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Paolo Valera
Mussolini

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XXVIII

 

LA VIOLENZA PUBBLICA

 

È un sogno. Forse neanche. Forse è una sciocchezza. Siamo in un ambiente nazionale troppo sottosopra per supporlo tollerabile con simile disastro. La burrasca dei calamai di redazione non è estinguibile. Fino all'estinzione della prosa viva, la violenza è e sarà indispensabile. La violenza in chi scrive è un temperamento. Non è nervoso chi vuole, si intende. Per gli scotimenti cerebrali bisogna avere delle idee, delle passioni, delle aspirazioni. Il bonaccione della penna può essere utile, può essere un tipo di utilità pubblica. Egli è un rond de cuir. L'uomo di tavolino sente. Freme. Una tragedia gli rimescola il sangue. Una carneficina gli strappa un urlo. Un avvenimento estero lo indiavolava. Egli partecipa idealmente della esistenza collettiva. Vi si immerge nelle sue gioie e nei suoi dolori. Nell'avvenimento che annuncia c'è la sua voce, la sua truculenza. Non è mai imperturbabile. Anche Torelli Viollier che fece del giornalismo senza increspature per non perdere lettori, ha dovuto più di una volta sguinzagliare i suoi istinti. Tutto ciò che si vede nel contatto associativo giornalistico è una minore tendenza alla polemica. I Bizzoni e i Cavallotti hanno perduto terreno negli ultimi anni. Non si circola nel vento infuocato tutti i giorni. Non ci sono più le colonne atrabiliari. Gli articoli che portano via la riputazione e la prosa sanguinosa che va addosso a dell'altra prosa esasperata con grida omicidiarie sono diminuiti. Ma la furia è rimasta. Non è cessata. Anzi! il maestro di veemenza torreggia. La prepotenza signorile e grandiosa la troviamo nella bella prosa giornalistica di Giosuè Carducci. Gabriele D'Annunzio ha compiuto degli omicidi in prosa come contro Nitti e Giolitti. Spesso ha terrorizzato il suo pubblico. I suoi periodi funzionavano da strangolatori. La violenza è anche nelle penne di Turati e di Treves. Hanno prodotte frasi scultorie. Non parliamo di Benito Mussolini. Ingelosiva. La sua prosa nell'Avanti! fu sempre altezzosa, autoritaria. Frustava. Quella sua di adesso è aggressiva, scuoiatrice, sempre villana per gli avversari. E così dappertutto. È come un bottino di punte acuminate. Rovina. Svillaneggia. Non si finisce di essere uomini di fegato davanti alle ingiunzioni. Giusti o ingiusti, si procombe sulle figure porche e si massacrano.

La Francia ha in questo stesso momento Leon Daudet, l'uomo che durante la guerra ha mandato parecchie teste alla fucilazione, facendo da carnefice in prosa. Aveva assunto il linguaggio statale. Come giornalista ha compiuto vendette atroci. Non ci sono state né deposizioni, né requisitorie, né difese contro la sua prosa indemoniata di patriottismo. Malvy ha dovuto andare in esilio. Giuseppe Caillaux, che fu Presidente dei ministri, ha dovuto espiare in esilio. Daudet, figlio del padre che viveva vergognosamente di una sinecura imperiale, ha fatto trionfare il potere della minaccia e della calunnia in un modo spaventoso. Dietro lui era Clemenceau. La penna di Daudet fu una lama. Recideva. Parecchie teste sono cadute alla presenza del pubblico. Il suo quotidiano cioè il quotidiano degli associati a tirar fuori dalla tomba della monarchia Luigi XVI ascendeva. Lui stesso è andato al palazzo Borbone, deputato. I giornalisti irlandesi di De Valera hanno lavorato il nemico con pensieri di una audacia incendiaria. I loro articoli se non sentivano di sangue puzzavano di cadaveri. L'ambiente fa il giornale. Un ambiente di pezzenti vi darà una prosa molle, modesta, umile, nauseosa. Via! Noi stessi non ci sapremmo adagiare in una atmosfera di mendichi o di sottomessi. Preferiamo spoltrire i cervelli in un quotidiano consapevole della sua forza. Dopo una conflagrazione mondiale supporre il giornalismo avviato alla quiete è supporre l'assurdo. Sono le scaglie del mestiere che andranno al mondezzaio, non la prosa che ha ancora dell'energia da vendere. C'è ancora in noi tanto per degli scontri cerebrali. Siamo preparati a boxare. Il prof. Sbarbaro non fu nostro. I suoi amori fraseologici con Margherita ci hanno stomacato. Fu un cortigiano malvestito. Ma la robustezza della sua prosa facemmo nostra. Non possiamo acconciarci alla caduta della violenza della prosa. Sarebbe come pensare alla caduta del cervello umano. Le sfuriate intellettuali hanno del tempo da vivere. I loro rigurgiti sono le nostre gioie supreme. Una futura tempesta a colpi di penna ci darebbe lo spettacolo di un ritorno ai più violenti conflitti di boxeurs cerebrali. La quiete professionale non ci interessa. La respingiamo. Potrà essere dei secoli venturi, quando la liquidazione sociale sarà avvenuta. Per ora non ne vogliamo sapere. Inchiuderebbe la nostra morte. Nel mondo in cui si vive prorompono sempre uragani strepitosi di conflitti personali. Si viva o si muoia, il conflitto esiste. Il conflitto chiassoso, strepitoso. I turbini di Jaurès riproducevano l'insurrezione coi fulmini. Il suo la era irraggiungibile. Mentre scrivo muore Caneva, l'impiccatore di piazza del Pane. Ecco che lo si rimette in circolazione. Ci sono quotidiani che in nome del decoro professionale lo porterebbero alla tomba come un eroe. E ci sono giornali che in nome della verità storica farebbero un'esposizione di arabi immolati dalla sua nequizia di omicidiario. Così Bava Beccaris, altro salariato dell'omicidio civile. È morto col petto carico di onori monarchici. Una sfuriata d'inchiostro è la nostra consolazione.

L'avvenimento di eliminare la violenza dal giornalismo è stato della quindicina di settembre del 1923, all'Associazione Lombarda dei Giornalisti. Si trattava di scegliere dei rappresentanti da mandare a un Congresso nazionale. Vi dominava il concetto dell'amicizia. Alcuni non erano di mio gusto. Perché parecchi di loro, in tempi di convulsioni politiche, avevano denunciato ai malviventi militari i difensori delle masse strafottenti. Essi avevano dato una mano a imbavagliare la stampa rossa. Erano "miei colleghi" in un senso professionale. Non di più. Costoro non potevano avere che idee da servitori. Erano tipi della mia indifferenza. Io non ho taciuto. Ci furono dissensi e accapigliamenti. Ettore Janni ha manifestato i suoi gusti per il giornalismo educato, dignitoso e autorevole. Tutta roba secca, finita. Egli si è forse fatto così in parlamento. Vi ha lasciato tutti i vizi dello scrittore riottoso. Adesso è dotto. Conoscitore della letteratura moderna. Stilista, sovente prezioso. Sa le ghignate degli scarnificatori dei deboli. Del giornale in cui vive ha le ambizioni. Gli scompigli dei virulenti non gli sono mai piaciuti. È uno scrittore posato. L'attacco non fa parte del suo bagaglio. Le rivelazioni lo indispongono. I morti sono per lui tutti assolti. Si chiamino Crispi, Livraghi, Bava Beccaris, Pelloux. Le rivelazioni per lui sono sinonimi di disordini. I rivelatori sono dei gazzettinanti. Roba di seconda mano. Cervelli plebei. Così in questa società della menzogna si preferisce crogiolare nel silenzio.

Graziani, il generale, passi col suo delitto soldatesco. Tanto non ci si rimedia. Chi è morto è morto. Egli ha dato prova di essere un esecutore "disciplinato". Luigi Cadorna, il generalissimo, illustrato militarmente da Barzini e gonfiato da Papini, sta diventando un venerabile del patriottismo. Pallanza gli prepara una villa per la vecchiaia. Bene! La merita. Non solo ha calunniato i combattenti, ma ha incitato alla fucilazione senza procedimenti.

 

 

COMANDO SUPREMO                                                                                                      26.V.916

 

A S. E. il Tenente Generale Lequio comm. Clemente

Comando Truppe — Altipiano Asiago

 

"Mentre pel resto della fronte le truppe si comportano dovunque valorosamente, in questi giorni, per parte di alcune unità del settore di Asiago, sono accaduti invece dei fatti oltremodo vergognosi, indegni di un esercito che abbia il culto dell'onore militare.

"Posizioni di capitale importanza e di facile difesa sono state cedute a pochi nemici senza alcuna resistenza.

"La E. V. prenda le più energiche ed estreme misure, faccia fucilare, se occorre, immediatamente, senza alcun procedimento, i colpevoli di così enormi scandali, a qualunque grado appartengano.

"Faccia appello altresì ai sentimenti di patriottismo e di onor militare delle truppe e dica loro che sull'altipiano di Asiago si salva l'Italia e l'onore dell'esercito. L'altipiano di Asiago, forte per buonissime posizioni già organizzate a difesa, sia mantenuto a qualunque costo. Si deve resistere o morire sul posto."

 

Il Capo di S. M. dell'Esercito: Cadorna

 

Ma andiamo avanti. Non voltiamoci più indietro. Non turbiamo l'apoteosi nazionale. I contemporanei se ne fregano. Documenti, giù dalle finestre. Al fosso! Tanto non c'è più stampa libera. Benito Mussolini vi ha rinunciato. Non si è capito perché se l'è lasciata accorciare. La stampa con lui non doveva uscire che completamente emancipata. Non doveva avere più signori che i proprietari della penna.




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