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Paolo Valera
Mussolini

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XV

 

LA "RIVOLUZIONE" DELLE CAMICIE NERE

 

Poteva essere un sottovoce. Udito che Benito Mussolini era avviato alla rivoluzione con i suoi contingenti in camicia nera, ho avuto delle apprensioni. Non sapevo se si faceva della dinastia o della repubblica fascista. Il pericolo era solo nel Facta — un presidente dei ministri che stava per impazzire come il Di Rudinì di una volta. Si diceva: egli sta per sguinzagliare il solito arnese di tirannia: lo stato d'assedio per uccidere degli uomini o per essere ucciso. Questi piaceri dei turpi generali alla Bava Beccaris sono stati soppressi. Il re pare non abbia voluto firmare l'oltraggio umano. Si può avere orrore per la guerra, ma non si può piegare alla minaccia del massacro della folla. Mussolini ha vinto. Facta era inseguito. Egli era troppo abbietto. Fuggiva. Meritava una stroncata di collo.

Pochi sapevano che il duce aveva organizzato un poderoso esercito di camicie nere in viaggio, condotto dal suo quadrumvirato. Sognavo. Mi aspettavo le cannonate. Invece non ci furono che delle fucilate con pochi morti e qualche ferito. Forse eravamo in piena agonia monarchica. Mi ritornava alla mente quella del 10 agosto 1792. I Savoia andavano all'epilogo. Erano momenti lugubri. Mussolini aveva già ghigliottinato i suoi ex colleghi per realismo nevrotico. Poteva cadere nelle febbri repubblicane. Erano i suoi tormenti di ieri. Le corone dinastiche non rimangono sempre sulle stesse teste. Chateaubriand aveva detto che i Savoia salvavano le loro corone abdicando. Poteva darsi che Vittorio Emanuele III uscito dai fianchi della rivoluzione del suo avo, avesse aperta la reggia alla rivoluzione. Bene! C'era sempre lo stesso esordio. Luigi XVI non aveva voluto combattere. Non aveva conteso la corona. Si era abbandonato con la sua famiglia fino all'ultimo boccone di pane mendicato a Chaumette, un sanculotto eminente di quei giorni messo alla sua custodia.

Mussolini è giunto a Roma in camicia nera. Sceso in un albergo non ha esitato a cavarsela. Non voleva assumere l'aria di un dittatore fascista. Il cardinale Vannutelli aveva brindato al suo trionfo, la Chiesa si era prostrata, il clero aveva benedetta la vittoria delle trecentomila camicie nere sparse nel nord di Roma. Tuttavia l'avvenimento deviava. La monarchia non appariva più in crisi. L'alba lasciava supporre una specie di pace. Ohimè! Si saprà più tardi il perché fu scissa o spezzata la rivoluzione. Andiamo, avanti! Si diceva che il re non aveva voluto firmare lo stato d'assedio. E con questa dichiarazione si era saputo che la monarchia in Italia poteva dormire i suoi sonni tranquilli. La rivoluzione fascista non avrebbe sparso, a villa Ada, sangue. Non voleva fare della strage come era avvenuto in Russia. Mussolini si era acconciato alla bontà di Kerensky. La maestà, alla mattina, si era recata da villa Ada alla reggia. Entrata, fece sapere per mezzo dell'Agenzia Stefani che la proclamazione dello stato d'assedio non aveva più corso. L'Italia è stata tre giorni senza governo: dal 28 al 30 ottobre. Dopo questo periodo i sansculottes del fascismo, senza spargere una goccia di sangue, entrarono. Mussolini aveva già stretta la mano a sua maestà al Quirinale. Era una rivoluzione che si era svolta con l'aiuto del cappellano di Corte e qualche altro prete. La famiglia reale era salva. Con Mussolini facevano parte le sommità della marina e dell'esercito. L'ammiraglio Thaon di Revel e Diaz erano divenuti anche loro rivoluzionari. Facevano parte del ministero. Molti uomini conosciuti in ambienti meno ufficiali erano al loro posto di ministro. In poche ore Mussolini aveva messo insieme il suo ministero. Dove era lui, c'erano molti senatori e deputati e alti personaggi fascisti. Preparata la collezione degli uomini che dovevano collaborare al ministero, il "duce" è andato alla reggia, accompagnato dagli on. Finzi e Acerbo, tutti e tre uniti dall'amor di patria. Il sovrano cominciava a tranquillizzarsi. L'idea che fra le camicie nere ci fossero dei regicidi o dei terroristi era andata in fumo. L'uomo che aveva seminato in parecchi anni la sommossa si limitava nella Monarchia. Come Danton, in un giorno di rivoluzione, si genufletteva al prete e poi si prostrava al crocifisso. Danton aveva commesso molti peccati. Si era diminuito davanti alla storia. Castighiamo il fellone. Era la sorte di Mussolini. Credeva nel Signore. Invece di sradicare il Quirinale, la reggia, e togliere ai Savoia la corona si metteva a disposizione della Monarchia per continuarne il regime. Peggio che Danton!

Molti dei suoi compagni, udita l'entrata di Mussolini alla reggia, disperarono di vedere la rivoluzione. La repubblica sociale era tramontata. Solo egli diceva che non si sarebbe più servito della ferrovia nelle sue corse. Aveva forse viaggiato male. Lo avevano forse seccato gli applauditori. Sì, egli era stato applaudito a tutte le stazioni. Aggiungeva che non era un demagogo. Che non lo era mai stato.

In rivoluzione si accolgono tutte le dichiarazioni.




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