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Paolo Valera Mussolini IntraText CT - Lettura del testo |
Si vede subito che il fascismo è una organizzazione di ubbidienza. Io credo che lo stesso re sia sottoposto alle volontà presidenziali. Da che è salito Mussolini è un sovrano che lavora, agitato, movimentato. Non è più il placido numismatico. Direi di più. Tutta la famiglia reale lavora. La regina va di qui e di là a inaugurar scuole, istituzioni, edifici patriottici. La Monarchia, ai tempi di Umberto, secondo lo storico dei Dieci anni, era in grande decadenza. Diceva: fra il 1896 e il 1898 la Monarchia era molto decaduta nell'opinione del Paese. Molti scrittori, anche di parte moderata, ammettevano che le classi borghesi si allontanavano dal Principato. Il deputato conservatore Siliprandi, sulla fine del 1898, così definiva lo stato d'animo delle classi borghesi della Lombardia:
"Una parte notevolissima della borghesia lombarda è repubblicana e, mi affretto a dirlo, e con piacere lo affermo, trattandosi dei nostri immediati avversari politici, essa è tanto moralmente rispettabile, intellettualmente colta e socialmente elevata quanto la borghesia monarchica. Essa vanta tradizioni patriottiche indiscutibili, tenacia di opinioni, attività costante di propaganda, abilità grandissima di procedimenti. La utopia mazziniana è quasi spenta nelle nostre provincie, ma il positivo pensiero di Carlo Cattaneo vive robusto e spontaneo... Tradizione monarchica nazionale in queste provincie non vi fu mai".
Umberto, in quei giorni si ingolfava come Crispi nei debiti, nei prestiti e nelle banche più che poteva. Il re dei nostri giorni per non occuparsi troppo di politica e mettersi in disaccordo con la nazione, si è dato allo studio di numismatica. Mi dicono che abbia fatta una notevolissima pubblicazione. Certo non è a prezzi vendibili.
Per Mussolini l'ubbidienza è dunque indispensabile. Nessuno deve compiere atti senza la sua autorizzazione e la sua approvazione. Certo sono avvenuti molti conflitti a sua insaputa e molti episodi sanguinosi ch'egli non avrà potuto prevedere. Cremona fu una delle province più volte sottosopra. L'on. Farinacci vi ha sciorinata molta strafottenza. In un paese civile egli sarebbe stato arrestato più volte. Miglioli può essere la più grande canaglia italiana. C'è chi ai tempi del grano lasciato marcire nei magazzini del cooperativismo migliolino lo ha voluto paragonare all'affamatore Foulon, l'esecrato intendente giustiziato dalla "Grande Rivoluzione". Io non lo conosco che come deputato clericale. Ma non poteva essere né sloggiato dal suo domicilio né bandito dalla sua provincia da un avversario. Diversamente si cadrebbe nei disordini delle province messicane o nelle violenze degli strilloni del re. D'accordo. Io sono ancora un utopista. Non so adattarmi alle ingiunzioni che vorrebbero essere statali e non sono che sopraffazioni o vendette personali come quelle compiute da Cesare Rossi, la terribile sciagura capitata a Mussolini.
Mussolini, con il suo giornale, ha infuturato idee rivoluzionarie. Ha trovato un terreno favorevolissimo. Tutti deboli, tutta gente che lasciava fare con la speranza che facessero niente anche gli avversari. Non c'è mai stato un quotidiano che si sia lasciato demolire e ardere e frantumare come l'Avanti!, quando stava di casa in San Damiano, senza neanche un articolo che incitasse alla vendetta, alla rappresaglia, alla restituzione del danno e delle aggressioni. Nella stessa sera io mi trovai con la mia compagna in casa del direttore per assumere con la penna e con l'azione la mia parte. Non c'era niente da fare. I dirigenti dell'azienda ordinarono il rifacimento dell'edificio, il ripristinamento delle stanze di redazione e di stamperia, come se si fosse trattato di un disastro senza importanza o inevitabile. Non ci sono stati vocaboli incitatori. Non si sono ammucchiati che sfasciumi. Io venivo considerato come uno scapestrato o una testa calda. Avrei rovinato tutto. Condotto il partito alla rovina. Così è avvenuto dopo il san michele in via S. Gregorio. Un altro assalto, o meglio un'altra invasione, e gli uomini prudenti si sono ritirati, si sono dispersi, hanno lasciato libero il campo alla devastazione. Si è bruciato un'altra volta, si sono rovesciate delle altre pareti, martellati degli altri soffitti, frantumate e messe sottosopra delle altre macchine, disperse delle altre cassette di caratteri, arsi degli altri volumi senza irritarsi, senza protestare, senza correre a casa del rivale a rendere pan per focaccia. Il municipio fu vuotato di tutto il socialismo con un semplice ordine di non tornare più indietro, di non farsi più vedere. Neanche il sindaco ha saputo immolarvisi. I fascisti hanno preso il loro posto senza versarvi una stilla di sangue. Che sangue! Non c'è stata neppure della censura con le mani in aria. Il coraggio era sparito o non era mai esistito. La verità anche per noi. Il direttore dell'Avanti! era in viaggio alla volta della Russia. L'azienda milanese è andata quasi tutta all'inferno.
Passiamo alla bega turbolenta di Massimo Rocca, il produttore della più bella prosa rivoluzionaria di questi giorni. Ben legata, più forte di quella degli altri. Mussolini doveva aspettarsela. Il Rocca è un anarchico altero e violento per natura. Egli ha defenestrato molta gente. È un'individualità. Fu sempre nemico dei socialisti. La sua teoria era di prendere pane dove ce n'era e di non pagare i debiti agli esercenti. A Parigi gustava il sovversivismo tempestoso. Ha giudicato molti uomini francesi ed italiani che avevano fatto storia. Crispi non fu certamente fra i suoi idoli. Egli — se non avesse fatto altro — avrebbe sfrattata dall'Italia la gioventù calda di idee nuove, credendo di liberarla dai cervelli balzani. Fu una reazione tremenda quella di Crispi. Crispi ne ha mandati in galera fin che ha potuto farli agguantare, ne ha lasciati passare alla frontiera quando non ha potuto gettar loro al collo il guinzaglio e li ha calcati nei domicili coatti fin che ha potuto.
Il Rocca aveva un triplice aspetto di militante, studioso e di operaio. In verità non c'è più nulla in lui di quelle tre concezioni. È asceso troppo in alto. Non ha più tempo di occuparsi di tendenze come quando si chiamava Libero Tancredi. Adesso ce lo descrivono come un furioso e un iconoclasta, un ipercritico, o un' altezzoso. Guadagna quello che guadagna. Il suo nemico dello stesso partito gli attribuisce un totale di duecentomila lire all'anno. Libero Tancredi, come si chiamava una volta, in questi giorni, ha avuto uno scoppio di bile. Ha buttato tutto dalla finestra. Il 15 maggio ha rassegnato il benessere al Presidente del Consiglio: le dimissioni da vicepresidente dell'Istituto di Assicurazioni, da consigliere di due società collegate con l'Istituto e da amministratore della Raffineria Petrolifera di Fiume. Così, aggiunse egli, "adempio a due doveri: uno di salvaguardare la mia dignità; l'altro, che si matura in me da molto tempo, di evitare ogni corresponsabilità, sia pure involontaria, con le invadenze di una egemonia finanziaria che estende ormai il suo monopolio anche nel campo assicurativo.
"E prima di lasciare la penna ricordo che l'anno scorso i rappresentanti della Standard Oil vennero da me a propormi un affare analogo a quello della Sinclair, avvisandomi che si sarebbero guadagnati milioni e che io sarei stato con loro. Li ho messi alla porta, prima che Farinacci accaparrasse tutta l'onestà per conto suo".
Non mi occupo del suo duello. Avvenga o non avvenga. Mi occupo del suo mandato legislativo. Se non gli è stato concesso come una sinecura, mi aspetto che disubbidisca. Perché se è stato eletto dagli elettori, egli non può sottomettersi all'ingiunzione di dimettersi, come se fosse un lacchè parlamentare.