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Paolo Valera
Mussolini

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XXI

 

IL PRINCIPE DI MONTENEVOSO

 

Forse il torto è nostro di supporre che i poeti siano dei vivacchiatori di idealismi o superuomini diversi. Sono uomini come noi. Si danno a tutti i nostri spassi e a tutte le nostre aspirazioni. La poesia del resto è finita. La poesia del nostro tempo è vendereccia, come la prosa dei tempi pescecaneschi. Si vende tutto. Giosuè Carducci fu un eminente bevitore di vino di vasello e di bottiglia, come Stecchetti fu un ottimo bevitore di birra e di barbera.

L'Enotrio Romano scomparve. Fece bene. Non poteva sopravvivere alle sue maledizioni antimonarchiche. Un giorno fu tanto ingenuo da consigliare il sovrano a buttare la corona oltre il Po. Fu l'ultima sosta di Enotrio Romano. Egli voleva farsi il tribuno armato della rivoluzione italiana e sciogliere il voto nazionale a Roma. Tempi dei rompicolli. L'autore delle "odi barbare" aveva capito che egli passando all'altra riva sarebbe stato possente. Il divinizzatore di Robespierre si è gettato in piazza completamente monarchico. L'ode alla regina non era sua. Gliel'avevano ispirata, suggerita. Tutti così questi poeti.

Tuttavia egli non ha voluto acconciarsi alla demolizione. Si credeva troppo alto perché i suoi ex inalzatori potessero gridargli abbasso! Eppure non fu più repubblicano. Neanche coi suoi dodici sonetti del Ça ira. È diventato, s'intende, più ricco. Vi fu un momento in cui egli ha riabilitato Francesco Crispi, quando circolava come il peggior ribaldo che abbia governato l'Italia. Il parlamento gli ha dato una pensione, la regina ha comperato i libri della sua biblioteca privata, le sue pubblicazioni andarono a ruba e a prezzi proibiti e durante le stagioni non ha fatto fatica a risalire a Madesimo a bere il vino delle vecchie cantine e l'aria fresca. Da cittadino era divenuto suddito. Cantava la patria. Indossava la redingote. Non era più l'uomo che doveva mandare a Sommaruga la prosa e la poesia per la Bizantina. Scriveva una ode barbara per un personaggio dei Savoia o per la figlia di Crispi o per Crispi e la sua edizione regia correva sui binari dei professori dotti ed eloquenti come nessun'altra.

Gabriele D'Annunzio non ha avuto ipocrisie. Per lui la sua penna è stata la sua bottega. Non lasciava mai il manoscritto ad Angelo Sommaruga senza il suo compenso. Non volle esserecittadino, né suddito, né girondino, né giacobino. Ha fatto della poesia venduta al migliore offerente. Ha incominciato coll'essere una meraviglia della strada e del salotto. La gente lo guardava. Oscar Wilde attirava l'attenzione pubblica in America con un abito color bottiglia. Who is he? Si domandavano i passanti. Gabriele D'Annunzio con un superbo levriero, signorilmente macchiato, per le vie di Roma era l'attraction. Egli era in giro come un ragazzo di genio. La gente sapeva i suoi intermezzi di rime a memoria. Canzoni rudi, canzoni libere, canzoni di gran lietezza, di vita nuova. La prima gesta fu libidinosa. Coloro che prima lo avevano sparso come un portento, chiamavano in seguito la legge a sopprimere le sue impudicizie. Non vedevano nelle sue poesie che fango. Dalla sua letteratura passavano prostitute, si vedevano bordelli, vi scorrevano parole sconce e puttanesche. Egli era un tronco di corruzione. Cantava i lunghi languori che lo snervavano, i bei seni dalle erte punte, le reni feline e le bocche sanguigne per cui gli era dolce sfiorire. Lo si faceva diventare una mente pervertita, un immondezzaio politico, un padrone di sgualdrine.

E mentre mucchi di letterati e di giornalisti sono andati alla ricerca della verecondia, Gabriele D'Annunzio, circondato dal frastuono pubblico, si avviava da Roma a Firenze con una duchessina che si era gettata nelle sue braccia. Li ha trattenuti il prefetto per completare il can-can. Ebbe un finale come nei drammi. Il padre curvò la testa. È avvenuto il matrimonio. Dalla lussuria sarebbe passato alla grandezza dell'unione legale.

Sono usciti dei volumi, dei romanzi, delle rotture di matrimoni, dei drammi di nuovi amori, dei drammi teatrali, delle Città morte, fino alla catastrofe col suo Shylock. È andato in esilio. Pareva ch'egli uscendo dai confini di questa società dell'orgia carnale avesse detto: Italia, non avrà più le mie ossa! La Francia gli ha tradotto tutti i suoi libri. Molti in inglese. Molti in tedesco. Ha scritto dei libretti d'opera per delle sommità musicali. Ha fatto denari. Ha sempre vissuto principescamente. Il suo editore Treves lo ha tenuto in Paese. Ha continuato a pubblicare i suoi volumi che sono andati a successive edizioni. Il massimo fu quello delle Laudi. È un libro in casa di tutti i ricchi. Egli è pure al cinematografo con la Cabiria e la Navevisioni storiche.

Avvicinatasi la guerra nessuno pensava di vedere il ritorno di D'Annunzio. Lo si credeva stroncato dalla critica. Ferri lo aveva chiamato alla Camera un Bell'Ami. Vi era stato un momento in cui lo si era veduto inseguito come un gabbamondo. Egli era accusato di plagio come lo fu a suo tempo Sardou. D'Annunzio non se ne dette per inteso. Lasciò che i cani latrassero. Tirò via per la sua strada. Circolava la documentazione dei brani ai fianchi dei brani. Egli era un plagiario perfetto. Documenterei. Non ho spazio. Dal plagio alla pornografia non fu che un passo. Tutta la sua letteratura portava le stigmate del pornografo. Lo si faceva circolare per i fogli illustrati e le riviste come un corrotto, uno che abusava delle femmine. G. Chiarini che lo aveva lanciato come un superuomo col Canto Novo andò poi sulla piattaforma a chiamare i questori perché lo agguantassero come un personaggio osceno. La sua "forte e barbara giovinezza" in braccio delle femmine gli aveva permesso di mettere sul mercato i lunghi languori. I lubrici fantasmi della perversione erotica lo facevano cadere negli immondezzai pubblici, ma gli facevano guadagnare mucchi d'oro. Nessuno guadagnava come lui. Egli poteva andare dal Treves con un rotolo di manoscritti e uscirne con trenta e più mila lire in saccoccia. Egli ha fatto romanzi, studi, drammi o tragedie passando sempre dalle somme ingenti alla bolletta. Abbattuto, portato in pubblico come un essere vergognoso, le sue pubblicazioni non cessavano di avere una clientela avida della sua letteratura afrodisiaca. La sua bolletta era dovuta ai suoi modi di spendere. Scialacquava, superava i nabab della poesia e della prosa e coltivava la vita intellettuale. Inutile! Il denaro non gli bastava mai. Viaggiava come un miliardario. Non riusciva che ai debiti. Il senatore Albertini che gli voleva bene e gli pubblicava sul Corriere articoli a peso d'oro, credeva al suo disordine amministrativo e prendeva in mano per qualche tempo il guazzabuglio dei suoi guadagni. Inutile! D'Annunzio non guadagnava mai abbastanza. Lavorava a periodi come nessuno. Ma il risultato non era mai diverso. Spendeva e aveva bisogno di spendere. Pareva il Walter del giornalismo.

È stato in esilio per degli anni senza sbronciare i creditori. Ha moltiplicato le sue produzioni, ha avuto tutti i suoi romanzi tradotti a pronti contanti, ha garibaldinizzato il suo tempo, ha cantato i Mille, si è ingraziato un pubblico che lo odiava ed è ritornato in Italia quando la gente lo credeva dimenticato. Che cosa ci entrava lui nella guerra? I suoi versi non erano eroici. Non buttavano i soldati sui nemici. È venuto in Italia come un eroe. La Canzone di Garibaldi è andata direi quasi a ruba. Il prezzo fu popolarizzato. Non si è più parlato dei suoi episodi, delle sue Capponcine, delle sue Duse, delle sue Di Rudinì che lo avevano accompagnato con i cavalli delle loro scuderie a metter in scena le sue Città Morte, le sue Figlie di Jorio, le sue tragedie moderne come Più che l'amore ecc. Il primo passo del suo ritorno fu per la Grande Italia. Diffuse orazioni e messaggi. È andato in giro a sollevare il popolo aristocratico con parole che diceva per la prima volta ai genovesi, intitolate la Sagra dei Mille. C'era al suo dorso Salandra. Fu il suo protettore. Lo spronava. D'Annunzio non appena a Roma si avventò al collo di Giovanni Giolitti. Aveva tutta la stampa con lui. L'ex Presidente del Consiglio non fu più che della lordura. Lo si è fatto rincorrere come della zavorra politica con degli escrementi letterari. D'Annunzio era salito. Ha suonato le campane in Campidoglio. È andato a Villa Ada, "al domicillo della maestà del re d'Italia". I ricordi dei "Mille" gli hanno fatto dire che la luce era fatta. Pareva il Cavour, il Vittorio Emanuele II. "Qui si fa l'Italia o si muore." "Qui si rinasce e si fa un'Italia più grande." Ha fatto scappare Bülow, l'ambasciatore tedesco, con insulti plateali, come ha fatto scappare Giolitti, trivializzandolo come un becero. Ha dato del vile a tutti. "Meglio che prendere la parola io vorrei riprendere il fucile, o compagni", aveva detto Garibaldi. Chi non s'arma è un vile o un traditore, diceva D'Annunzio. Ha dato il nome ai veicoli dell'aria chiamandoli velivoli. È stato elevato a comandante. Ha perduto un occhio in una precipitazione. Non è stato tranquillo. Ha pubblicato quarantamila copie di Notturno a venti lire la copia. Libro personale. Libro di esuberanza personale. Non ha parlato che di sé. Ha riprodotto tutti i movimenti e i ricordi passati e presenti della sua persona. Non ha dimenticato neppure le proprie stramberie. Come questa: "Ho sull'occhio il fanciullo etrusco di bronzo". Poche righe tragiche. Veramente tragiche. Si raccontava che gli alpini con le gambe congelate subirono duecentocinquanta mozzature di piedi e sul Carso i fanti stavano con le gambe nell'acqua motosa fino alle ginocchia. Le loro scarpe erano di qualità pessima, scarpe di cartone, fornite dai frodatori che godevano di tutte le indulgenze invece di essere fucilati in massa o forzati a rimanere tre giorni nella morta gora delle trincee con quelle loro stesse scarpe ai piedi. Tre giorni sarebbero bastati a finire un uomo anche ladro. Ora egli è a Gardone, proprietario di una casa di un tedesco. Vi è insediato come principe di Montenevoso, forse a scrivere degli altri "Romanzi del giglio" o degli altri Innocenti o degli altri Trionfi della Morte.

Il poeta è stato denunciato un giorno come un oltraggiatore al pudore e un eccitatore alla corruzione. Mussolini lo ha messo in alto e l'ha protetto per un pezzo dalla fama d'istrione.




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