Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText
Paolo Valera
Il cinquantenario

IntraText CT - Lettura del testo

Precedente - Successivo

Clicca qui per nascondere i link alle concordanze

L'Italia Regia non voleva Roma.

 

Nella storia cinquantenaria non c'è terreno camminabile. Più mi sforzo a gambate di giungere in qualche zona sbloccata dalla melma ufficiale, e più sdrucciolo e più mi inzacchero e più sprofondo e più mi trovo chiuso nelle tortuosità fangose.

Sono come in un'immensa metropoli di fango. Luce giallastra, vie limacciose, edifici di loto, monumenti di mota viscida, personaggi di palta.

Mi pare di avere negli occhi le pillacchere e sul viso la belletta. L'aria stessa che respiro è impura. Sente di cloaca.

Sono nel periodo della contaminazione, nel periodo della fame, nel periodo della corruzione parlamentare, nel periodo delle atrocità politiche, nel periodo della vigliaccheria italiana. Voltatevi indietro. Ecco l'Italia nelle mani dei farabutti, dei mascalzoni, dei truffatori, dei ribaldi. Sfilate, miserabili!

Avanti voi Menabrea, voi Cantelli, voi Bargoni, voi Sella, voi Rattazzi, voi Bonghi, voi Minghetti, voi Venosta, voi Cambray-Digny, voi Depretis, voi Crispi, voi Mancini, voi tutti che avete trescato, che avete tenuto mano, che vi siete fatti complici, che avete fatto trionfare con il voto, con la solidarietà, con l'esempio il misfatto ministeriale. Tutto quel mucchio di gente iniqua rappresenta la pellagra del contadino. Con Quintino Sella alla testa si è sottoposto il corpo del villano all'azione omicidiaria del frantoio dell'imposta sul macinato, si è messo il contatore al mulino delle turbe di campagna per sgrassarle, ischeletrirle, ridurle pelle e ossa in nome del pareggio del bilancio. La manìa del pareggio gli ha fatto domandare i 50 milioni di carta monetata, anche quando la povera gente era afona, non aveva più fiato per sgolare la sua miseria.

Milioni e miliardi nella gola militare, nella gola dell'esercito e della marina che avevano dato all'Italia in compenso di tanto denaro Lissa e Custoza, i due fattacci di terra e di mare i quali, con quell'altro di Abba Garima, formano il triangolo più spettacoloso e più ignominioso delle disfatte del secolo scorso. Al popolo stremato, spremuto, ridotto a non avere più che gli occhi per piangere, piombo! piombo! piombo!

Per dei mesi tutta la penisola è stata indiavolata dai tumulti della fame. Per dei mesi le grida delle donne delle campagne, i pianti dei bambini della poveraglia rurale hanno rintronato in tutte le teste ed in tutte le case italiane e straniere.

All'estero siamo rimasti immortali. L'Italia è il paese della fame, dei tumulti della fame, dei massacri in ogni solco delle nostre campagne. O si moriva estenuati o di piombo. È stato il colera ministeriale di quel periodo. Ha mietuto più persone l'imposta sul macinato che non tutta la pestilenza asiatica. Ah, se il nostro tempo non fosse popolato di rivoluzionari di carta pesta e di socialisti di gesso, noi avremmo in mezzo al frastuono della baldoria cinquantenaria l'oratore più possente, più documentario, più eloquente della vita nazionale. Con tanto materiale per le rivendicazioni dei diritti delle masse la sua voce sarebbe una rivoluzione di campane a stormo. Ma, ohimè! il proletariato italiano è guidato dai leticoni, da persone che vivono di teorie, di sottigliezze, di programmi, di eufemismi, di paure, di ambizioni, di arrivismi, di personalismi.

Pensieri angosciosi, indietro! Io voglio serbare i miei rancori per i facitori di questa Italia inzuppata di sangue umano. Ah, sì, parlateci dei Cavour. Bei tipi. Tipi di poliziotti nati. Interrogate le memorie dei rivoluzionari d'allora. I Cavour! Cavour stesso aveva una testa che era tutta un viperaio, una rete, un labirinto di sofismi. Gli apoteosisti del suo centenario lo hanno divinizzato. Ma fra i suoi contemporanei hanno dimenticato Guerrazzi, perchè, parlandone, non ha avuto la perfida illusione degli altri. Anche lui, come gli altri, aveva spremuta la spugna dell'aceto e del fiele sulle labbra dell'Italia proletaria. Un po' di corda al collo della sua riputazione sarebbe stata giustizia. Per me basterebbe il 6 febbraio 1853. Nel '53 i Cavour vanno in frantumi. È una pagina che li obbliga a smascherarsi e lasciarsi vedere nel dietro scena e nella viltà. Non sono più protetti dai sotterfugi. Il '53 li confonde coi croati, li mette assieme, li unisce nel lavoro di persecuzione e di espulsione. Sono poliziotti coi poliziotti, boia con boia, carnefici coi carnefici. Gli uni impiccavano, condannavano, inseguivano e gli altri agguantavano, facevano visite domiciliari, bandivano, mettevano in fuga tutti quelli che osavano sognare di fare l'Italia a ogni costo, con o senza monarchia. A Milano la carneficina pubblica. A Torino il lavoro poliziesco sott'acqua, compiuto con la stessa ferocia. A Milano i croati, ve ne ricordate? La sommossa si è concentrata con gli affiliati di Porta Tosa in San Pietro in Gessate; è stata sommersa nel sangue. Gli austriaci hanno compiuto le solite stragi. Hanno ammazzato, bastonato, sciabolato, inseguito, atterrato, fatto tutto il lavoro degli assassini. Hanno innalzato le forche. Per tre giorni di seguito i carnefici hanno continuato ad appendere. Nel primo giorno ne hanno impiccati più di venti. Scannini, Taddei, Bigatti, Broggini, Faccioli, Canevari, Monti, Saporiti, Galimberti, Bissi, Calla e, via via. Hanno condannato più di sessanta persone ai lavori forzati coi ferri o all'arresto in fortezza coi ferri. Ebbene, mentre il moto di tanti generosi finiva in un dolore che non ha nome, tanto supera l'immaginazione, sapete che cosa hanno fatto i nostri facitori dell'Italia, commemorati e marmorizzati nella gloria ufficiale? Hanno dato ragione all'Austria. Nel loro organo ufficiale l'«Opinione», gli impiccati nelle tristi giornate sono divenuti «ribaldi e barabba». E i signori Cavour di Torino disuggellavano le lettere di tutti gli emigrati, aumentavano le spie intorno ai sospetti, mettevano in prigione tutti quelli additati dalle polizie dei tirannelli che occupavano l'Italia e mandavano al confine tutti gli altri che vi si erario salvati scappando dall'Austria, dal Papa, dal Borbone e da qualche ducato. Fra le vittime delle razzie del Governo sardo cito, indovinate? Francesco Crispi. Mi valgo, per la documentazione, di qualche nota del suo libro.

«Il governo piemonteseera al potere Cavour-San Martino — senza alcuna richiesta del governo austriaco (la mia storia mi informa che egli — il governo piemontese — è stato invitato a cooperare alla distruzione dei rivoluzionari della indipendenza), e senza ragione ordinò immediatamente, appena conosciuti i fatti di Milano, l'arresto e le espulsioni di quella parte della emigrazione la quale sui registri di polizia era indicata di idee repubblicane. Non fu questione di alcuna sorta di partecipazione al moto milanese; nessuno degli arrestati fu convinto di ciò o trovato in possesso di corrispondenza che potesse tenere luogo di una qualsivoglia prova indiziaria. La fretta e la illegalità patente dell'atto scandalizzò tutti coloro che avevano prestato fede al liberalismo di Cavour».

Il questore di Torino si chiamava De Ferrari. Do il nome del grosso birro dell'Italia iniziale perchè in lui è il prototipo di tutti i questori venuti dopo e sparsi per le provincie della «Italia una». È il tipo che trovate a Palermo nel De-Seta, colui che ha servito poi Crispi nel '94.

Il De Ferrari aveva il pelo sullo stomaco come il Maniscalco della Sicilia borbonica.

Udite Mauro Macchi che era uno scrittore di diarii e di almanacchi politici e che fu poi deputato per tanti anni: «Cacciato dal Piemonte dopo cinque anni di dimora in seguito agli ultimi fatti di Milano, sento il bisogno di dichiarare dinanzi al pubblico ciò che il Governo non ignora, cioè che nessuno fu più estraneo di me al tentativo del 6 febbraio, come nessuno ne deplora più vivamente le sanguinose conseguenze».

Molti altri, centinaia e centinaia, hanno subito la sua sorte. È Crispi, il futuro anticristo dei socialisti italiani, che ne parla: «Arrestato il 7 marzo p.m., mi furono chieste le chiavi; ho dato l'unica ch'io teneva. Chiesi di essere presente alla perquisizione che si voleva fare in casa mia e mi fu negato». Poi scrisse al questore: «Da tre anni e sei mesi che mi fu permesso dimorare in Piemonte non ho mai offeso le leggi del paese. Se il mio arresto è un preliminare all'ordine di espulsione dai regi stati sardi, mi permetto prometterle che non è mica necessario. Io chiesi un asilo in terra italiana che si regge a governo costituzionale, perchè credevo potervi godere una vita tranquilla. Poichè il governo di S. M. sarda ha deciso in guisa da farmi ricredere da questa cara illusione, non io mi opporrò certo agli ordini che mi sarebbero dati in proposito. Soltanto chiedo il tempo necessario per aggiustare i miei affari e farmi venire da mio padre qualche somma per il viaggio e andrò via. In Torino ho casa, ho mobilio, libri ed altri effetti, ho qualche credito, ho debiti e non potrei partire intempestivamente e senza dare onorevole assetto alle cose mie. Ho molta dignità, vorrò dimandare altro».

È stato come se avesse parlato ad un muro. Il questore non si è commosso. Lo ha lasciato con altri 500 nella prigione Malpaga (dove la Montmasson, la povera donna gettata poi in mare per un altro sposalizio, gli portava la biancheria stirata), e venuta l'ora dell'espulsione lo ha fatto accompagnare con tanti altri alla frontiera dai reali carabinieri.

L'Italia è fatta e i suoi facitori sono nel medagliere del cinquantenario. Ma se la storia potesse parlare non ce ne sarebbe uno che potrebbe salvarsi dalla fama di poliziotto. Noi non abbiamo avuto per governanti che poliziotti. Il nostro più grande ministro non è stato superiore al cervello di Satriano, il capo della polizia napoletana ai tempi del Borbone. C'era e c'è forse in tutti i ministri italiani un po' dell'aguzzino di professione.

Lo stesso re Vittorio Emanuele II comunicava le «mene rivoluzionarie» a Napoleone III. Mentana è a mia disposizione. È tra quei due regnanti e tra i loro ministri che è stato preparato il massacro garibaldino a Monterotondo, sui monti Parioli, come è da quel carteggio che esce che Vittorio Emanuele II e i suoi governanti non volevano Roma. «Il mio governo ed io, scriveva il re savoino all'imperatore del Due Dicembre, per mantenere fede al trattato di settembre, l'abbiamo combattuta (la rivoluzione) con tutte le forze nostre al di qua dei confini di quel territorio. Ora che, d'accordo anche colle popolazioni, minaccia la sicurezza della Santa Sede, io non posso far nulla per impedirla, non potendo passare il confine. Se vostra maestà crede dover inviare truppe a Civitavecchia o a Roma, io dovrei simultaneamente oltrepassare il confine, e si metterebbe ben tosto termine a cotesto stato anormale di cose. Farei nel medesimo tempo un proclama, nel quale dichiarerei di non avere alcuna idea ostile contro l'esercito francese. V. M., nell'alta sua saggezza, troverà poi il modo di accomodare le cose in guisa che gli interessi delle due nazioni siano messi in salvo».

Fu il re che ha impedito al Rattazzi che voleva riabilitarsi di Aspromonte di mandare le truppe italiane nel territorio papalino. La mentalità della destra era la mentalità regia. Nessuno ha voluto. È nel palazzo dei 500 che lo stesso Rattazzi lo ha proclamato.

— Io sì, o signori, avrei ragione di dire a voi che ci avversate in questa politica, a voi che ne seguite un'altra, io sì, avrei ragione di dirvi che se fosse stato dato alla nostra amministrazione di liberamente compiere ciò che ci eravamo prefisso, a questa ora la questione romana avrebbe fatto un passo grandissimo, l'intervento francese si sarebbe evitato, ed a quest'ora i romani avrebbero già deliberato di voler far parte del regno d'Italia.

No, no: i regi non volevano Roma. Basterebbe il proclama di Menabrea, mentre i romani imploravano, per carità, una schioppettata garibaldina o regia. Basterebbe il fatto ch'egli ha sguinzagliato caterve di poliziotti con l'ordine di agguantare tutti i fanatici del «Roma o morte». Ma anche più tardi, non manca il documento. Ministri e conservatori del salone dei 500, fino agli ultimi momenti, fino a quando la catastrofe napoleonica non era un fatto compiuto, hanno rifiutato, non hanno voluto ascoltare, hanno negato ogni diritto italiano al territorio, hanno molestato, arrestato, fatto di tutto per far crepare anche l'idea della conquista di Roma. La sola paura era che i garibaldini riuscissero a fare un'altra donazione alla monarchia, perduta nelle gonne della Rosina. Infranto l'impero, ecco che tutti diventano eroi; ecco che tutti vogliono Roma, ecco che allora si riode il grido di dolore ed ecco perfino Vittorio Emanuele coraggioso che aggiunge che «l'abbiamo scappata bellaesclamazione che se traduceva la gioia di non avere più ostacoli per Roma, riassumeva l'ingratitudine reale per il massimo alleato della indipendenza italiana che aveva sacrificato i suoi zuavi a Magenta e a Solferino.

Voi Cairoli, voi tutti eroi che non avete aspettato che Roma immortale vi aprisse le porte, siete caduti nel vostro sangue. Io vi ricordo e piango. Passate voi buzzurri, voi affaristi, voi speculatori, voi tutti eroi della sesta giornata. Roma è vostra.

Nell'atto finale diventa simpatico perfino Pio IX, il carnefice esecrato di Monti e Tognetti. Egli, leggendo la lettera di Vittorio Emanuele che gli ha portato l'incaricato del messaggio reale, non ha potuto trattenersi la verità in bocca: — Che ipocrisia!

Dopo una pausa di trepidazione si è rivolto all'inviato con la faccia tutta ammantata di disprezzo: — Dite a Sua Maestà che io non conosco per nient'affatto legittima l'azione dell'Italia su Roma e che protesto in faccia al mondo contro una così empia aggressione!

Dopo un'altra pausa ha soggiunto:

— I reggitori d'Italia son sepolcri imbiancati.

I famosi cannoni vomitavano sulle mura di Roma i loro furori inutili, perchè nessuno combatteva, e il pontefice passeggiava con le braccia incrociate e ripeteva come a stesso tutta la storia d'Italia:

— Che ipocrisia!

Aveva ragione. I regi sono riusciti in Roma a furia di ipocrisia. Hanno riempite le prigioni italiane della gente che voleva o Roma o morte fino alla caduta di Napoleone e poi hanno fatta la breccia di Porta Pia!

Che ipocriti i brecciaiuoli!

Leggiamo l'ipocrisia epistolare

 

«Beatissimo Padre!

 

«Con affetto di figlio, con fede di cattolico, con animo d'Italiano, m'indirizzo ancora, come ebbi a fare altre volte, al cuore di Vostra Santità.

«Un turbine di pericoli minaccia l'Europa; giovandosi della guerra che desola il centro del continente, il partito della rivoluzione cosmopolita cresce di baldanza e di audacia, e prepara, specialmente in Italia e nelle provincie governate da Vostra Santità, le ultime offese alla monarchia ed al papato. So che la grandezza dell'animo vostro non sarebbe mai minore della grandezza degli avvenimenti; ma essendo io re cattolico e re italiano, e come tale custode garante per disposizione della Provvidenza e per volontà nazionale dei destini di tutti gli italiani, sento il dovere di prendere in faccia all'Europa ed alla cattolicità la responsabilità di mantenere l'ordine nella penisola e la sicurezza della Santa Sede.

«Ora, Beatissimo Padre, le condizioni d'animo delle popolazioni romane, e la presenza fra loro di truppe straniere venute con diversi intendimenti da luoghi diversi, sono fornite di agitazioni e di pericoli evidenti. In caso di effervescenza, le passioni possono condurre alle violenze ed alla effusione di un sangue che è mio. Il vostro dovere è di evitare ciò, di impedirlo.

«Veggo l'indeclinabile necessità per la sicurezza dell'Italia e della Santa Sede, che le mie truppe, già poste a guardia del confine, inoltrinsi per occupare le posizioni indispensabili, per la sicurezza di Vostra Santità e pel mantenimento dell'ordine.

«La Santità Vostra non vorrà vedere in questo provvedimento un atto ostile. Il mio governo e le mie forze si restringeranno ad un'azione conservatrice e a tutelare i diritti, facilmente conciliabili, delle popolazioni romane colla inviolabilità del Sommo Pontefice, e la sua spirituale autorità coll'indipendenza della Santa Sede.

«Se Vostra Santità, come non ne dubito, come il sacro carattere e la benignità dell'animo mi danno il diritto a sperare, ispirasi a un desiderio eguale al mio di evitare un conflitto, e sfuggire al pericolo della violenza, potrà prendere col conte di San Martino, latore di questo monito, gli opportuni concerti col mio governo, concernenti l'intento desiderato. Mi permetta la Santità Vostra di sperare ancora che il momento attuale sia solenne per l'Italia e per la Chiesa.

«Il papato aggiunga l'efficacia allo spirito di benevolenza inestinguibile dell'animo vostro, verso questa terra che è pure vostra patria; e ai sentimenti di conciliazione che mi studiai sempre con incrollabile perseveranza di tradurre in atto, perchè soddisfacendo alle aspirazioni nazionali, il Capo della cattolicità, circondato dalla devozione delle popolazioni italiane, conservasse, sulle sponde del Tevere, una sede gloriosa ed indipendente da ogni umana sovranità.

«La Santità Vostra, liberando Roma dalle truppe straniere, togliendola al pericolo continuo di essere il campo di battaglia dei partiti sovversivi, avrà dato compimento ad un'opera meravigliosa, restituita la pace alla Chiesa, mostrato all'Europa, spaventata dagli orrori della guerra, come si possono vincere grandi battaglie ed ottenere vittorie immortali con un atto di giustizia, con una sola parola di affetto.

«Prego Vostra Beatitudine di volermi impartire la Sua Apostolica Benedizione, e riprotesto alla Santità Vostra, i sentimenti del mio profondo rispetto.

«Di Vostra Santità.

«Umiliss. obbedientiss. e devotiss.

«VITTORIO EMANUELE».

Firenze, 8 settembre 1870.

 

Ed ecco la risposta:

 

Maestà,

«Il conte Ponza di San Martino mi ha consegnato una lettera, che a V. M. piacque dirigermi; ma essa non è degna di un figlio affettuoso, che si vanta di professare la fede cattolica, e si gloria di regia lealtà. Io non entrerò nei particolari della lettera, per non rinnovellare il dolore che una prima scorsa mi ha cagionato. Io benedico Iddio, il quale ha sofferto che V. M. empia di amarezza l'ultimo periodo della mia vita. Quanto al resto, io non posso ammettere le domande espresse nella sua lettera, aderire ai principii che essa contiene. Faccio di nuovo ricorso a Dio, e pongo nelle mani di Lui la mia causa, che è interamente Sua. Lo prego a concedere abbondanti grazie a V. M. per liberarla da ogni pericolo e renderla partecipe delle misericordie ond'ella ha bisogno.

«Pius PP. IX.»

Dal Vaticano, 11 settembre 1870.




Precedente - Successivo

Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (V89) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2007. Content in this page is licensed under a Creative Commons License