale irlandese, riuscirono, nel 1882, ad aumentare la paga e a obbligare il governo a riammettere i 234 colleghi licenziati come sospetti di avere promossa l'agitazione, dopo avere stracciati i regolamenti, dichiarandosi solidali, violata la legge, ammutinando, ed essere insorti, mettendosi in sciopero.
Il lord mayor (sindaco della city di Londra) del 1885, non aprì la sottoscrizione pubblica a favore dei disoccupati e l'aristocrazia del commercio non slacciò sollecitamente la borsa, se non dopo che i senzapane si erano avventati sulle botteghe del West End, cantando we have no work to do (siamo senza lavoro o non abbiamo nulla da fare) e avevano urlato per Pall Mall - il quartiere dei clubs aristocratici - sfracellando, qua e là, qualche cristallo.
Alla stessa stampa quotidiana, settimanale e mensile, non fu permesso di sbarazzarsi - come vedremo - della enorme tassa sulla carta che l'opprimeva e l'uccideva, se non quando editori e direttori e scrittori violentarono la legge e scontarono, col martirio del carcere e del cataletto, il loro immenso amore alla libertà della penna - una rivoluzione che mi strappa il cappello e mi inginocchia intenerito e mi rinverdisce la speranza che anche il nostro inchiostro, accidenti!, farà cadere, senza altro, le mura delle città del privilegio e del furto legale e piantare, sulle macerie della catastrofe, la fiaccola dell'umanità associata.
Ma mettiamoci in cammino e andiamo a vedere questi cagnotti sguinzagliati dalle fila dei poltroni di mestiere per accoppare i lavoratori in piazza ad esigere il diritto di parola pubblica.
Passo il ponte e mi fermo sulla piazza di Westminster, dove il protettore fece innalzare il patibolo e mozzare il capo al duca di Hamilton, a lord Holland e a lord Capell - tre miserabili nemici della repubblica - e mi meraviglio di non vedere su, dal recinto, la statua di questa grande figura del diciassettesimo secolo che sta alta, tra gli uomini di stato che la precedettero, come la colonna Nelson tra i paracarri. Puritano fino al delirio, fino ai macelli di Drogheda, ma primo tra gli audaci, tra i repubblicani, tra i cittadini del suo tempo.
Onore a te, Manchester! Città dei lordi del cotone, se si vuole, ma città che diede una piazza al giustiziere della monarchia feudale: a Cromwell!
Oh, io mi ci sono fermato a contemplarti e a domandarmi come mai la repubblicanaglia inglese non celebri, solennemente, la data della tua rivoluzione - rivoluzione non meno grande di quella dei Marat e dei Danton e dei Robespierre.
Dalla via del Parlamento vedo che la colonna Vendôme - l'odioso monumento innalzato alla falsa gloria di un mostro d'ambizione - ha insegnato nulla agli spiantati del suolo londinese.
Nelson è ancora ritto sul cielo come una gloria.
Fino in piazza di Trafalgar sembra una via appena abbandonata dagli insorti. Vi si fiuta nell'aria il tepore delle ultime schioppettate. Le imposte sono chiuse, ermeticamente chiuse come le botteghe e le porte. Non ci sono che monturati, che visi arcigni, che facce illuminate dall'alcool o tempestate di macchioline bacilliforme.
Eccoci in faccia ai «volontari» del delitto nazionale.
Se non sapessi chi sono li scambierei per dei prigionieri o dei fedeli colti colle mani sporche di polvere.
Lo square è convertito in un emporio di abili fatti.
C'è la tuba, c'è il «tirolese», c'è l'ala dura, c'è l'Ernani - badate che parlo di copricapi - c'è la tesa floscia, il cilindro grigio, la berretta da viaggio, la papalina, il cappello di paglia. C'è la giacca a quadrettoni, a rigoni, a peli di camoscio. Il sourtout a risvolti, la camicia di flanella morbida, il collo principe di Galles, la cravatta Albany. Il soprabito, di Bismark, la pelliccia, il cappotto. Ci sono le ghette, i pantaloni del giuocatore al pallone, le brache scozzesi, i calzoni a coscia, a piombo, a campana. Gli stivaloni, le calzature scollate, gli stivali a bottoniera, gli scarponi a suola piatta. C'è il panciotto a colori, il panciotto a vetrina, il panciotto arabescato, il panciotto chiuso fin sotto la gola e l'epa senza panciotto. C'è tutto uno studio craniologico. C'è il crapone - raccomando questo nome al Petrocchi, dimenticato nel suo ottimo dizionario della lingua dell'uso - il crapone d'avorio, la testa calva, il testone arruffato di capelli bianchi, neri, rossi, fulvi, castagni, tabacco. Ci sono i ricchi, la zazzera, i cernecchi, i cernecchioni impastati ai temporali e la gozzoviglia della forfora sul bavero. Le barbe presuntuose, i favoriti che provocano, le faldelle impiastricciate di pomata. I baffi, i baffoni, i baffini, la mosca, l'ombra pelosa sulle guance, il ciuffo appeso al mento e le labbra degli avvocati inglesi: nudi. Una variazione d'occhi. Occhi sbarrati, socchiusi, nascosti dal cristallo. Che ghignano, che tripudiano, che guazzano nell'insulto. Occhi di lince, di civetta, di volpe, di gatto, di vipera, di maiale, di lucertola, di tiracazzotti. Pieni di nequizia, formicolati di lenticchie sanguigne, cosparsi di bulbi giallognoli, inondati di perfidia. Uh che occhi!
C'è il bassotto, l'allampanato, la botte, il malfatto, il tutto naso, il boccaccione, il guardalosco, il grifo, il ceffo, il gambatorta, il gobbo, e l'irrancidito dagli anni.
Un malassieme di malvagi ubriachi di birbanteria borghese.
Hanno al disopra del gomito una specie di braccialetto di stoffa a rigoni polizieschi - il bianco e il turchino - che fascia loro la manica e un randello appeso alle striscie di corame all'avambraccio.
Così come sono dovrebbero provocare un eccidio o una guerra civile. Invece le masse, disorganizzate e atterrite dalle legnate di domenica scorsa, adocchiano dagli angoli e scompaiono non appena cigola nel loro orecchio il brutale move on, please, senza punto fremere o ricordarsi che la plebe londinese è stata malconciata e cicatrizzata dal bastone dei birracci della sicurezza pubblica.