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Paolo Valera
Mussolini

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XXXII

 

NEL MONDO DEI RABAGAS

 

Si risale all'Homme qui cherche della Folla. Allora Mussolini chiedeva gerlate di pietre per fracassare e infossare i Rabagas della politica.

"Da qualche tempo io cammino fra dei rottami di uomini. L'Italia è ormai un'ampia giostra per gli invertiti di tutte le fedi, di tutte le idee, di tutti i partiti. Non passa giorno senza che qualcuno abbandoni le file del sovversivismo per schierarsi in quelle della conservazione. Non passa giorno senza che qualcuno senta il bisogno di prosternarsi, di riconciliarsi, di recitare il mea culpa davanti alla borghesia guerrafondaia e borsistica. Si vive nell'atmosfera della diserzione. I traditori — mascherati sino a ieri — gettano oggi la truccatura rossa col gesto di superuomini insoddisfatti e la plebe imbestiata da undici mesi di guerra non sa gridare il conspuez! dell'esecuzione. Io mi vergogno di vivere in questa Italia di funamboli e di passivi, di giocolieri di ogni politica e di gente che li sopporta con una rassegnazione evangelicamente idiota. Comincia, anzi è già cominciato il regno di Rabagas! Raccolgo nei giornali, i documenti.

"Io non ho mai creduto nel sindacalismo frondeur, estemporaneo, aristocratico, di Paolo Orano. Ho sempre detto che Paolo Orano era l'Enrico Ferri del sindacalismo italiano. Non l'ho mai preso sul serio. Sono lieto di constatare che le mie legittime prevenzioni non mi ingannarono. Paolo Orano era uno dei tanti commedianti che passano sul palcoscenico della nostra vita politica. È un Cagliostro in abito professorale. Quando l'ho visto aderire al sindacalismo rivoluzionario ho pensato: questo è l'ultimo tour de force del saltimbanco. È giunto al limite. Ora retrocederà. Tornerà nazionalista. Poi militarista. Quindi guerrafondaio smaccato. Facile profezia.

"L'Orano herveista si è riabilitato. Sta recitando il suo atto di contrizione e lo affida alle pagine del Corriere della Sera che fu nel '98 lo strumento più valido delle delazioni al servizio del generale assassino. Il direttore d'allora era l'avv. Oliva del Giornale d'Italia, d'oggi. Paolo Orano trova «bella, buona, risolutiva, quasi sacra la guerra italo-turca». Paolo Orano sente il bisogno di accodarsi al tartarinesco nazionalismo italiano per «lodare questa Italia guerresca, questo esercito che nella vertigine del più che la vita e più che la morte fa raggiare la fronte augusta di Roma, per ammirare questo esercito più bello e grande che non gli eserciti improvvisati per riforme rivoluzionarie».

"Paolo Orano ringoia con una grimace disinvolta da esperimentato farceur tutto ciò che ha detto e scritto contro il militarismo nei quindici anni della sua attività sovversiva e scioglie l'inno alla gloria della sciabola micidiale.

"Non ne sono schifato. Me l'aspettavo. Paolo Orano non è ancora entrato nella circolazione della coltura ufficiale. Non so perché. Forse per i suoi precedenti politici. La sua produzione libresca scivola nel mercato senza provocare emozioni. Lo seguo da dieci anni. Leggevo nel Socialismo di Ferri i suoi Patriarchi del Socialismo. Lo sfoggio dell'erudizione mi soffocava. Ho comprato i Moderni pubblicati dal Treves. So che il suo Cristo e Quirino non è stato preso in considerazione dai cristologi di vaglia.

"Il suo stile è cattedratico, involuto, asfittico. Ha dei periodi così lunghi che vi danno l'asma. Il suo cervello è una immensa bottega da rigattiere. Non c'è nulla di sistemato. Nulla di completo e di profondo. La Lupa, lanciata, colla spettacolosa e poignante réclame del Quattrini, è morta quando l'involuzione patriottarda del suo direttore era già arrivata alla maturazione. Negli ultimi mesi viveva di ritagli del vecchio Avanti!

"I vociani — cui va indubbiamente il merito di aver rinnovate le correnti della coltura nazionale — hanno fatto una parodia feroce degli scrittori delle Cronache Letterarie. Le potete avere con dieci centesimi. Chiedete La Voce di Firenze, il numero delle Croniche Letterate. Troverete articoli di Pourceaugnac, invece di Rastignac; Orin, invece di Orano; Donna Pagola, invece di Donna Paola — quella che incretinisce i bambini nella terza pagina del giornale democratico di Lardopoli. La prosa di Paolo Orano è stata parodiata alla perfezione. Le Cronache Letterarie non hanno risposto... Paolo Orano è stanco di vivacchiare nei licei di Provincia. Vuol giungere all'Università.

"Ma il mondo accademico italiano è ringhioso. È una casta chiusa. Guglielmo Ferrero non è dell'Università di Roma perché ha al suo passivo un volume di conferenze antimilitariste. Per arrivare in alto bisogna inchinarsi e strisciare. Bisogna rinnegare la vecchia fede. Bisogna meritarsi il perdono dei nemici. Il Carducci poeta repubblicano non esce dalla mediocrità nel concetto delle classi dirigenti. Ma l'ode alla Regina Margherita lo balza al Parnaso.

"Fra poco anche Paolo Orano sarà un grande filosofo librettato e riconosciuto dai poteri della Monarchia. Io lo lascio nel cimitero degli uomini senza spina dorsale."

"Non ho finito. Adesso acciuffo e porto sulla bascule della mia ghigliottina, un altro miserabile giullare del nazionalismo, un altro impudentissimo transfuga: Tomaso Monicelli. L'ho conosciuto nel '904. Scriveva sull'Avanguardia del Labriola e del Mocchi. Faceva l'impiegatuccio privato a Milano. Il suo pseudonimo era l'Homme qui rit. Ricordo i suoi Medaglioni riformisti. Una prosa stentata, greve. Non prometteva il Monicelli del Viandante. È stato lo sciopero generale del settembre che lo ha rivelato. La cronaca di quelle memorabili giornate di dittatura proletaria — fatta dal Monicelli — rimarrà nella storia della prosa sovversiva. Era scritta con l'anima. C'era finalmente uno stile, e non la pedissequa, quasi plagiaria imitazione carducciana. Dopo il salutare tirocinio dell'Avanguardia, Monicelli passò all'Avanti! Poi tentò le scene. La sua Sorella Minore parve una magnifica promessa. Non l'ha mantenuta. Le produzioni che la seguirono ci allontanano sempre più dal capolavoro sperato. Il tentativo di serrare nelle brevi scene di un dramma recitato, il vasto dramma sociale, gli è fallito. Il teatro monicelliano si è chiuso coll'insuccesso. E allora venne il Viandante, giornale. Di notevole, nella vita di questo giornale, un referendum che fu l'indice segnalatore del grado di degenerazione politica cui era pervenuto il socialismo italiano.

"Il Viandante non giunse alla meta. Morì lungo la strada. Nessuno lo pianse. Non lasciò alcun vuoto nel mondo del pensiero. D'allora, Monicelli s'è ritirato a Ostiglia. Adesso si dedica alla letteratura degli asili infantili. Ha, naturalmente, anche lui il suo paio di conferenze che va ripetendo a richiesta. Permettetemi di detestare gli insopportabili oratori-grammofono. Di tempo in tempo, Tomaso Monicelli dà segno di vita nei giornali democratici. È tripolino. Quando scrive si dà le arie leziose dell'oracolo. Sembra un pedagogo in cattedra. L'altro giorno l'ho sorpreso in un giornale di Bologna. Con un articolo che comincia: Vorrei consigliare ai socialisti italiani di leggere il libro di Podrecca sulla Libia. E continua con uno sfogo astioso e bestiale — da cui trapela la bile dell'uomo svalorizzato. Non è una recensione del libro. E l'apologia dell'autore. Di quel Podrecca che ha stomacato i socialisti italiani. L'articolo è comparso nel giornale diretto da un pennivendolo passato dal socialismo agli stipendi della slavata democrazia massonico-popolarista Anche Monicelli è un guerrafondaio. Anch'egli è diventato un benpensante. Fra poco sarà proclamato da uno dei tanti Janni del Corriere, il principe dei novellieri. Dove è andato il Monicelli rivoluzionario herveista? In frantumi. Le schiene di cartilagine non resistono agli urti delle crisi sociali.

"C'è un libro che il Monicelli socialista dovrebbe consigliare a leggere: Espansionismo e colonie di Enrico Leone. Che cosa valgono le divagazioni più o meno letterarie dei Podrecca e dei Rossi-Doria di fronte al formidabile libro del teorico del sindacalismo italiano? Qui non c'è l'Arcadia beota di cui favoleggia Tomaso, ma la scienza, la storia e il diritto e la condanna aperta e recisa dell'impresa africana. Sarebbe tempo di distinguere fra espansionismo economico e conquista militare. Ma i letterati si ubriacano di frasi. E l'Italia è il paese dei letterati. L'impresa tripolina è stata l'aubaine dei letterati a spasso. Tomaso — anima filistea di borghigiano — chiese di perire sotto le lame proletarie. Ma no. I conigli non finiscono sulle lanterne. Andrea Chénier è di un altro tempo. Tomaso ha la prudenza furbesca del santo di cui porta il nome. Non è andato a Ravenna per la paura di una fischiata. Gli hanno buttato in faccia la sua prosa antimilitarista di pochi anni fa e l'eroe è rimasto al sicuro nel suo borgo natio. Pagliaccio, va!

"Ho scelto due casi, ma potrei elencarne una fiche chilometrica. Basta. Mi riassumo. Ogni nazione ha avuto guerre coloniali, ma lo spettacolo dell'Italia ufficiale e sovversiva non ha precedenti. In alto il fanfaronismo ufficioso e giornalistico che riabilitava Tartarin, in basso il sovversivismo disorientato e impotente. La Monarchia ha già vinto la sua guerra e l'ha vinta in Italia. L'ha vinta qui aggiogando al suo carro i puledri della rivoluzione. Le dedizioni non si contano più. Le prode del Rubicone formicolano di uomini che vogliono vendersi. Alzatelo dunque il cartello che richiami i compratori alla fiera delle coscienze! Ce ne sono di tutte le qualità, di tutte le età, di tutte le origini. Trombettieri soffiate nei vostri ottoni! È la liquidazione di fine stagione. Coscienze e stoffe. I due articoli non sono dissimili, come potreste credere. Jonathan Swift nei suoi Libelli ha definito «la coscienza» un paio di brache che si calano quando fa bisogno.

"Ma voi follaioli di tutte le terre, follaioli che non volete adattarvi, né rendervi, né conciliarvi con questa vituperosa società di ladri e di derubati, voi portatemi delle pietre, portatemi sempre delle pietre, portatemi delle gerle ricolme di pietre perché io possa in un'ora di frenetica lapidazione maciullare e seppellire tutti i Rabagas della terza Italia."

 

L'homme qui cherche




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