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Paolo Valera
Il cinquantenario

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Signori! la prima legislatura del Parlamento

volge al suo fine. Centosessanta cadaveri.

 

È inutile. Io ho sempre i piedi nei guazzi del sangue umano. E non posso piangere. Non ne ho il tempo. La pietà mi lascerebbe per la strada. Animo, coraggio. Io devo incoraggiare me stesso.

Avanti, avanti! Io sono alle porte delle giornate di settembre. Sono agli sgoccioli della prima ed ultima legislatura che si è svolta nell'aula del Palazzo Carignano.

Voi sapete come l'unità della patria sia stata compiuta. È una unità tutta fatta di vigliaccherie. Senza Garibaldi nell'epopea noi dovremmo domandare alle potenze estere il permesso di cambiarci il nome come i figli del boia lo domandano sovente per diventare rispettabili.

Ascoltatemi senza fremere. Cito un uomo infame, cito Pio IX.

Fra i papi del «risorgimento» egli occupa il posto più fangoso. Prima di commettere i suoi delitti pubblici, si prostrava davanti alla Croce per delle ore e si alzava più feroce di Haynau.

Tigre come lui, si abbandonava ai furori ecclesiastici: uccideva. La sua religione era la spada.

Egli ha commesso tutte le mascalzonate: si è fatto proteggere dagli stranieri. I mazziniani e i garibaldini hanno dovuto uscire dalla città eterna con le mani tinte di sangue francese, per andare a bagnarle nel sangue croato.

Egli è stato una figura così abbominata che non lo si è potuto portare alla sepoltura che tre anni dopo. E tre anni dopo la collera romana è stata tale che centomila persone si sono radunate a mezzanotte intorno alla sua bara col proposito determinato di rovesciarlo nel Tevere. Alla chiavica! urlava Nicotera, alla chiavica!

Nel 1864, nei momenti della Convenzione di settembre, il suo nome circolava per le regioni della penisola, accompagnato dai rancori italiani. Lo si vituperava, lo si insudiciava, lo si esecrava. Nelle mani del popolo non ne sarebbe rimasto un capello. La gente voleva andare a Roma, voleva detronizzarlo, mandarlo in esilio o buttarlo in una cloaca massima.

C'era Napoleone III. L'Italia è sempre stata in ginocchio davanti all'imperatore uscito dal colpo di Stato. Non si muoveva senza i suoi consigli. Il nostro ambasciatore era l'amante di sua moglie. L'Italia era sua. L’aveva fatta lui. Vittorio Emanuele era il suo servitore. I monarchici aspettino a trepidare. Documenterò cose peggiori.

L'Italia era del sire francese. Gli italiani non avevano mai vinto. Neanche nel '59. I francesi hanno vinto. I miei documenti sono gli ossari dei luoghi di battaglie per l'indipendenza.

Bonaparte, il piccolo, ha voluto avere un acconto per i suoi sacrifici imperiali: Nizza e Savoia. Alla cessione Vittorio Emanuele si è curvato con un sorriso, meravigliato della modestia imperiale. I suoi ministri ne redassero la cessione con la fraseologia del laccheismo italiano.

La nazione voleva Roma. «O Roma o morte». Napoleone diceva di no. Roma sarà del sommo pontefice. E per quindici anni il potere temporale è rimasto sotto la sua protezione.

Nel '61 l'imperatore non ha cambiato. È diventato più papista di prima. La diplomazia era a sua disposizione. Era lui stesso. Ha trovato un cambiamento di dicitura, ma ha lasciato Roma al papa. Jamais! La convenzione napoleonica era un rifiuto senza remissione. Non voleva che Roma divenisse capitale italiana. Si dichiarava pronto a ritirare le sue truppe due anni dopo la data della Convenzione per dar tempo al papa di prepararsi un esercito di cattolici e magari stranieri, di almeno diecimila uomini, ed esigeva con l'articolo primo che l'Italia si impegnasse e non attaccasse lasciasse attaccare il territorio del santo padre.

Si capisce. Era la rinuncia al regno unito. Era l'impotenza italiana e il trionfo papale. La Convenzione era stata redatta e firmata da Napoleone III e da Vittorio Emanuele II.

Il Parlamento si è trovato nella sorpresa. Il contratto era conchiuso. Avrebbe potuto e dovuto rifiutare il proprio assenso. Ma la vigliaccheria della maggioranza parlamentare d'allora, è nota. Non viveva che per i ministri. Lasciava fare. Si lasciava rimorchiare. Bastava parlare della patria per essere imbavagliata. Ha aiutato il ministero a saltare la discussione per salvarlo dalla tempesta che si sarebbe scatenata nel Paese.

Nel re era l'autocratismo. Violava lo Statuto come violava il talamo. Egli è stato così figlio di suo padre che ha osato ordinare a tutto il gabinetto di un governo costituzionale di dare le dimissioni. Cosa inaudita. Cosa da rivoluzione. Il gabinetto era quello di Marco Minghetti.

La nazione proletaria, che conservava anche in quei tempi il buon senso, non appena ha avuto sentore della Convenzione che escludeva Roma per sempre dal regno d'Italia, è scoppiata.

Il participio è di Petruccelli Della Gattina. Alla Camera nacquero scene indiavolate. Hanno parlato Nicotera, Crispi, Buoncompagni, Ricciardi, Bottero, Massari, Sella e tanti altri.

Il più violento è stato Crispi. Egli si è servito dell'invettiva di Massimo d'Azeglio.

— Voi siete i figli della paura. Con la traslazione del Parlamento a Firenze, voi rinunciatediceva — a Roma, capitale d'Italia.

Giuseppe Ferrari, federalista, era contento di Firenze per non vedere due Corti, l'una accanto all'altra allo stesso sportello del tesoro a riscuotere la lista civile.

Petruccelli Della Gattina, coi suoi paradossi, non vedeva nel papa che il rappresentante di una aristocrazia di sagrestia.

Altri aggiungeva che bisognava avere pazienza. Roma poteva capitare agli italiani per un cataclisma indipendente dalla loro ferma volontà. Crispi disse una seconda volta, che approvando il reclutamento di un esercito di mercenari, si accettava l'intervento mascherato. «Il papa che non abbiamo riconosciuto e che non ci riconosce, entrerebbe col nostro consenso nel concerto politico europeo». La Convenzione era la decadenza del bel Paese nei secoli avvenire.

Nicotera si era limitato a poche parole: «Se domani, diceva, noi tentassimo di andare a Roma, una volta usciti i Francesi, ci si respingerebbe a fucilate. Conosco troppo bene la lealtà del Generale La Marmora, per non sapere che interrogato su questa questione risponderebbe: sì». (Il presidente del consiglio faceva cenni affermativi).

Il popolo che non è diplomatico parlamentare, ha fiutato subito la sciagura nazionale. Quello torinese che non voleva che Torino o Roma, o la culla della monarchia o la capitale storica, non ha esitato a decidere sul «patto internazionale». Era una canagliata solenne. Non poteva, non doveva avvenire. Crispi aveva fatto l'ultima concessione: «Io non ho altra bandiera da innalzare; la bandiera mia è quella che innalzai, sbarcando con Garibaldi a Marsala: Italia una con Vittorio Emanuele!».

Ma Firenze per Roma era anche per lui una canagliata.

Il popolo si è rovesciato in piazza. La città era in subbuglio. La dimostrazione è incominciata dinanzi la tipografia della Gazzetta di Torino, giornale ministeriale e difensore svergognato della Convenzione di settembre. Esso era stato considerato un insultatore. Molte persone in piazza Castello, sotto le finestre del ministero dell'interno. La scena era incominciata alle sette e mezzo di sera. Si gridava: Abbasso il ministero, Roma o Torino. La dimostrazione è finita senza gravi incidenti. All'indomani, 21 settembre, in piazza San Carlo, dove erano la questura e gli uffici della Gazzetta di Torino, la folla era ansante. Rumoreggiava. Il questore di quei giorni era il tipo dei nostri questori. Decideva di «disperderla colla forza».

la parola all'inchiesta parlamentare. È prosa molle. Non c'è in essa lievito insurrezionale. Ascoltate. «Sortivano gli ispettori della questura nel punto in cui il questore, armeggiando con una semplice canna, teneva lontani i suoi assalitori. Le guardie a passi affrettati, traendo le armi nella corsa e nell'uscire dalla questura, si approssimavano agli assembrati e giunti vicini a coloro che tenevano le bandiere, uno degli ispettori comandava loro di toglierle e di arrestare coloro che le portavano. Senz'altro indugio (udite! udite!), senz'altra intimazione, le prime guardie si gettavano addosso con violenza alle persone indicate, e caricavano (come ai nostri tempi) con precipitazione l'intiero assembramento. Fu a quell'atto, secondo altri testimoni, che furono sguainate le daghe. È nata una lotta spaventosa.. Che lotta! una violenza sanguinosa. Il popolo aggredito non ha tirato che qualche miserabile sassata. La pietra ha aumentato l'ira dei questurini in accanimento. I fuggiaschi furono inseguiti e percossi a colpi di daga, e perseguitati fin oltre la via S. Teresa e nella Galleria Natta. Nel cieco impeto furono aggrediti, percossi, insultati curiosi e passeggeri, uomini e donne. Nessuno fu risparmiato. Gli episodi crudeli sono infiniti. Non ho spazio per loro. Nella sola galleria si fecero tra i superstiti del massacro ventinove arresti. La repressione fu violenta. Coloro che si distinsero sono stati gli allievi carabinieri. Sono stati loro che hanno fatto una scarica, micidiale sull'attonita popolazione. La folla (udite! udite!) dapprima sostava sorpresa, supponeva che si tirassero colpi a polvere per spaventare i più insolenti: ma il fischiare delle palle la avvertiva ben presto del funesto inganno. Allora fuggiva precipitosa ed atterrita, e la piazza sgombrata in pochi istanti, presentava un lugubre panorama: cinquantasette cittadini erano prostrati al suolo cadaveri o giacenti nel sangue».

Tacete, non ho finito. Il trasporto della capitale a Firenze con la rinuncia a Roma costa dell'altro sangue. C'è un'altra giornata vittoriosa per i giovani carabinieri e lugubre per il popolo.

«Più gravi sciagure nella giornata del 22. Piazza S. Carlo era gremita di truppe schierate in battaglioni sotto i portici, a riposo, dinanzi ai fasci dei fucili. Dirimpetto alla questura le guardie ed allievi carabinieri; in mezzo alla piazza, popolo schiamazzante. Un ispettore di pubblica sicurezza, scortato da un battaglione del 17°, dopo avere perlustrato Doragrossa e S. Teresa ed essere stato apostrofato con male parole rientrava in questura. In questura si temeva che per i fatti avvenuti il giorno prima, succedesse una invasione popolare. Il questore deliberò senz'altro di sciogliere l'assembramento, dando all'ispettore Chiari l'ordine di uscire e di fare le legali intimazioni. Al tempo stesso si rivolgeva all'ufficiale dei carabinieri perchè uscisse col suo drappello a dar man forte alle intimazioni di disperdersi. L'irritazione contro i carabinieri non poteva essere più alta. Ma il questore ha ingiunto: Eseguite i miei ordini e non pensate ad altro. Non c'è stato tempo per i tre squilli. I carabinieri erano furibondi. Essi sfilarono alla sinistra dell'ispettore Chiari, scendendo fin sulla strada. Allora, dice l'inchiesta, un solo squillo composto di tre soli brevi note, precedeva la prima intimazione dell'ispettore. Stava per darsi un secondo squillo ed il Chiari stava per intimare per la seconda volta lo sgombero, quando, fra il gettare delle pietre e l'aumentarsi delle grida provocate dall'improvviso presentarsi dei carabinieri sulla porta della questura, s'udirono alcuni colpi di arma da fuoco. L'ispettore riparava sollecito nell'andito stesso, e i carabinieri si avanzavano oltrepassando e rompendo la fila dei soldati di linea che erano schierati davanti. In pari tempo nuovi colpi d'arma da fuoco partivano dalla linea dei carabinieri, i quali sventuratamente colpivano gli uomini del battaglione che stava in mezzo alla piazza. Nacque allora una terribile confusione: i fuochi s'incrociarono da ogni parte e quando gli ufficiali, col massimo sangue freddo e colla massima premura avevano ottenuto di far cessare le scariche, numerose vittime di una fatale precipitazione coprivano il suolo e nuotavano nel sangue». — Gli scrittori sono dei parlamentari. Si capisce la loro prudenza. Volevano essere buoni con tutti. Ma l'epitaffio della seconda giornata era troppo eloquente perchè il popolo scappando verso le proprie case, non gridasse: Assassini! assassini!

In terra erano rimasti centoventisette morti, tredici dei quali militari. Cose orribili. Ecco il tributo dei cadaveri votati al trasporto della capitale.

Non m'occupo dei feriti. Ce n'erano delle infermerie. Non parlo degli arrestati. Non c'era più spazio per loro nelle prigioni. Si è dovuto mandarli altrove.

Questa, o compagni, è la pagina della Convenzione del 15 Settembre. Cadaveri, cadaveri, cadaveri. L'Italia unita è tutta inzuppata del loro sangue.

Il finale parlamentare è stato questo:

Signori deputati, tacete, taciamo, dissero i Lamarmora del Ministero, chiudendo la Legislatura piemontese. Mandiamo l'inchiesta agli archivi e andiamo tutti a Firenze. È carità di patria tacere sui disastri umani: quello che è stato è stato.

Viva il re! Viva l'Italia!




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