Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText |
Paolo Valera Mussolini IntraText CT - Lettura del testo |
Sono articoli ambientati, scritti da Benito Mussolini nei stratagli del suo tempo. Magnifici, densi, istruttivi, cesellati, vittoriosi.
Giovanni Giolitti, il latitante
"Giovanni Giolitti è stato «assente» dalla Camera lunedì scorso quando fu portato alla tribuna il martirologio ventennale del proletariato italiano. Le assenze ingiustificate diventano latitanze. Il latitante è un colpevole. Giovanni Giolitti non ha avuto il coraggio di andare in piena Camera a difendere la sua politica di sanguinose sopraffazioni. È rimasto nell'ombra. Ha mandato innanzi il suo aiutante di campo, l'on. Falcioni. Gli stessi giornali conservatori non trovano parole per giustificare la latitanza del Presidente del Consiglio. L'uomo che nel 1900 iniziò il nuovo periodo della sua carica parlamentare magnificando la resurrezione delle plebi agricole, oggi le lascia massacrare senza sentire il bisogno di pronunciare una parola elevata — al disopra dei partiti, al disopra delle versioni — che esprima il rammarico per tante vite così tragicamente spezzate. Giolitti è rimasto colla psicologia e colla mentalità immutate del vecchio questore. Per lui non ci sono le cause profonde, lontane, irresistibili dell'eccidio. No. C'è la folla dei rivoltosi, dei sovversivi, anche quando si tratta di fanciulli e di donne che vanno incontro ai fucili, sventolando una bandiera tricolore e c'è la polizia che spara, per mantenere l'ordine. Nel cervello di Giolitti, l'«ordine» perfetto è quello che nel 1863 regnò in Varsavia dopo la terribile repressione dell'infame Morawieff. In Italia i cittadini monturati sono dei privilegiati. Per loro non esiste il codice. Uccidono e nessuno li trascina alle Assisi. Circolano in mezzo a noi, colla divisa insanguinata. Diventano istituzioni intangibili. Giungono ai supremi onori della gerarchia. Sono encomiati, medagliettati, commendatizzati, cordonizzati. Sul loro petto c'è tutta una bacheca di chincaglierie. Sono le colonne della società. In un altro paese che non fosse l'Italia, l'agente assassino sarebbe subito processato e in caso di assoluzione, allontanato e ricacciato tra la folla anonima. In Italia, no. Diventa un eroe. L'opera del Governo è nefasta per due ragioni: primo, perché lascia immutate le condizioni speciali che rendono da noi così frequente l'eccidio; secondo, perché schiaffeggia il sentimento popolare che invoca e non ottiene giustizia. Quella del Governo è una seminagione di odio di classe, è una scuola di violenza. Non ce ne addoloriamo. Constatiamo. L'eco delle proteste socialiste, non è giunta attenuata o moribonda, alla Camera. Tutto un pomeriggio è stato dedicato ai massacri di Rocca Gorga. Il fatto è stato sviscerato, analizzato, tonalizzato. Non c'è stata seduta tempestosa, perché la maggioranza giolittiana non ha osato interrompere o ghignare la freddura forcaiola, l'interruzione idiota, come altre volte. Il ventre della Camera si sentiva a disagio. Ha taciuto. Il resoconto non dà che poche interruzioni dell'on. Sonnino e dell'on. Padulli. Quest'ultimo è un illustre ignoto. Dev'essere uno dei tanti crapauds du marais. Gli oratori sono stati all'altezza del loro compito. Genuzio Bentini è stato possente. Ha commosso, trascinato. Egli ci ha presentato la tragedia nella sua luce sanguigna, nei suoi elementi di umanità e di miseria. L'on. Campanozzi si è imposto alla Camera. Quest'uomo riesce a farsi ascoltare. È riuscito malgrado la marcatissima antipatia che l'on. Giolitti nutre verso di lui. Campanozzi ha ricostruito il fatto. Lo ha ambientato nel luogo e nello spazio. L'on. Eugenio Chiesa è stato, come al solito, documentale, preciso, categorico. Ha schiacciato l'on. Falcioni. Anche gli altri oratori dell'Estrema Sinistra sono stati efficaci. L'on. Falcioni ha parlato come un deficiente.
"Tutti i giornali sono unanimi nel stroncargli il discorso. Si è limitato a riferire le risultanze della tendenziosa inchiesta ministeriale. Nient'altro. Non si è elevato dalla prosa del rapporto poliziesco. Nessuna analisi dell'episodio, nessuna considerazione d'indole sociale, nessun sintomo di ravvedimento per l'avvenire, ma la giustificazione recisa dell'uso delle armi. L'on. Falcioni ha compiuto l'apologia del massacro di Rocca Gorga. Ecco tutto. Non siamo così imbecilli da meravigliarcene. E adesso? Se il Governo crede di aver posta la pietra sepolcrale sulla discussione, s'inganna. I morti di Rocca Gorga torneranno alla Camera. L'on. Bentini ha convertito l'interpellanza in mozione. Benissimo! E la mozione dev'essere firmata e sostenuta da tutto il Gruppo Socialista. Intanto il proletariato deve prepararsi a rispondere collo sciopero generale alla politica di reazione e di sangue di Giolitti. Pur troppo dieci anni di scissione nel Partito Socialista e nel proletariato, hanno creato in tutta Italia una situazione difficile. Il sentimento rivoluzionario si è illanguidito. Plaghe che parevano ribelli, rivelano sintomi di inaspettata debolezza. Dopo gli eccidi del 6 gennaio, solo nel ferrarese c'è stato un movimento di protesta di una certa ampiezza.
"Uno sciopero generale — facilitato dalla disoccupazione cronica — della durata di ventiquattro ore e dopo otto giorni. Il parmense che aveva un morto in casa — il quarto eccidio nel volgere di pochi mesi — non si è mosso. Si è tenuto un comizio di protesta dopo ben quindici giorni e non c'era la grande folla. I giornali sovversivi sono un vituperio. Le loro corrispondenze sono l'ignobile sfogatina di tutta la perversità e la spudorataggine del sovversivismo provincializzato. Piccole beghe, piccoli uomini! Una caterva di idioti che si atteggiano a superuomini. In fondo, anche pusillanimi. Magnifici cianciatori. Posano a cerebrali e hanno il cranio smobiliato: senza inquilini e cioè senza idee. Sono gli eterni critici, ipercritici, insoddisfatti. Quando odiano non hanno che un bersaglio: il Partito Socialista. E la zavorra del sovversivismo. Questa gente iperbolizza se stessa e la propria missione. Taluni che dirigono una Camera del Lavoro di mille soci, si credono capaci di dirigere i destini del mondo. Sono riconoscibili dalla grimace laida dei geni incompresi. È questa la più fastidiosa categoria di mortali. Preferisco i curatori di fallimento. Finché il proletariato non si libererà dalla tutela di questi spostati nell'intelligenza e nella vita, egli non sarà mai libero. Una volta l'esodo dei borghesi dalla loro classe, significava carcere, esilio, sacrifici. Oggi non più. Il liceale bocciato, l'universitario mancato, il filisteo parassita che abborre il lavoro manuale, non corre che un solo pericolo: quello di non ricevere puntualmente lo stipendio. I permanents formano già la nuova burocrazia del proletariato. Sono ronds de cuir dell'avvenire. Nella vita privata sono dei gaudenti. Sono già estranei alla tragedia proletaria. Assistono, non vi partecipano. Sono già i «patroni». Questi, che visti da lontano, paiono degli apostoli e degli asceti, visti da vicino si rivelano quali sono: degli epicurei nel volgare senso della parola.
Quanti Padri Zappata nel sovversivismo italiano! Se il proletariato italiano non si libera di quelli che speculano — materialmente — su di lui, egli non diventerà mai maggiorenne ma resterà eternamente pupillo. Basta una sola giornata di rivoluzione per veder operarsi colla rapidità del fulmine la selezione tra i forti e i deboli, tra gli apostoli e i mestieranti, fra i coraggiosi e i vili, fra quelli che fuggono a 60 chilometri all'ora quando suona la diana del più grande pericolo e quelli che rimangono al loro posto, tranquillamente, senza voltar le terga al nemico."
"Anche il Partito Socialista Italiano ospita nelle sue mura un cavallo di Ulisse, pericoloso come quello che determinò la caduta di Troia. È pieno di «sinistri». Sino a ieri, tacquero, aspettando. Oggi che gli avvenimenti incalzano, i sinistri che di Ulisse greco hanno la furberia e non il coraggio, escono dai ripari e con molta sofistica prudenza si accingono a combattere. Noi siamo pronti a rintuzzarne gli attacchi qui e altrove. I duci li conosciamo.
"A Genova, c'è il rubicondo onorevole Canepa, quello che si intenerisce per la sorte dei borsisti. Il Lavoro da lui diretto è una continua deplorazione dei metodi inaugurati dall'Avanti! e dalla Direzione del Partito. Gli sta sullo stomaco il binomio Lazzari-Mussolini. A sentire l'on. Canepa — autonomo che partecipa al congresso dei «destri» — (pochi uomini rimarrebbero nella posizione politicamente superanguillesca del Canepa) il Partito Socialista è sull'orlo dell'abisso. L'on. Canepa può andare al diavolo, quando vuole. Il Partito Socialista Italiano sta rifiorendo malgrado le insidie dei destri, l'ostruzionismo di molti sinistri e l'apatia di qualche rivoluzionario che riduce il rivoluzionarismo a una questione di semplice intransigenza elettorale. Adesso scendono in campo i generalissimi dei «sinistri». Ci sono nell'ultimo numero della Critica Sociale due articoli... sensazionali. Sono le grosse batterie d'assedio che entrano in funzione, contro l'Adrianopoli rivoluzionaria. Non preoccupatevi. Sono, per il momento, tiri di prove, a salve. Ci troviamo dinanzi ai due luminari del riformismo italiano: Turati e Treves. Il primo è guardingo. È inutile seguirlo nel suo esame delle cause che condussero al trionfo dei rivoluzionari a Reggio Emilia. Fu, egli dice, una «raffica» scatenatasi dagli abissi dell'imprevedibile. Questa è una frase iperbolica. Per noi fu un atto naturale. Il Partito volle liberarsi dall'aberrazione monarchica rappresentata da Leonida Bissolati, come nel 1892 e nel 1906 si era liberato dall'aberrazione anarchica e sindacalista. Le accuse di intolleranza, di inquisizione colle quali i diversi Podrecca volevano cattivarsi le simpatie proletarie, sono cadute. I destri non recitano più — neppure Cabrini, il cuore dolce della compagnia — la commedia piagnucolosa in cui si atteggiavano a vittime innocenti.
"Bissolati lo ha dichiarato superbamente, altezzosamente al 1° Congresso dei destri: «Noi siamo stati cacciati perché lo abbiamo voluto!» Ed ora Turati ammette che quella di Reggio fu in un certo senso «vera e giusta condanna». Dopo aver dichiarato che permane il «comune bisogno e desiderio dell'unità del partito» Filippo Turati manifesta ancora una volta la sua acuta inveterata fobia dello sciopero generale. Costantino Lazzari ha esplicitamente proposto di dichiarare lo sciopero generale all'indomani del primo eccidio ed ecco Turati a definire «fantasma fosco» lo sciopero generale di protesta, dietro al quale non bisogna vaneggiare. La ragione addotta dal Turati, è un sofisma. Un sofisma sottile. Mettiamo in soldoni l'aut-aut turatiano.
"Perché non si deve fare lo sciopero generale? Perché il suo successo presuppone una grande maturità di coscienza e di forza nel proletariato. Tante grazie! Ma quando tale forza e tale maturità esistono, lo sciopero generale, afferma Turati, è inutile ed assurdo. E chi lo ha detto? Al contrario. Quando il proletariato sarà forte e maturo, lo dimostrerà, immobilizzando, sia pure per uno sciopero di protesta contro gli eccidi, tutta l'attività del mondo borghese. L'avversione dei riformisti italiani per lo sciopero generale non è di origine teorica, ma volgarmente elettorale. È il ricordo delle elezioni del 1904. Uno sciopero generale alienerebbe ai candidati socialisti le simpatie di quella massa amorfa che costituisce i ceti piccoli borghesi. I socialisti del Belgio e dell'Ungheria non hanno queste preoccupazioni squisitamente filistee. I socialisti ungheresi sono alla vigilia di uno sciopero generale di protesta contro un progetto di legge reazionario. Se l'on. Turati si trovasse a Budapest egli terrebbe ai magiari questo strabiliante discorso: «Non effettuate lo sciopero generale o rimandatene l'esecuzione al giorno in cui sarà... inutile. Non fatelo adesso perché siete sicuri dell'insuccesso, non domani, perché sarebbe inutile. Conclusione: grattatevi l'ombellico».
"Mentre la Critica Sociale circola in tutta Italia, a Napoli è scoppiato lo sciopero generale. È il commento alle sibilline disquisizioni della C. S. Insomma, quando un popolo che non sia di venduti e di smidollati vuole protestare sia per gli eccidi, sia per il pane, contro la politica pazza del governo; questo popolo abbandona le officine, i campi, gli uffici, le botteghe, le scuole, si rovescia nelle strade, invade le piazze, tumultua sotto gli edifici pubblici, fa lo sciopero generale, lo sciopero generale, lo sciopero generale.
"Questi non sono i latinucci del socialismo; è il socialismo in azione. O è dunque vero che il riformismo italiano è fisiologicamente incapace di concepire quella che Carlo Marx chiamava con frase divinatrice (suffragata dalle recenti scoperte del De Vries e dalla ormai universalmente accettata teoria delle «mutazioni rapide») la «evoluzione rivoluzionaria»? O è dunque vero che il socialismo italiano dev'essere sempre inferiore agli avvenimenti? assente nelle grandi crisi della storia? Sarebbe una verità terribile. Noi la respingiamo.
"Segue l'on. Treves, il littérateur del riformismo sinistro. Dopo Bissolati, anch'egli dà al discorso pronunciato dal Mussolini alla Camera del Lavoro di Milano una interpretazione bislacca. Quando si vuol combattere con facilità la tesi opposta, si comincia col rovesciarla e col renderla irriconoscibile. Vecchio spediente. Per il Treves «ci sono dei riformisti che tornano a sognare improvvise miracolose conquiste del potere politico, mediante l'imprigionamento dei quattro rappresentanti dell'autorità in ciascuno degli ottomila comuni d'Italia: nel quale imprigionamento consisterebbe tutta la rivoluzione». L'on. Treves dice sul serio o scherza o fa della caricatura? Perché «quattro» rappresentanti e non cinque? Quattro possono bastare a Gorgonzola, non basterebbero a Napoli. Quella di Treves è una boutade. Nessun rivoluzionario ha della rivoluzione un concetto così puerile da ridurla a un semplice episodio che in determinati casi può tuttavia imporsi come una necessità.
"I contadini a Vincennes «legarono» infatti il più alto rappresentante dell'autorità regia: Luigi XVI (sarebbe stupido sintetizzare in quell'episodio tutta la rivoluzione francese, ma sarebbe ancor più stupido non riconoscerne la grande significativa decisiva importanza). Spieghiamoci. Cominciamo col dichiarare che noi crediamo fermamente nella rivoluzione, come «fatto». Quelli che l'hanno relegata fra le impossibilità sociali, non sono dei socialisti. Giovanni Jaurès aveva negato la possibilità di guerre continentali. Si è ingannato. La storia lo ha irrefutabilmente smentito. Per la stessa ragione si era negata la possibilità delle rivoluzioni. E in quest'ultimo quinquennio ne sono scoppiate tre: in Turchia, in Portogallo, in Cina. Un giorno o l'altro saremo svegliati da una nuova rivoluzione in Spagna. Si era detto: guerre e rivoluzioni sono impossibili perché fra le nazioni e fra le classi c'è solidarietà d'interessi. Il tessuto sociale è estremamente complicato. Ogni lacerazione è un disastro sia per chi la provoca sia per chi la subisce. Ciò malgrado assistiamo alle guerre che sono immani lacerazioni, come domani assisteremo o parteciperemo a una di quelle «mutazioni rapide» per cui le società umane fanno d'improvviso un formidabile balzo innanzi. Perché la rivoluzione, una rivoluzione trionfi, è necessario che essa sia simultanea e decentrata. Occorre che vi partecipino non solo i grandi centri, ma tutti gli ottomila comuni d'Italia.
"Lo smontaggio dell'enorme macchina governamentale deve essere rapido tanto ai centri come alla periferia. Una rivoluzione slegata, una rivoluzione fatta dalle città, senza la partecipazione delle campagne, finirebbe in una catastrofe... Quindi quella che noi vagheggiamo è proprio una rivoluzione di classe, cioè, di tutta la massa proletaria, in tutti i luoghi: dalle città alle borgate, da queste ai villaggi. La rivoluzione francese non è solo l'opera di Parigi. Così la rivoluzione sociale non può essere l'opera di una sola parte del proletariato... Ciò posto, la distinzione tra forza e violenza è bizantina. Non sempre la violenza è manifestazione di forza, ma spesso la forza si esprime colla violenza. Ecco perché Marx ha definito la violenza «la levatrice della storia». (Bisognerebbe proporre l'espulsione di Marx dal Partito, per questi tre motivi: 1° perché fu processato — e assolto — alle Assisi di Colonia per incitamento alla rivolta armata; 2° perché apologizzò la Comune di Parigi anche in quelli che furono i suoi «eccessi»; 3° perché in quasi tutti i suoi scritti ricorre ostinatamente il concetto di rivoluzione e di violenza... La proposta d'espulsione deve partire dall'on. Canepa.) Secondo l'on. Treves «il determinismo classico marxista oppone la classe che è la forza, ai gruppi che sono la resistenza perché essa è una dottrina di rivoluzione e non di rivolta», e l'on. Treves ne deduce la seguente pericolosa illazione, quantunque sotto veste anodina. «Ogni abuso di iniziative violente per opera di gruppi idealisticamente privilegiati è una usurpazione manifesta sui diritti rivoluzionari della classe, i quali maturano nell'organizzazione sindacale.»
"Fermiamoci un po'. Contestiamo che il determinismo classico marxista abbia creato questa opposizione fra classi e gruppi. Che cos'è l'Internazionale fondata da Marx, se non una Federazione di gruppi per l'imminente Rivoluzione? E nel concetto riformistico non è forse il Partito cioè un gruppo idealisticamente privilegiato che si impadronisce anche colla violenza del potere politico in nome e per gli interessi della classe? Per mettere a disposizione di questa, come dice l'on. Treves, i mezzi e gli strumenti di produzione? E non siamo dinanzi a una potente usurpazione dei diritti rivoluzionari della classe?
"L'on. Treves non contesta l'uso, sibbene l'abuso di iniziative violente da parte dei gruppi idealisticamente privilegiati (come i Partiti; aggiungiamo noi). E allora precisiamo: l'usurpazione manifesta sui diritti rivoluzionari della classe (diritti che la classe può e «non» può far valere) è condannabile solo nell'abuso o anche nell'uso? Ecco un dilemma elegante. Ai partiti è riservato l'uso delle iniziative pacifiche.
"L'on. Treves sogna un partito di eunuchi. Siamo assai vicini al «ramo secco» bissolatiano. Mentre per noi il Partito è arbitro e responsabile delle sue iniziative. Come ha risvegliato la classe dal suo millenario silenzio, così può precederla o sostituirla nelle iniziative rivoluzionarie.
"Per l'on. Treves concepire la lotta di classe come una guerra guerreggiata è «funestissimo» e non socialista. La lotta di classe dovrebbe essere per l'on. Treves una pacifica, continua contrattazione fra datori di lavoro e proletari. Non si va al socialismo attraverso a una strada irta di triboli, ma vi si scivola per un cammino di rose. Niente guerra guerreggiata! Noi siamo pacifisti!... Per l'on. Treves, che ha già oggi nella società borghese quello che forse non potrebbe avere nella società socialista, la lotta di classe concepita tragicamente, come voleva Carlo Marx, costituisce un assurdo antisocialista.
"Ma il proletariato delle officine, delle miniere, dei campi ha ormai ben chiara la nozione di trovarsi in stato di guerra guerreggiata contro la società borghese...
`'E ci sono i guerrieri che soffrono e combattono, come ci sono i Trevisti che sghignazzano. Volete dunque in odio alla «eroicità», ridurre il socialismo a una partita computistica? Volete dunque, in odio a Nietzsche, farci tornare a Bastiat o a Lamennais?"