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Paolo Valera
Il cinquantenario

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Mazzini in mezzo alle spie.

L'ultima vigliaccheria ministeriale.

 

Nunzio Nasi, il ladrone ministeriale della terza Italia, è stato atroce con la fama di Giuseppe Mazzini.

Non lo ha voluto alto sul piedestallo dell'eterno cospiratore. Da vero camorrista ha voluto sfigurarlo. Lo ha fatto discendere dal plinto argilloso dei facitori del Bel Paese. Lo ha vituperato con l'apoteosi ufficiale. Gli ha ministerializzato tutti gli scritti. È mercè sua che gli spettatori del cinquantenario vedranno l'apostolo vestito tutto di nero, l'instancabile odiatore di monarchi, il sovvertitore di tutti i troni, il ribelle europeo, l'uomo cercato da tutte le polizie, allineato fra i grandi cianciatori e ciurmadori dell'unificazione italiana, con il suo bravo cartellone sullo stomaco dei servigi resi per la costruzione di questa immensa baracca nazionale ammucchiata di sfasciumi umani. Io non sono mazziniano. Non occorre esserlo per mettersi tra lui e i suoi denigratori. Tutta la sua vita, tutto il suo lavoro di penna, tutte le sue idee sparse col ventilabro per il mondo sono una protesta, una sollevazione contro l'imbrattatura o la verniciatura monarchica.

C'è stato un momento in cui i suoi nemici lo dilaniavano e lo portavano in giro come una belva, nel covo repubblicano, come un'ambizione sfrenata, come un incendiario della tranquillità pubblica, come un ingegno macadamizzato, come un assoldatore di sicarii, un organizzatore di delitti, un lucifero di superbia, un vanitone che aveva proclamato l'esistenza di Dio, come Robespierre aveva proclamato l'Ente supremo.

Lo si denunciava come un vile che mandava gli altri al macello, lo si chiamava codardo, gesuita, guastatore di rivoluzioni, settario presuntuoso e fumante d'orgoglio.

Ma nessuno dei suoi turpi aggressori è stato più paltoniere di coloro che lo hanno adagiato nel letto costituzionale della monarchia sabauda. E che forse non è la stessa monarchia che lo ha condannato a morte, che lo ha circondato di spie, che non lo ha lasciato mai vivere nel suo paese, neppure nei giorni in cui era sofferente e ammalato? Io non scrivo la storia, la biografia del grande agitatore. Egli è una figura troppo complessa per riassumerla. Dai suoi inizii carbonareschi fino alla sua morte nel '72, egli è un personaggio in tutti i tempi tempestosi. Lo si vede in ogni pagina internazionale come un direttore dei movimenti insurrezionali. Egli è stato l'incubo dei governi del suo tempo come Napoleone I era stato delle nazioni del suo.

Non troppo alto, fronte vasta e sprovvista di capelli, faccia lunga, magra, pallida, naso grosso, labbra ammantate di una parvenza di sorriso, occhio vivido nell'occhiaia fonda; tutto un'assieme di faccia piena di bontà e d'ironia. Voce dolce, carezzevole che scendeva nell'anima di chi l'ascoltava. Piuttosto cupo e severo, negli abiti solenni, del nero eterno, aveva l'aria di un predicatore, di un uomo che viveva d'ideali. Sapeva molte lingue e le sapeva tutte bene. Nessun attore ha mai conosciuto l'arte di truccarsi come l'amico di Sarina Nathan.

Le polizie lo hanno cercato invano. Egli sapeva scomparire nella pelle di un altro completamente. Cambiava l'andatura, i modi, la voce, la faccia, i capelli, il passaporto. Egli passava fra i gendarmi e i carabinieri travestito col suo sigaro senza paura.

Ma l'autore della «Giovane Italia» non è mai riuscito a sottrarsi alle spie. Dove era Mazzini erano delatori, alti e bassi, prezzolati e volontari. Si parla di lui ed eccoli che sbucano come dal sottosuolo. Partesotti, Raimondo Doria, Menz, Boccheciampe, Schnepp, Sapia, S. Colombano (pseudonimo) e altri a centinaia.

La sua corrispondenza passava di solito prima dai gabinetti ministeriali. Napoleone III leggeva le lettere del cospiratore politico come se fosse stato in diretta corrispondenza con lui.

Neanche l'Inghilterra ministeriale di quel tempo si è salvata dall'infamia dello spionaggio. Per 7 mesi essa ha dissuggellato sistematicamente con arti infami e contraffazioni tutta la sua corrispondenza. I fratelli Bandiera sono stati sorpresi e fucilati grazie a queste scaltrezze poliziesche.

Ci sarebbe da fare un volume curioso sulle spie mazziniane camuffate da cospiratori. Più di una volta Mazzini non voleva credere. Molte figuracce che lo hanno tradito sono state difese dalla sua penna. Del Sapia egli ha sempre avuto un alto concetto. Non è che quando costui si è infiltrato nella redazione repubblicana del Vermorel, direttore del Courrier, che Mazzini si è smagato. Al processo il Sapia si è rivelato l'ultimo dei miserabili. Mi pare che Mazzini sia morto senza convincersi che l'ultima che gli aveva messo intorno il governo italiano, fosse una spiaccia mantenuta coi fondi segreti.

Vale la pena di immortalarla, anche perchè con essa si chiude il periodo delle tribolazioni dell'agitatore che voleva fare l'Italia con o senza la monarchia e che è morto dichiarandosi contro quest'ultima.

Si era vicini al disastro di Napoleone.

Mazzini si trovava malandato di salute a Lugano. I siciliani in comunicazione con lui gli facevano credere che la sua presenza sarebbe stata il segnale della insurrezione. Non si è arreso subita. Egli ha voluto aspettare di rifarsi le forze. Un po' più in gamba è partito. Si è fermato a Napoli. Egli credeva di passare per l'Italia come un ignoto. Nessuno, secondo lui, poteva supporlo in Italia.

Invece il prefetto di Napoli non lo faceva arrestare perchè non gli dava fastidio. L'odiatore della Comune e dei comunardi non ha mai sospettato di girare col consenso prefettizio. Egli partì per Palermo solo. Non lo sapeva che il Wolff. Non gli si è dato tempo di discendere. Non appena giunto il piroscafo a Palermo è salito a bordo l'ispettore Buindi. Mazzini era truccato da inglese, si chiamava John Brown e parlava la lingua di John Bull.

Nossignore, — gli disse l'ispettore di polizia, tirando fuori la fotografia che aveva nel portafoglio. — Lei è il signor Giuseppe Mazzini ed io ho l'ordine di arrestarlo.

C'era il piroscafo Ettore Fieramosca che lo aspettava. Vi si condusse Mazzini e si fece subito rotta per Gaeta, dove venne chiuso in fortezza come prigioniero di Stato.

Non appena si è saputo che il grande Maestro era in fortezza, è nata una profonda commozione. «Per un attimo passò sull'Italia un velo funebre. Pareva una sventura nazionale. Poi si sono scatenate le ire. Il ministero che stava per andare a Roma a compiere il lavoro della breccia è stato violentato da tutte le parti. Si sono rovesciate, su di lui tutte le immondizie dei dizionari.

Il Governo è stato come sempre vile e ipocrita. Non ha saputo essere sgherro gentiluomo. È stato mascalzone. Ha amnistiato Mazzini, come aveva amnistiato Garibaldi e i garibaldini che sono andati a spargere il loro sangue nei piani di Borgogna. È stato l'ultimo dolore supremo dell'agitatore. I dimostranti che si congratulavano con lui della sua scarcerazione sono stati rimproverati. Amnistiare un uomo è il massimo degli oltraggi.

Era avvilito. Solennizzare la scarcerazione di un amnistiato? Piangete. Clemenza! Clemenza di chi e per chi?

Mazzini è rimasto il nemico acerrimo dell'Italia ufficiale. Essa era in Roma. Ma a lui, attraversandola, gli è parso di passare attraverso due cadaveri, quello del papato e quello della monarchia.

Se si vuole un epitaffio per la tomba di Mazzini, eccolo:

 

Qui giace il disfacitore dell'Italia monarchica.




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