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Paolo Valera
Il cinquantenario

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La fucilazione di Pietro Barsanti.

 

Abbiate pazienza. Io ho bisogno di un medico che mi prema o mi leghi o mi sottometta i nervi. Sono troppo agitato. Non vedo bene. Mi si alterano i colori come se fossi affetto da daltonismo. Ci sono momenti in cui mi pare di essere il personaggio shakespeariano. Più mi lavo e più le mie mani sono chiazzate di sangue. Scrivendo le note del tragico avvenimento ne sono come rimaste intrise.

Vivo nel sogno. Leggendo ho gettato dei gridi. Mi sono trovato nelle condizioni di Anna Pallavicini. Mi sono nutrito di speranza. Credevo nella clemenza degli uomini. Mi pareva che i vecchi fossero più umani dei giovani. Ho sbagliato. Sono i vecchi ministri di casa Savoia che mi hanno agguantato e curvato sulla testa sfracellata di Pietro Barsanti, tenendomivi sopra, facendomi soffrire come non ho mai sofferto in vita mia.

Perchè voi soffriate come me io vi devo trascinare fino in fondo, nelle pozze di sangue, dove è il cadavere del martire di una idea, fucilato quando centomila persone avevano la mano sul cuore in attesa della grazia.

Abbiate pazienza, Non ho preamboli. Vi metto immediatamente nei guazzi rossi del ventenne.

Io vado subito all'epilogo. Voi ne sapete la data. Nel '70 non c'erano rivoluzionari di carta pesta. Si faceva sul serio. La gioventù repubblicana si votava alla morte.

In quel periodo in cui si chiamava il questore Menelao, il questurino mardocheo, il «Corriere di Milano» Trotta piano, e la «Perseveranza» madama Travasa, ci sono stati dei tentativi quasi simultanei per rovesciare la monarchia che non sapeva che tosare i contribuenti e far tacere i riottosi della fame a colpi di fucile.

A Pavia, a Piacenza, a Brisighella (Faenza), a Bologna, altrove si è tentata l'insurrezione a mano armata.

La mente direttiva doveva essere una sola perchè si è trovato dovunque la stessa movimentazione.

Gli insorti, con la connivenza dei congiurati militari, si sono impadroniti dei fucili e dei revolvers. Nella stessa notte, quasi alla stessa ora, con le stesse grida hanno dato l'assalto alle caserme. Si sperava in un affratellamento. Viva l'esercito! gridavano. Viva la repubblica! Abbasso la monarchia! Viva lo Statuto! Viva il 42° fanteria! Fuori! fuori!...

La risposta è stata identica in tutti i luoghi. In certi siti la sentinella non ha esitato a far fuoco, in certi altri si è ritirata nei casotti chiamando alle armi! e in alcuni ha strèpitato fino a quando sono usciti i soldati con l'ufficiale a scaricare le armi.

Pochi morti e pochi feriti da una parte e dall'altra. Non c'era astio, non c'era odio, non c'era esasperazione fra di loro. Senza la disciplina gli uni si sarebbero gettati nelle braccia degli altri.

A Pavia il moto insurrezionale è incominciato alle 4 e mezzo del mattino del 24 marzo 1870.

I rivoltosi non erano che 40 o 50. Si sono avviati alla caserma di S. Francesco. C'è stato uno scambio di fuoco. L'ufficiale che comandava la compagnia cadde gravemente ferito, come caddero feriti tre o quattro soldati. Un sergente venne trovato più tardi cadavere.

Gli insorti vi hanno lasciato uno dei loro cadavere. Aveva in tasca due revolvers. Più tardi si è ritrovato un altro borghese morto.

Altrove la scena si era ripetuta. Il quarantaduesimo di fanteria era un po' a Pavia, un po' a Piacenza e un po' a Brisighella. Si è supposto che fra i soldati dello stesso reggimento ci fosse un'intesa.

Il sindaco di Pavia era il Vigoni del nostro tempo. Ha ingrossato l'avvenimento, ha veduto cataste di cadaveri in ogni angolo. Si sono fatti molti arresti a casaccio. Si sono trovati dei fucili.

Il Mosti, il quale non doveva avere grande importanza, perchè non l'ho mai trovato in nessun libro o giornale con cenni maggiori di quelli della sentenza, era riuscito a mettersi in salvo e Pietro Barsanti è stato preso per il colletto, arrestato e trovato con due dei revolvers rubati al deposito in saccoccia.

Aveva ventun'anni, era volontario ed in caserma aveva imparato a disprezzare la monarchia.

Lo si è processato. È stato difeso da tre personaggi della Camera a Firenze: da Mancini, da Pier Ambrogio Curti e da Pierantoni, morto ieri.

L'eloquenza non è valsa nulla. Un tribunale militare non ha cuore che per il codice militare. È stato condannato alla fucilazione nella schiena.

La condanna era stata pronunciata 2 mesi dopo l'arresto, e la sentenza venne eseguita tre mesi dopo, alla presenza di tutte le rappresentanze di tutte le armi dell'esercito.

La fucilazione è stata approvata dal Corriere di Milano con un articolo del Dina, dal Pungolo, con un articolo di Carlo Levi, dall'Italia Militare, dalla Perseveranza, dal Rinnovamento, ecc.

Durante i tre mesi di agonia c'è stato un lavoro febbrile in tutti i centri d'Italia. Alla testa delle signore, nobili e plebee, era Anna Pallavicini.

La petizione della moglie del martire dello Spielberg era firmata da 40 mila donne. Quella degli uomini contava più di 100 mila firme.

I giornali dello sbruffo — come si chiamavano allora — continuavano la propaganda dell'assassinio. Esigevano la vendetta.

La Perseveranza, diretta dal Bonghi, era la più implacabile. Per lei non c'era che la cura del piombo. Invece i giornali, come la Riforma del Crispi, la Gazzetta di Milano e il Secolo di Milano, tacevano.

Si era loro fatto credere che il chiasso intorno al condannato avrebbe voluto dire il prorompimento dei fucili.

Hanno taciuto. La stessa Pallavicini li aveva supplicati. La povera donna non si era dato un minuto di tregua. Ha bussato all'uscio del re. Non l'ha ricevuta. Suo marito aveva il cordone dell'Annunziata. La moglie era dunque cugina di S. M. Avrebbe potuto andare da lui, senza essere annunciata.

Non ha voluto essere violenta. Ha scritto al De Sonnas, il grande cacciatore, implorando una udienza reale. Nessuna risposta. Ha riscritto. Silenzio come prima. Disperata è andata da Mancini. Lui e lei si sono presentati al Lanza il 27 agosto 1870, alle 2 pom. Il Lanza era conosciuto per i suoi assassini compiuti in Genova, assediata dal militarismo regio.

— Ella viene — rispose il presidente dei ministri, assumendo la maschera dell'uomo che aveva una notizia incresciosa da comunicare — ella viene per un pietoso ufficio: ho il dovere di darle un triste annunzio. È inutile. È tardi. Fino da ieri l'altro era già stato irrevocabilmente deciso il destino del Barsanti. Dopo tre discussioni nel consiglio dei ministri, si approvava la condanna. Tacendone e mostrandomi disposto a riceverla, ho creduto usare ad entrambi un atto di deferenza.

«Infatti, chiude la lettera della stessa Pallavicini alle donne d'Italia, nell'ora stessa in cui noi eravamo nel gabinetto del Lanza, l'infelice giovanetto era fucilato nel Castello di Milano e moriva col coraggio di un eroe.

«Gettai un acuto grido: un tremito convulsivo si impadronì della mia persona; per poco non caddi tramortita! Il mio compagno, infiammato da nobile indignazione, proruppe in parole severe e tristamente profetiche, che il Lanza non si dimenticherà giammai.

«E ci affrettammo ad uscire, inorriditi di un atto di fredda ed insensata crudeltà, aggravata prima dalla ripulsa e poi dalla apparente ingiuria verso chi a nome vostro (delle donne), interponevasi per impedirlo.

«Che il sangue di quella vittima ventenne non ricada su coloro che, a dispetto del popolo italiano, vollero assumere la responsabilità di spargerlo. Voi, o madri e figlie italiane e quanti avete sensi di sincero amore del paese, augurate all'Italia giorni migliori.

ANNA PALLAVICINI TRIVULZIO».

 

La notizia ha costernato tutti. La raccolta di tante firme era stata considerata un plebiscito nazionale, La grazia era in tutte le teste. La notizia del misfatto ministeriale non la si è saputa che a sera tardi.

I particolari hanno centuplicata la collera cittadina. Pietro Barsanti era morto da eroe. Avvertito mezz'ora prima, non ha detto una parola. Il picchetto comandato da un ufficiale è andato a prenderlo alle due meno cinque e lo si è condotto davanti alla Torretta. Non ha voluto aiuto. Si è tolto il cappotto da e si è bendato gli occhi con le sue mani.

Fuoco!

È caduto con otto palle nel cranio, coi capelli, la fronte e la faccia innaffiata di sangue. Con un procuratore in Milano come il Robecchi che massacrava i giornali a sequestri e che faceva fare gli arresti preventivi dei gerenti e dei direttori, i quotidiani non hanno mandato in pubblico la fucilazione che in una prosa ammansata. Ma non si sono salvati. Robecchi li ha acciuffati come se fossero stati pieni di urli sediziosi.

Non è stata rispettata che la «Perseveranza», perchè essa aveva incitato all'assassinio ministeriale e perché aveva soffocata la notizia fra le altre notizie di cronaca senza neppure l'onore di un «grassetto» o di un «negretto».

Il 20 marzo 1871 si doveva inaugurare in Milano la statua a Beccaria. Il ministro era l'oratore ufficiale, vale a dire che doveva congratularsi con il Paese, che aveva abolito la pena di morte.

Felice Cavallotti, direttore del Lombardo, gli aveva preparato una smentita, pubblicando sul suo giornale il fac-simile della medaglia d'oro che alcuni cittadini avevano fatto coniare a imperitura memoria della efferrata barbarie del governo italiano, composto del Lanza, di Cesare Correnti, di Emilio Visconti Venosta e di Giuseppe Gadda. Ai morti fango sulla loro tomba. Ai vivi palta in faccia.

Essi sono stati i più grandi vigliacchi di quei giorni.

Il Lanza, un asino che scriveva Italia col g, fucilatore di popoli, cacone in battaglia; il Venosta ex mazziniano, ex cospiratore, ex fuggiasco di Varese, reazionario, capace di tutte le cattive azioni; il Correnti falso democratico, venduto alla greppia, custode delle decorazioni monarchiche, cortigiano di tutti i sopraggiunti re.

La loro mentalità era identica a quella del Borsani, l'avvocato generale militare che li aveva consigliati a resistere alla volontà del paese e a finirla coi moti, fracassando la testa di un giovanetto.

Felice Cavallotti per il delitto del fac-simile è stato agguantato in galleria e messo sotto chiave.

Apologisti dell'Italia una, raccogliete anche questa pagina per il vostro cinquantenario.

Io me ne servo per inquadrarlo nei colori del tempo.

Il fac-simile della medaglia commemorativa della barbara esecuzione era questo:

 

PIETRO BARSANTI.

 


NELLA PATRIA DI BECCARIA

MINISTRI I MILANESI

CORRENTI VISCONTI VENOSTA

GADDA

REIETTE LE ISTANZE DI 4000 CITTADINI FU GIUSTIZIATO

IL 27 AGOSTO 1870

A PIETRO BARSANTI

MARTIRE DELLA FEDE

REPUBBLICANA

MILANO 19 MARZO

1871

 

 


 

Eccomi alla fine. La tragedia è compiuta, Pietro Barsanti è stato sepolto nel cimitero del Gentilino, fuori di porta Vittoria, col cippo numero 19.

Devo però ricordare Enrico Bignami, direttore della Plebe. I socialisti stati alla direzione del partito non si sono mai ricordati che di se stessi. Le masse socialiste si sono lasciate rimorchiare come gregge, ma se c'è uomo che abbia meritato un posto eminente nella vita pubblica sarebbe proprio lui. Egli ha pagine splendide. I suoi compagni non lo conoscono. Egli è stato pedinato, arrestato, processato, imprigionato. I suoi giornali hanno subìto tanti sequestri come noi non abbiamo idea. Nell'affare Barsanti egli è stato il primo ad agitarsi, a protestare, a ingiuriare, a domandare l'obolo cittadino per farlo cooperare alla protesta. È lui che ha fatto costruire un ricordo marmoreo al povero Barsanti nel cimitero di Lodi, dove il Bignami aveva la sua officina cerebrale. Il padre di Barsanti gliene ha dato il permesso.

 

«Pregiatissimo Signore.

«Sono grato della colletta fatta dal giornale la Plebe di Lodi, ed acconsento che con la somma raccolta sia dedicato un sasso sepolcrale alla memoria del mio diletto figlio, in codesto cimitero.

VINCENZO BARSANTI».

 

Fra i dieci accusati del moto di Pavia otto erano latitanti. Il più alto di grado era il furiere Carusi, il quale si era impadronito anche, dei fondi della compagnia per il complotto. Il sergente Luigi Cecchini, un ex studente d'anni 27, ha scaricato un colpo di revolver sul tenente Vegezzi, che comandava il picchetto. Lo ha ferito al collo. Il Barsanti e il Carnevali si sono presentati nella stessa mattina dell'avvenimento alla caserma di San Francesco davanti al quartiere del Lino, per incitare i soldati a defezionare e a lasciarsi comandare dal sergente Giuseppe Carnevali, d'anni 30. Di più il Barsanti aveva chiuso in una camerata o in una stanza i due sergenti del quartiere, per impedire loro di mettersi alla testa dei loro plotoni. Col Cecchini sono fuggiti il sergente Parro, d'anni 24, il caporale Mosti, d'anni 20 e il soldato Migliarino, d'anni 23. Per il reato d'insurrezione contro lo Stato vennero condannati il sergente Nicola Pernice, di 34 anni, stato agguantato dai suoi compagni, malgrado non si fosse trovato neanche presente al tafferuglio, a 20 anni di reclusione militare e tutti gli altri assenti, cioè Cecchini, Porro, Mosti, Migliarino, Carusi, Garbarino, Savio, sergente anche lui, e Giuseppe Carnevali alla pena di morte, come il Barsanti.

I sergenti della brigata Modena, imputati di complotto repubblicano e processati a Piacenza, dodici vennero assolti e mandati ai corpi franchi malgrado l'assoluzione, due al bagno penale e uno nella tomba.

In tutti i luoghi, dove si sono svolti i processi, come a Milano, soldati e ufficiali chiamati a deporre, sono stati infami delatori. Hanno denunciato i loro compagni senza pietà.




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