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Paolo Valera Mussolini IntraText CT - Lettura del testo |
All'on. Roberto Farinacci, despota e censore.
Sentimi bene, Farinacci, poiché questa volta non voglio risparmiarti nulla. Io ho riaperto la polemica revisionista in questi giorni, con la volontà precisa di giungere ad un risultato pratico di epurazione e di chiarificazione del mio partito, nelle idee, nei metodi e negli uomini. Ho parlato di te, solo per accidente, e con parole cortesi, in piena armonia con ripetute dichiarazioni private di stima e di simpatia per te, delle quali Filippelli e Bazzi e Federici ed altri possono testimoniare. Perché, vedi, a me piacciono gli uomini che hanno una linea ed un carattere, e tu sei uno di questi: lo riconosco, anche se dissento. E lo rispetterei se tu non avessi voluto sciupare la tua riacquistata riputazione nei due ignobili articoli che hai scritto contro di me sul tuo giornale. Pure, questa volta non voglio lasciarmi trascinare dallo sdegno ironico, come nel settembre scorso, allorché tu ed altri parlaste di me quale appartenente ad una banda speculatrice in non so più quale direttissima. Ti parlo sul serio, questa volta: e parlo non tanto a te come individuo e fascista, quanto al viceré spagnolesco di Cremona, amico di alcuni signorotti locali e settentrionali del partito, che da sei o sette mesi diffamano e m'infangano le scarpe, nella pia illusione di umiliarmi. La disciplina non annulla il diritto alla legittima difesa, specie quando non viene mai applicata a chi attacca ed insulta me e gli amici miei.
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Tu, Farinacci, nominando soltanto me nei tuoi articoli, parli di onestà, come se fosse un monopolio tuo e di De Stefani, e aggiungi considerazioni offensive circa i posti retribuiti ch'io occupo, al contrario di te, direttore di Cremona, e presidente della Mutualità agraria: orbene, grazie per l'occasione che mi dai di scrivere quanto segue.
Io ho cominciato la mia vita politica esattamente a diciassette anni, nel 1901: ventitré anni or sono. Ho sempre lavorato del mio lavoro, tipografo fino all'11 settembre 1913. Ho fatto dei debiti per potermi arruolare volontario nelle Argonne, nel 1914, assieme a Bazzi — dove egli scrisse una meravigliosa pagina d'azione quale nessuno dei suoi denigratori seppe mai scrivere — e li ho pagati sempre col mio lavoro. Ho sostenuto, dall'America come emigrante, e dall'Italia come operaio, la famiglia a cui appartenevo, quando mio padre era vivo e ammalato all'ospedale. Oggi, e da tempo, sostengo sette persone a mio carico, compresa mia madre e mia suocera, e non me ne lagno: ho commesso forse degli errori intimi nella mia vita, ma le conseguenze le ho sempre sopportate io. Ho rinunziato, nel 1919, a mille lire al mese come redattore della Perseveranza, quando fu comperata dal rag. Pressi per conto di Nitti, e mi sono ridotto a ottocento lire alla rivista Risorgimento, diretta dal conte Arrivabene, pur di essere libero nell'esprimere le mie idee. Fui propagandista del partito per qualche mese, e poiché mi si pagavano i viaggi in prima classe come a tutti gli altri, io viaggiavo di notte in terza per inviare la differenza a mia madre lontana: so che Marinelli, quando fui espulso, tentò imbastirvi sopra una questione morale. Ho contribuito a salvare l'industria zolfiera in Sicilia insistendo perché le fosse accordato il prestito semi-governativo di cento milioni: l'avv. Cozzolino ti dirà che non ho voluto — bada bene: non ho voluto — avere un centesimo di compenso. L'anno scorso, ammalato a letto, ho salvato con la mia difesa polemica, contro chi voleva demolirlo, l'Istituto nazionale delle Assicurazioni, che ha ottocento milioni di riserve: l'ingegnere Toia ti può dire che non ho chiesto né avuto un soldo. Oggi, ho una carica retribuita che mi occupa, in ufficio, da mane a sera.
Il risultato di questa mia vita ventennale è ch'io posseggo diecimila lire carta in un libretto presso la Banca Commerciale: ma esse non bastano a pagare il mio debito, per il mio appartamento di Roma, presso il mobiliere De Capitani. Non mi sono ancor acquistato nè ville nè automobili, non conosco indirizzi di bische; non frequento ritrovi notturni. E nota bene, Farinacci, non ho mai chiesto a nessuno di pagarmi spese politiche; nemmeno al conte Lusignani.
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Se l'umiliazione di spiattellare tutto questo per difendermi dalla tua volgarità non ti basta, io sono pronto a sottoporre tutta la mia vita pubblica e privata al censore più severo, purché non di professione come te. Privata e pubblica: perché io mi vanto di essere sempre stato di minoranza, ribelle disinteressato, geloso della mia integrità morale, della mia disciplina interiore. A diciassette anni, in un processo che poteva fruttarmi tre giorni di carcere, ho affrontato quattro mesi per la coerenza di rifiutare la difesa. Anarchico, fra gli anarchici, ho lottato per un anarchismo concepito come rivolta ideale e religiosa contro coloro che impastavano l'anarchia di utopie e di delinquenza. Sovversivo ed emigrante, ho cominciato ad essere fascista nel 1915, difendendo la realtà sentimentale della patria fra i sovversivi italiani. La guerra libica, la cui necessità io sostenni, mi procurò la scomunica definitiva. Nel settembre 1914, primissimo fra gli interventisti, in una sala di Bologna, tentai invano di tenere una conferenza, ché fui aggredito da duecento energumeni; ma ferito, grondante sangue, ho vinto io. Poi, mi sono arruolato volontario con Bazzi in Francia, e poi di nuovo in Italia, al fronte sul serio, e infine a Fiume con D'Annunzio, mentre tu coltivavi più agevolmente l'eroismo nelle stazioni ferroviarie. Nel 1918, tornato a casa, mi trovai di nuovo in minoranza e in avanguardia, sostenendo accanitamente, solo con Memmoli, Missiroli e il conte Arrivabene, i diritti italiani sulla Dalmazia, mentre tutti i partiti ed i giornali, compresa l'Idea Nazionale, ne allentavano la difesa illudendosi col Patto di Roma.
Bada bene, Farinacci: quanto ti dico di me stesso, è documentato in libri miei ed altrui, e può venir testimoniato da uomini dei partiti più diversi: da Corradini a Cabrini, a Labriola, a Orario, a Panunzio, a Ciattini, a Memmoli, a Bellonci; tutta gente che per animo e mente ti supera di molto, e che mi stima. Né mi sarei acconciato a dirtelo, se non preferissi la sfacciataggine di scrivere la mia biografia alla commedia di farmela scrivere dagli altri; perché non mi piacciono le pose, i soffietti, e la pubblicità della propria fotografia.
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Così vuotandomi per difendermi, acquisto il diritto di esprimere la mia opinione su te e su altri, e persino sul mio partito, al quale ho dato molto di me stesso, e con gioia, ma del quale non mi rassegno a fungere da testa di turco o da sputacchiera. Per esempio, il vituperare come facesti il ministro Carnazza, perché aveva concesso una parte di ferrovie ai privati, era violazione del programma fascista, indisciplina verso il partito e il Governo, e disonestà politica, in quanto tu combattevi per i tuoi interessi elettorali. È disonestà politica quella del ministro convinto da molto tempo che è meglio cedere ai privati le ferrovie, che preferisce tacere per amicizia tua o calcolo politico interno di partito che vi s'impernia: quell'amicizia e quel calcolo costano molti milioni allo Stato... È nuova disonestà politica, e più grave, ciò, che tu scrivesti ieri l'altro in Cremona Nuova, che cioè la massa ferroviaria non rimarrebbe tranquilla se le ferrovie non fossero di Stato. Ciò vale a sottoporre le ferrovie alla tua demagogia elettorale ad uso dei ferrovieri che ti votarono; è bolscevismo della specie peggiore. È disonestà politica, infine, parlare di corruzione contro chiunque non la pensi come te sulle ferrovie od altro; il minacciare larvate secessioni mentre pretendi insegnare la disciplina agli altri.
Sai quale differenza corre fra noi, come fascisti e uomini politici? Eccola: tu sostieni il Duce e il Governo solo in quanto ti permetton d'imperare nel vicereame di Cremona e feudi annessi; io li sostengo perché il solo pensiero ch'Egli cadesse, e di ciò che accadrebbe poi in Italia, ove un suo pari non esiste, mi pervade di spavento. Salvo che tu t'illuda di poterlo sostituire!
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Ma io ho ancora altre colpe appo di te. Anzitutto sono amico di Bazzi. Che vuoi? Egli mi ha sostenuto in settembre, da amico sincero e commilitone in battaglia, quando certi tuoi amici filistei della onestà solo quando conviene (che valgono cento volte meno di lui) non osavano dire la stima che nutrivano per me. In secondo luogo, sono il sopportato deputato della Lombardia, scornato con pochi voti di preferenza. È vero: io, per disciplina verso il Duce, ho accettato di abbandonare Torino, ove riempio i teatri con le mie conferenze a pagamento; e in Lombardia, quando ho visto che i tuoi amici boicottavano la mia propaganda per farti piacere, me ne sono andato, infischiandomi dei voti, come del resto avevo già avvisato il Duce che non mi sarei offeso affatto d'una mia esclusione dal listone. Pure, vi è un uomo che ha girato l'Italia intera, nel 1919, '20 e '21, per propaganda fascista, senza mai pensare a crearsi un feudo elettorale; un uomo che capitò due volte a Cremona da te chiamato e che ringraziasti pel suo contributo di critica e di lotta contro il lodo Bianchi. Quell'uomo sono io: la mia cultura e la mia intelligenza valevano allora qualche cosa!
Oggi, secondo te, io ho anche il torto di occuparmi di filosofia, di Lutero, di Kant, e simili cose che ti urtano. Ma io non le scrivo per te, e nessuno ti obbliga a leggerle: tu non hai colpa alcuna se non le capisci, come io non ho commesso un reato a studiarle. Tu dici ironicamente che sei un cafone, mentre io mi guarderei bene dal chiamarti così; ma i cafoni sono simpatici quando rimangono al loro posto, non quando posano a despoti, a censori, o ad avvocati se vuoi. E la prova che non conosci la logica della tua parte, è nel rimproverarmi prima di rimanere nelle nuvole delle teorie, poi di scandalizzarti perché io tratto con rude franchezza la politica pratica, pur senza scendere a questioni personali; e infine di sfidarmi a citar nomi, salvo farmi espellere dopo per beghe personali appunto. Come debbo dunque contenermi, o terribile Farinacci? Tacere sempre, perché tu e il partito mi tollerate "generosamente" nelle vostre file? O mentire in pubblico per vostro conto, per la prima volta dopo venti anni? O ritirarmi dalla vita pubblica?
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So bene che questo è il tuo sogno: e può anche darsi che si avveri: ma prima ch'io mi decidessi, troppe cose dovrei dirti ancora. Ad esempio, che quando io tento riabilitare il cattolicismo, non è per uno sportismo filosofico; ma perché tu e la tua generazione, di giovani fascisti e non fascisti, moralmente sconvolta anche in coloro che sono onesti come te, sta avviando se stessa ad una rovina irreparabile per la mancanza d'una profonda sensibilità morale; e condurrà alla rovina anche l'Italia, se gli adolescenti già oggi pieni di nuova spiritualità, non aiuteranno a raddrizzarle l'anima o a schiacciarla, noi, uomini maturi che un'anima si son foggiata sul serio in uno sforzo ventennale. Che se io rimango nel partito, anche dopo che gli pseudo-rivoluzionari come te non vollero, dopo la Marcia su Roma, attuare alcun programma massimo di sindacalismo integrale, è per trovarvi il mezzo di realizzare almeno un programma minimo di legalità ferrea e di disciplina spirituale. Il problema in Italia non è di fabbricare leggi a getto continuo, ma di far rispettare quelle che ci sono, anche e specialmente contro i riottosi come te. E puoi essere certo che se il Duce domani ti mettesse in galera per otto giorni come un cittadino qualunque, a costo di riempire di autoblindate, trascorrenti fra pubblici applausi, la tua Cremona, il nono giorno tu usciresti di carcere mutato e migliore, più consapevole di te stesso, convinto che la frusta, tua od altrui, non è il simbolo dei signori, ma dei servi e dei prepotenti, non importa se s'illudono d'essere signori.
In altri termini, tu devi persuaderti che non tutta Italia è Cremona e che io non sono quel Miglioli che tu chiami ora a difenderti dopo averlo bandito: io sono il grande e povero signore, moralmente signore sul serio che si degna una volta tanto difendersi da te, plebeo.
Bada bene, Farinacci, questo non lo dico solo per te, e forse meno per te che per altri, amici tuoi: perché io non mi adatterò ad assistere in eterno agli sforzi contro ogni programma. Puta caso, a non saper se sian stati puniti come gli scherani di certa nobiltà terriera di Pisa, quegli esercenti "fascisti" che in Brianza devastarono le cooperative fasciste — (nota: fasciste, lo so dall'amico Postiglione) — perché facevano loro concorrenza. Puta caso, a scorgere il fascismo ufficiale di Genova letteralmente venduto agli armatori che lo disprezzano pagandolo, secondo riconosce chi li paga, e ch'io tratterei da bugiardo se mi smentisse. Puta caso, a vedere la mia città natale governata, per dispetto a Mario Gioda, dall'organizzatore del massacro del dicembre 1922, che Mussolini definì, in un impeto di sacra ira, indegno della razza umana. Puta caso, infine, a disperare che quella oligarchia di pochi uomini, benemeriti ma insufficienti, la quale governa il partito da tre anni, lo diriga di fatto e in eterno, malgrado gli sforzi dei rinnovati Direttorii, mercé la rete di amici provinciali che t'incensa; che escono dalla porta di una carica e rientrano dalla finestra d'un'altra, e rimangono sempre al potere, direttamente, o per interposta persona, maltrattando le persone di cuore e di ingegno, impedendo ogni vera rinnovazione ideale e morale. Vuoi difendere simile gente, Farinacci? Accomodati, ma non parlare di onestà! Non sei in carattere, questa volta.
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Ti scandalizzi, Farinacci? Hai torto, perché vi è di peggio. Perché il giorno in cui io perdessi ogni speranza, in cui mi convincessi che il fascismo — invece di essere il movimento grandioso di ricostruzione che fu in parte e ch'io sogno continui — degenera nella volgare brutalità del cazzotto e del randello o nella viltà imposta dalla paura, io invierei al Duce la mia tessera, la medaglietta e la croce di commendatore; spezzerei la penna piuttosto che scrivere col tuo permesso; ridiventerei anarchico per disperazione piuttosto che accettare il tuo dominio; mi dimetterei persino da italiano, e tornerei emigrante e tipografo all'estero, in cerca d'un paese civile che mi garantisse l'incolumità fisica e morale. Perché io son disposto a cederti tutto, anche la mia pelle se credi, purché tu la sappia prendere a me che ho fatto la guerra sul serio e saprei difenderla, ma non la mia dignità di uomo; perché nessun tesoro al mondo mi persuaderebbe a cambiare il mio cervello, la mia anima e il mio passato con i tuoi; perché la distanza fra me e te, dall'alto in basso, io saprei mantenerla anche malgrado la tua pena di morte, e un minuto prima di morire sghignazzerei, sputerei, ancora sulla tua forca e sulla tua mannaia.
E credo, con ciò di averti risposto come ti meriti. In conclusione come squadrista della prima ora, ti stimo; come uomo di carattere, ti voglio anche bene; ma come eroe che parla di morte senza averla mai affrontata mi disgusti, come censore mi fai ridere, come tiranno mi fai pena.
Ed ora, chiedi la mia espulsione, Farinacci, secondo usi ingenerosamente contro un uomo isolato che non ha dietro di sé alcun vicereame da opporre al tuo. Fammi espellere; può darsi che tu vi riesca. Ed io raccatterò la bolla di espulsione e me l'appenderò al petto come la medaglia commemorativa di una vittoria, come la consacrazione definitiva del mio coraggio e della mia fede.