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Paolo Valera
Mussolini

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III

 

IL CONVEGNO DI BOLOGNA

 

La rottura è avvenuta all'ultimo convegno di Bologna. Non si poteva continuare lo spettacolo della neutralità. I nostri alleati erano in guerra. O con loro o con i traditori. I Serrati, i Bacci, i Lazzari credevano di fare tutti assieme un Lenin. Nossignori! Benito Mussolini ha preso la ferrovia. Il giornale che gli dava cinquecento lire al mese non fu più suo. Giunto in S. Damiano corse di sopra, affagottò il materiale accumulatosi lungo la sua direzione e con una vettura filò al proprio domicilio. Giovanni Bacci non credette di averlo perduto. Egli sapeva che i suoi colleghi avevano dovuto disgustare il nuovo direttore. Agli altri, come a Claudio Treves, davano settecento lire. A Mussolini, con la scusa della povertà, avevano ridotto il mese di duecento lire. Lo raggiunse in famiglia. Gli gettò le braccia al collo e gli offerse un biglietto da mille con la promessa di un aumento. Fu tutto inutile. Il quotidiano era già nella testa dell'eresiarca. Trovò i locali in via Paolo da Cannobio. Si mise subito al lavoro di preparazione. Denari doveva averne trovati. Era la sorte di tutti i quotidiani moderni. Con gli sforzi individuali non si riesce a nulla. Essi esigono somme ingenti. Azioni, prestiti, contribuzioni, elargizioni, manate di biglietti da mille. Si sussurravano parecchi nomi. Il più insistente era quello del Naldi del Resto del Carlino di Bologna. Gli altri erano nella zona delle simpatie. Si è fatto un'inchiesta. Mussolini si è messo subito allo sbaraglio. Non ha esitato. Per tappare la bocca al quotidiano che usciva di tanto in tanto con l'interrogazione di Chi paga?, Benito Mussolini si è sottoposto alla Commissione investigatrice di tre insospettabili persone: del dott. Forlanini, dell'avv. Sarfatti e dell'avv. Poggio. Tutti i quotidiani moderni sono su per giù delle società anonime. Senza i versamenti dei banchieri e degli industriali e degli aderenti alle idee del giornale non potrebbero vivere.

A Mussolini non si è dato tregua. Lo si è circondato di sottovoci. Le tre figure che tenevano imbrigliato l'Avanti! come tre mazzieri, lavoravano dietro le quinte e facevano di tutto per fare entrare Benito Mussolini nella zona dei bluffisti. Egli doveva essersi venduto ai negozianti di Stato francesi o italiani! Della opportunità di abbattere il monarca austriaco che aveva imbestialito l'Italia tante volte e impiccato più cittadini che tutti i sovrani assieme, non si faceva parola. Pareva non esistesse. Dimenticavano l'interventismo che aveva tumultuato Roma per spingerla alla conquista dei confini patriottici e magari alla demolizione della dinastia attuale. In una parola gli Habsburgo non hanno fatto parte del problema di continuare la tradizione garibaldina per l'indipendenza dei fratelli aggiogati al carro dell'imperatore. Cioè di liberare gli italiani di Trento, di Trieste, di Gorizia, dell'Istria, e della Dalmazia.

Doveva venire l'attacco pubblico. Mussolini aveva cessata la polemica coi guanti. La prima testa abbaruffata dalle sue mani fu quella di Giovanni Bacci, considerato da lui uno zuccone. Gli è andato sopra coi piedi. Egli era venuto a cinquantatré anni senza avere letta una pagina di Carlo Marx. Con la penna in mano era un orrore. Lo ha pennelleggiato come un asino e un affarista. Scriveva e attraversava le sgrammaticature e la sintassi in disordine. Aveva sciupato molti anni a Mantova come un commerciante del ghetto. A poco a poco si era conquistato gratis la Provincia di Mantova che poi aveva venduto ai socialisti per sessantamila lire in contanti. Era andato in Romagna e coi denari aveva fatto molti altri denari. Era un rivoluzionario da operetta. Il suo nome era sempre stato sinonimo di denaro. Breve: ce lo ha presentato come il Gobseck del partito.

Tutte queste stroncature personali avevano urtato una massa abituata a ubbidire ai dirigenti e a credersi un proletariato superiore. Mussolini non veniva studiato, veniva riassunto. O era un traditore o un voltafaccia o un Rabagas. Chi paga? gli domandava il sottovoce. È venuta l'assemblea dell'esecuzione capitale. Era un'assemblea tumultuosa, riottosa, urlante per la testa di Benito Mussolini. Si è durato fatica a trovare un presidente. Si è tentato di sedarla, di dar modo all'accusato di difendersi, di spiegare il suo atteggiamento. Non è stato possibile. L'assemblea si arruffava, indemoniava, sgolava tutti gli improperi. Dai furori tumultuari pareva lo si volesse accoppare. È salito Serrati a implorare che lo si lasciasse parlare in un silenzio religioso. Utopia! Non appena Mussolini ha aperto bocca tutti volevano udirlo: forte! La voce dell'oratore si confondeva col baccano. "Voi siete più implacabili dei giudici borghesi. Se siete decisi che io sia indegno..." Vi fu una valanga di sì che rotolavano insieme sulla testa dei tumultuanti. Egli era pronto a sottomettere la questione morale e disciplinaria a una commissione indagatrice. "Voi credete di perdermi. Vi ingannate. Voi oggi mi odiate perché mi amate ancora. I dodici anni della mia fede socialista dovrebbero essere una sufficiente garanzia. Il socialismo è qualche cosa che si radica nel sangue. Quello che mi divide ora da voi non è una piccola questione, è una grande questione che divide il socialismo tutto."

Egli ha citato Amilcare Cipriani sul cui nome i socialisti di Milano avevano fatto una mirabile campagna. Ma Cipriani ha dichiarato che se non avesse avuto sulle spalle settantacinque anni sarebbe stato in trincea a combattere contro la reazione militarista europea che soffoca la rivoluzione. Il tempo dirà chi ha avuto ragione e chi torto in questa terribile conflagrazione che ha qualche cosa dell'epopea napoleonica. Waterloo fu del 1814. Chi sa che non ce ne sia un altro nel 1914. Chi sa a chi toccherà andare in frantumi.

È certo che Mussolini ha lievitato il proletariato. Lo si è visto con lui nelle assemblee e in piazza, sempre ai primi posti. Una volta camminavamo insieme. Veniva verso di noi a sprombattuto uno squadrone di cavalleggeri con la sciabola sguainata. Egli mi strinse sotto braccio. Non avere paura. Un fendente ci farà in due. Fummo separati da un colpo. Ci siamo trovati più tardi.

"Ma vi dico", riprese Mussolini, "fino da questo momento che non avrò remissione, non avrò pietà alcuna per tutti coloro che in questo momento tragico non dicono la loro parola, sia per paura dei fischi o per le grida di abbasso. Non avrò remissione pietà per i reticenti, per gli ipocriti, per i vili! E voi mi vedrete ancora al vostro fianco. Non dovrete credere che la borghesia sia entusiasta del nostro interventismo. Essa ringhia, ci accusa di temerarietà e paventa che il proletariato, munito della baionetta, possa servirsene per gli scopi suoi."

Viene in scena Costantino Lazzari, l'eterno brontolone. Non si voleva udirlo. Si era come stanchi. La sentenza non poteva essere che sommaria. Mussolini avrebbe voluto un atto di accusa. Da otto giorni non faceva che accusarsi. In questa sua opera vi erano gli estremi della indegnità politica e morale. Eccitava il pubblico contro i socialisti. Si precipitava con violenza su Bacci, Lazzari, Serrati. Voleva dare il fucile al soldato in nome del re. Il suo giornale portava sulla testata il motto Chi ha del ferro ha del pane, BLANQUI. E dall'altra parte La rivoluzione è un'idea che ha trovato delle baionette, NAPOLEONE.

Mussolini è uscito dalla assemblea con la faccia pallidissima, tremante di collera, mettendosi l'indice in bocca. Pareva dicesse: ci vedremo!

Egli è corso in stamperia, in via Paolo da Cannobio, e con la testa incendiata si è messo senza indugio a scrivere il suo commento. "Espulso? Se io volessi fare una questione di procedura, avrei diritto di mettere in dubbio la legittimità del voto, chiedere anzi se un voto, vero e proprio, ci sia stato, dato il modo col quale la discussione è proceduta dal principio alla fine, diretta in un modo sfacciatamente parziale, dall'assessore Schiavi. Ma io accetto il fatto compiuto. Mi ritengo espulso. La storia del socialismo italiano non ha nelle sue pagine, più o meno gloriose, una esecuzione più sommaria, più inquisitoriale, più bestiale di quella che mi ha colpito. De Marinis, Bissolati e gli altri subirono la pena capitale nel grande dibattito di congresso e fu concesso loro amplissimo il diritto di difesa e l'accusa fu portata alla tribuna, documentata, esauriente.

"Per me, no. Si è fatto il processo per direttissima. Un buttafuori qualunque ha presentato l'ordine del giorno più radicale — senza nemmeno sostenerlo; mi si è concesso — dopo molti stenti — il diritto di esporre il mio pensiero; poi Lazzari invece di recare un atto di accusa, ha ripetuto la solita insinuazione vigliacca. Non si è affrontata la questione politica, non si è prospettata la questione morale. Nulla. Se la Giustizia socialista è questa, in verità, c'è da preferire quella del magistrato Allara. Ma la geldra, che domina il Partito, voleva vincere ed ha vinto. Io sono espulso, ma non domo. Se essi mi ritengono «morto» avranno la terribile sorpresa di trovarmi vivo, implacabile, ostinato a combatterli con tutte le mie forze. Gli è per questo che mi sono foggiato l'arma colla quale illuminare il proletariato e sottrarlo alla mala influenza di cotesti falsi pastori. Ed io spero che nel proletariato dall'anima semplice e diritta si farà presto la luce. Non contro il proletariato, non contro le aspirazioni sacre del proletariato io muovo a battaglia: i proletari sanno bene che quando si trattava di assumere responsabilità nei moti di piazza, nei processi d'Assise, nelle campagne del Partito, io mi sono prodigato per un bisogno incoercibile d'azione, senza curarmi del pericolo, senza misurare la mia fatica. Ma voi, signori, che formate la élite dirigente del Partito, voi che parlate quando dovreste tacere, o tacete quando dovreste parlare; voi medagliettati, voi che sedete sugli scanni di Palazzo Marino, voi che avete preferito nascondere il vostro voto nell'amorfa e tumultuante levata di mano, voi che pur dovete qualche cosa al «Barbarossa» del giugno, voi passerete sotto le forche caudine. Comprendo l'odio, l'esasperazione dei proletari, ma il vostro silenzio reticente è il documento di una vigliaccheria che disonora sino all'estremo il socialismo italiano. Ma io sono proprio qui a guastarvi la festa. Il caso Mussolini non è finito, come voi pensate. Incomincia. Si complica. Assume proporzioni più vaste. Io innalzo apertamente la bandiera dello scisma. Non mi acqueto, ma grido; non mi piego, ma insorgo. Tutti i socialisti che rivendicano a se stessi il diritto di vivere e di pensare, tutti i proletari che non intendono piegarsi ai voleri di una congrega che pretende stoltamente di fermare il corso della storia e di dettare una legge eterna ed universale, tutti devono raccogliersi attorno a questo fogliolibera palestra di liberi spiritibandiera pura che l'insinuazione infame di gente «avariata» non riuscirà mai a macchiare. Un partito che «esecuziona» in questo modo è un partito nel quale gli uomini degni di questo nome non possono entrare o — tesserati — non possono, non debbono rimanere più oltre. Io li invito ad uscire e a cercarsi più libertà, più aria, più luce, più umanità, più socialismo!

"Ed oraricacciati nel fondo dell'animo mio ogni tristezza e ogni rimpianto — io affilo le armi, «tutte» le mie armi. Per il socialismo e contro i nemici palesi ed occulti del socialismo."

25 novembre 1914                                                                                                                  Mussolini




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