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Paolo Valera Mussolini IntraText CT - Lettura del testo |
Forse neanche Lenin, quando torreggiava su tutti gli uomini di fama, avrebbe veduto i siciliani così festanti come li ha veduti Benito Mussolini. Non ci furono ritegni. Classi e masse, ricchi e poveri, furono tutti sulla sua strada con le ovazioni strepitose. Io non avrei creduto. Conoscevo le rivolte siciliane. Conoscevo le inquietudini dell'isola. Mi ricordavo dei diluvi furiosi per non udire clamorosi dissensi. Guai poi se avessi preveduto la pomposa esaltazione di Francesco Crispi, morto strapazzato da tutte le lingue e da quasi tutte le penne. Pareva non ci fosse stato più nulla. Con una alzata di mano il tribuno Mussolini avviò i cervelli all'ossequio. Tutti rimasero tranquilli e rispettosi. Le generazioni che applaudivano Benito Mussolini parevano in adorazione di colui che era entrato nella storia quasi come l'organizzatore e il condottiero dei Mille. Non altero la storia. Lo lascio adagiato nella megalomania. Lo aiuto a bistrattare i piagnoni e gli assertori di povertà. Ma dove andiamo a finire se permettiamo agli oratori di esumare con il cappello in mano il fucilitore dei suoi concittadini che erano malcontenti di morire nella ignoranza e nella fame, in mezzo ai baroni e ai grandi proprietari dell'isola liberata dai Borboni? Le stragi dei contadini dei diversi Caltavuturo non si possono dimenticare. Sono morti eroi i De Felice (stu Cagliostro), i Bosco e gli altri "malfattori", accoppati o galeottizzati da Morra di Lavriano?
Francesco Crispi aveva avuto delle bellissime pagine. Il denaro lo ha rovinato dappertutto. Non c'era ancora l'indennità parlamentare. Forse può avere influito la moglie spendacciona, sensuale, ambiziosa, con una tavola sempre imbandita per i five o'clock e per gli amici dei pranzi sontuosi. La Riforma fu il suo quotidiano personale, la sua proprietà privata, il suo lusso di primo ministro. Egli ci teneva a fare l'altezzoso ministro degli esteri. Ci teneva a fare il Richelieu. Si diffondeva da sé. C'era dovunque. Fu il giornale ufficiale di tutti gli ambienti municipali e governativi. Fu un giornale che ha vissuto un po' di questua patriottica. Che aveva la presunzione di portare in giro le grandi idee del Pitt italiano. Crispi è passato attraverso uragani morali, finanziari, militari. La prima caduta fu dovuta a una donna respinta, dopo averla arruolata fra i Mille e averla condotta a Corte e alla mensa di Umberto I. L'Italia era rimasta smagata dal tranello vile teso alla giovane ch'egli aveva finto di sposare a Malta. Per un po' di tempo è passato per un depravato. Egli era facile a ricorrere ai chèques bancari e ai prestiti che sono rimasti più di una volta sospesi. La gaffe maggiore fu quella della Banca Romana. Tutta la sua famiglia — compresi gli alti domestici — si riforniva da Tanlongo. Fu questa la ragione per cui taceva dello scrocco di ottantotto milioni rubati dal governatore. Pare che in questo grosso furto siano compresi i prestiti fatti al sovrano d'allora. Questa sarebbe la ragione per cui il ladrone è poi stato elevato al posto di senatore.
Confido che Benito Mussolini non abbia avuto tempo di penetrare nella documentazione. C'erano momenti in cui Crispi indossava la livrea del sovrano e assumeva un tono di indipendenza antimonarchica. "Noi siamo con lui", diceva, "finché egli sarà con noi." Viceversa fu sempre un buon servitore di monarchia. Respingeva le onorificenze cavalleresche per poi sfoggiarle al petto. Prepotente. I suoi pugni sono nei resoconti parlamentari. Ha saputo coltivare intorno a sé molti cortigiani, stati poi trovati fra coloro che scontavano cambiali alle banche statali senza curarsi delle scadenze. Fu considerato una figura gigantesca per le sue imperiosità, le sue burbanze. Era piuttosto un terrorista parlamentare. C'è voluto Menelik a farlo impallidire, a buttarlo giù dal trono con tutta la sua alterigia. Salto via l'accusa dell'affare Herz. Cinquantamila lire per una decorazione avrebbero potuto giovargli. La documentazione cavallottiana esiste. Crispi aveva allora 72 anni. Concediamogli l'indulgenza. Egli ha da scontare l'uragano della disfatta del 10 marzo 1896. Annunciato con tutte le delicatezze verbali il disastro d'Adua, corse, per tutta la Penisola, un'urlata d'improperi e di abbasso Crispi! Non fu una sconfitta, fu una disfatta. Nel telegramma di Baratieri si diceva, come nei telegrammi di Cadorna, nell'ultima grande guerra, che l'esercito non aveva voluto combattere. L'Italia non aveva piegato affatto sotto l'onta. Gli abissini avevano vinto. Il Paese fu superiore al primo ministro. Invitato a dare sessanta milioni per raccattare la bandiera italiana insanguinata dai nemici abissini il pubblico si gettò sulle liste di sottoscrizione firmandovi venti volte i milioni cercati.
Non sono di quelli che gridano raça al generale dell'insuccesso. Di tanto in tanto Wellington non mi dispiace. In una battaglia coloniale le sorti sono due. In Abissinia la presa di Magdala poteva dare la vittoria a Teodoro. La sfortuna gli ha dato la disfatta. Ha vinto sir Robert Napier. Crispi è stato terribilmente punito dal re degli abissini. All'epilogo del disastro la borghesia si è vuotata la borsa, ma nessuno si è domandato se Umberto I aveva il diritto di tentare di conquistarsi la corona di imperatore senza domandare il consenso nazionale. Le guerre non dovrebbero essere più permesse senza il referendum di tutte le classi e di tutte le masse di chi paga e di chi combatte. Chamberlain ha distrutto la repubblica di Kruger ma per farlo ha dovuto conquistarsene il diritto dalla piattaforma elettorale inglese: se no, no. Se no si rimane con gli "strilloni del re", che esumano: Luigi XVI, consegnato al boia del 1793. Si esuma la putredine.
Il maltrattamento direi quasi nazionale stato fatto al Crispi non fu una iniquità sociale. Il nome dell'ex dittatore al potere fu sinonimo, per un pezzo, di corruzione. Come si diceva di Depretis, si diceva di Crispi: non era possibile avere con loro un governo morale; con l'applicazione degli stati d'assedio non si poteva conciliare lo Stato con l'opinione pubblica. È venuto un momento in cui Crispi era diventato intollerabile. Era in giro come un truffatore. È più che noto il plico di Giovanni Giolitti che ha costernato la Camera. Il Presidente del Consiglio non veniva più discusso. Lo si attaccava con prosa vituperevole. Le ingiurie venivano propalate e servivano di modello a coloro che prendevano parte ai dibattiti che lo esecravano e maledivano. Crispi era il peggiore ribaldo che avesse governato l'Italia. Non so più chi lo abbia detto. Il suo ministero fu il più scellerato che avesse vissuto. Fu un dittatore bestiale e sanguinario. Giosuè Carducci che doveva al Crispi molta benevolenza e la sua elevazione, ne fu addoloratissimo. Gli pareva impossibile che si fosse venuti alla maledizione di un uomo stato adorato da più generazioni. Tanta ingratitudine gli aveva fatto gruppo alla gola. E io lascio passare il rigurgito affettuoso carducciano.
"Caro grande amico, nulla oggimai vi manca di ciò che per lo più è toccato ai sommi cittadini nella storia dei popoli; né dopo salva la patria, l'ingratitudine di quelli che vi invocavano; né, dopo il colpo dell'assassino, l'aggressione di quelli che voi amaste e beneficaste. La procella selvaggia né anche risparmiò il giovine capo della figlia presso le nozze. Serena e calma, in mezzo e sopra questo osceno infuriare di malvagità faziose e ambiziose, la vostra forza. Salute e rispetto. G. C."
Tutto ciò si capisce. Carducci parlava del Crispi che aveva voltato casacca pur essendo stato amico intimo di Mazzini. Non pensava più al malfattore della sua politica e della sua vita privata e tirava giù questi versi per la figlia che andava sposa a un uomo dal quale si è poi presto separata:
Gli occhi sereni e le stellanti ciglia.
De le tue braccia al bianco capo intorno
E de la patria il tenebroso giorno.
Ne l'amoroso e pio folgoreggiare
L'ampio riso rivegga ei del suo mare
E più vero e migliore, innanzi e indietro
Silenzio intorno, a lui su '1 capo il tetro
Balenar nei crepuscoli fiammanti;
Garibaldi e l'Italia: avanti, avanti!