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Paolo Valera
Il cinquantenario

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La riabilitazione dei briganti.

 

L'idea della patria indipendente, è concezione di intellettuali. Sono loro che l'hanno seminata, coltivata, diffusa, propagandata, fatta penetrare nei cervelli con la scuola, con i libri, con i giornali, con la leva militare, con la tribuna parlamentare. È per loro che è diventata una religione. Il solo dissenso in certi momenti equivale al parricidio.

I senza patria sono di creazione moderna. Nei tempi andati non c'era probabilmente che il cinico. Ma finita l'espulsione degli stranieri, la patria è afflitta dai pretendenti. Ce ne sono molti. Tutti si attribuiscono la priorità del brevetto. Dalla storia del risorgimento, ne sbuca uno tutti i giorni. Non c'è mese senza commemorazione di qualche facitore dell'Italia una. Quanti sono? È un elenco che non si chiude mai. Nel passivo del fallimento patriottico l'insinuazione dei crediti è sempre aperta.

C’è chi dice che l'idea prima è di Casa Savoia. I cortigiani hanno nicchiato Carlo Alberto nel tabernacolo del protomartire della liberazione. La storia è composta da molti cervelli. Così trovate la figura dell'ultimo re piemontese negli uni gialla di rimorsi e negli altri estenuata di sagrifici. A chi credere? A chi lo vuole nella espiazione o a chi lo vuole nel martirio? Per il clero l'ideatore della penisola indipendente è Pio IX. È la sua benedizione che ha incendiato i cervelli. È lui che ha tenuto la grande idea a battesimo in San Pietro e che l'ha fatta correre per lo Stivale come una sollevazione.

Roba da 48.

La monarchia è una continuazione. Dopo il padre il figlio. Il figlio è un altro pretendente. Gli storici regi l'hanno nicchiato al Pantheon al posto d'onore. È lui che l'ha fatta. Lo chiamano appunto il padre della patria. Gli storici antidinastici ci assicurano invece ch'egli è sempre stato un oppositore della decapitazione papale.

È andato a Roma, come è andato a Napoli. Spinto, trascinato, minacciato. A chi credere? A chi dobbiamo questa patria?

Tutti se la contendono. Ci sono i francesofili. C'è gente che l'attribuisce a Napoleone III. Dicono che senza di lui la patria sarebbe ancora un'utopia. Per i cavouriani è di Cavour. Non è che nella sua testa che era il sedimento dell'indipendenza nazionale. A chi credere? A nessuno. L'indipendenza non è mai stata una idea personale. Seminata è diventata collettiva. Era un grido solo: O Roma o morte. Si moriva con la canzone sulle labbra.

 

Le case d'Italia son fatte per noi.

Va fuori d'Italia, va fuori, stranier.

 

Ma a noi importa, proprio poco chi sia l'autore ufficiale della unificazione. Per noi non è che il popolo. È il popolo che ha tenuto vivo quello che veniva chiamato il fuoco sacro, è il popolo che ha odiato l'Austria e il Borbone, che ha subito la galera e il patibolo, che è passato attraverso i periodi degli eroismi fantastici, che ha combattuto e vinto.

Chi ha guadagnato? La Borghesia.

È lei che ha detto che fatta l'Italia bisognava fare gli italiani. E in nome di questo aforisma il popolo è diventato strame, concime, immondizia sociale. Lo ha straziato, diffamato, respinto, decimato. La sua gratitudine per la conquista patriottica, la troviamo nei garibaldini. Ha iniziato i suoi svaligiamenti disprezzandoli, disperdendoli, considerandoli pezzenti, vagabondi, inquilini del carcere. Li ha mandati tutti a casa con 72 lire e anche ora che siamo a Roma da 40 anni, non ha cessato di trattarli da mendicanti. Ha dato loro 50 lire. Vile somma che senza la miseria coercitiva, i superstiti, avrebbero dovuto sbattere sulla faccia del Parlamento che l'ha votata.

Ma ci occuperemo dopo di loro. Per ora contentiamoci di vedere come sono state trattate le folle del lavoro.

È subito veduto. Non ci sono che croci mortuarie. Ricevuto in dono il reame dai «filibustieri», la borghesia non ha avuto che un pensiero: sfollare, massacrare, uccidere. Le provincie meridionali sono state letteralmente sfollate. I terrazzani, e i cafoni che non avevano niente da mangiare e che vivevano negli squallori di una miseria negra, sono diventati tutti briganti. Eccovi l'epitaffio parlamentare: «Su 375 briganti che si trovavano il 15 aprile 1863 nelle carceri della provincia di Capitanata, 293 appartenevano al misero ceto dei così detti braccianti». Con una polizia omicidiaria e un esercito autorizzato a fucilare senza giudizio chi voleva, è facile capire che anche gli altri ottantadue non potevano essere che poveracci senza pane.

Il brigantaggio è nato per reazione. Per salvarsi dalle revolverate, dalle sciabolate, dalle fucilate, dalle baionettate. Il mio documento è la relazione Massari — un deputato devoto a Vittorio Emanuele II. Il padrone della terra d'allora se non era il barone, era il «signore feudale». Non s'arricchiva che lui. I sudori del contadino non producevano che fame. E allora? È il Massari che parla: «Il contadino condannato alla perpetua miseria, si fa brigante: richiede, vale a dire, alla forza quel benessere che la forza gli vieta di conseguire. Preferisce i disagi della vita del brigante. Il brigantaggio diventa, in tal guisa, la protesta selvaggia e brutale della miseria contro antiche secolari ingiustizie.

I veri briganti erano più umani dei conquistatori borghesi. Crocco e Caruso erano delle idee politiche. Vivevano per il Borbone. Sognavano di diventare generali e marchesi, come era avvenuto ai loro predecessori. Chiavone, per esempio, era un autogenerale. Pilone si faceva chiamare cavaliere. Crocco portava sul petto con orgoglio delle decorazioni con nastri gialli. Ninco Nanco, cioè Giuseppe Nicola Somma, si spacciava per colonnello. Per i braccianti erano i simboli della giustizia.

Diventavano a loro insaputa i loro protettori, i loro manutengoli.

Agli occhi delle plebi, piene di immaginazione e crucciate dalle privazioni, il brigante si trasformava in un vindice dei torti che subivano. Il brigante, dice il Massari, non è più l'assassino, il ladro, il saccheggiatore, ma l'uomo che con la sua forza sa rendere a ed agli altri la giustizia a cui le leggi non provvedono: il masnadiero diventa eroe. In questa metamorfosi raccoglie una intera storia di dolori non alleviati, di ingiustizie non riparate, ed un insegnamento morale che non può andare perduto. dove le leggi non sono fatte nell'interesse di tutti, e non sono imparzialmente eseguite per e contro tutti, l'infrazione alle leggi diventa consuetudine ed argomento non di disdoro, ma di vanità e di gloria. dove il manto della legge non si stende ugualmente su tutti, chi forza a lacerarlo, invece dell'infamia, consegue agli occhi delle moltitudinità, prestigio ed ammirazione.

Anche noi, nelle condizioni dei braccianti, dei cafoni e dei terrazzani, diventeremmo briganti. Si facevano arresti in massa. L'esercito «purgava» il Mezzogiorno.

La repressione nel napoletano compiuta dal generale Cialdini, fa rabbrividire anche oggi. «Per lievi indizi e talvolta senza forma di processo, gli uomini sospettati di brigantaggio venivano sorpresi e fucilati».

Il furore militare è nelle cifre approssimative dei massacri nella relazione del Massari. Udite. Le perdite patite dai «briganti» nel medesimo periodo di tempo sono le seguenti:

«Nei primi otto mesi del 1861, 365 fucilati, 1343 morti in conflitto, 1571 arrestati; nel '62, 594 fucilati, 950 morti in conflitto, 91 arrestati; Totale 1038 fucilati, 2413 morti in conflitto, vale a dire 3451 morti e 2768 arrestati. Lugubri cifre, conchiude il relatore, luttuoso documento della funesta eredità di delitti e barbarie, tramandato a noi da tanti secoli di corruttela e di schiavitù».

Il Massari ha indubbiamente capito che con i soldati di Cialdini e di Lamarmora non si poteva diventare che briganti. Non c'era altra via. Egli era un rappresentante della nazione, un uomo di Corte e un ammiratore dell'esercito. Ma non c'è bisogno di un grande discernimento per capire che le poche cifre che noi abbiamo citate, riassumono il sistema delle fucilazioni sommarie. Innocenti, poveri, diavoli, disoccupati, gente di capanne e di tuguri venivano ammucchiati e finiti a colpi di piombo e di maledizione. E gli arrestati? A quei tempi non bastavano le carceri. Si servivano delle vecchie caserme, dei conventi, di tutti i palazzi disabitati. Ecco una nota: «Ingente il numero dei giudicabili che aspettano nelle carceri una decisione sulla loro sorte».

Il deputato Avezzano quando si discuteva la legge degli assassini legali, cioè la legge Pica, i cui orrori basterebbero a far rinunciare all'onore di chiamarsi italiani, diceva, con voce commossa: «Io ricorro a voi, o signori, perchè ordiniate che questo sia l'ultimo giorno che vegga prolungarsi un errore tanto criminale e tanto disdicevole al nostro carattere. Nel mio lungo esilio mi è occorso di trovarmi in guerre civili. Ebbene dichiaro francamente che non sono mai stato, complice, testimonio di tali eccessi».

Il deputato Varese giudicò le repressioni sanguinose cieche e violentissime.

Stefano Castagnola che aveva fatto parte della commissione d'inchiesta, ha detto che per sopprimere il brigantaggio, bisognava migliorare la condizione sociale dei cittadini.

Luigi Miceli fece trasalire la Camera con gli eccidi «organati in Cosenza».

Signori, aggiungeva, non solamente ho la nota dei briganti (?) uccisi spietatamente senz'ombra di giudizio per colpe leggiere, ma ho nota delle case abbattute, delle case saccheggiate il giorno delle esecuzioni, i paesi e persino il nome dei muratori che distrussero quelle case. Sapete, signori, che cosa è seguito a tutto ciò? Quei briganti, le cui mogli e i cui figliuoli erano stati buttati sulla strada, evasero dalle prigioni e ora mettono a sangue e a fuoco la mia povera provincia.

Meglio coi briganti che coi tutori dell'ordine. Si stava meglio. Coloro che si rifugiavano nella «selva Grotte», dove era Caruso, trovavano del ben di Dio. Vivande, vini, provvigioni d'ogni sorta. Nel bosco di Lagopesole, ricovero di Ninco Nanco, c'era della biancheria pulita, nascosta nella cavità degli alberi. Vi si trovava del pane bianco e del pollame. Si capisce perchè i predicatori di chiesa parlando delle esecrate tragedie, chiamavano le vittime «i nostri fratelli briganti» e venivano raccomandati alle madonne. Si capisce perchè la Francia ha obbligato l'Italia a restituire i «briganti» ch'essa aveva fatti arrestare su un postale francese. Perchè per i generali, per gli ufficiali, per i soldati, per i delegati, per i commissarii, non c'erano nel reame che briganti. Riabilitiamo i briganti.

Riabilitiamoli. Noi abbiamo veduto il '98. Si sono ammazzate più di cento persone in Milano, se ne sono ferite più di mille, se ne sono imprigionate più di due mila, ne sono scappate più di tre o quattro mila. Per il nostro esercito erano tutti briganti. Solo, i briganti del '98 si chiamavano sovversivi.

I briganti erano dei proletarii. È nostro obbligo dire in faccia al mondo ch'essi erano vittime dei briganti di Vittorio Emanuele II.




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