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Paolo Valera Il cinquantenario IntraText CT - Lettura del testo |
Amilcare Cipriani è un capolavoro vivo. Non c'è che lui. Davanti a lui tutti gli altri diventano nanerottoli. Egli è stato, egli ha vissuto, egli ha fatto. Lotte, cospirazioni, barricate, strazi, prigione, deportazioni, condanne a morte. Ecco il sommario della sua esistenza. Dieci anni di Caledonia, otto anni di Portolongone, capo di spedizioni, leader di rivoluzioni. Bilingue, trilingue, quadrilingue. Sempre sommo, sempre grande, sempre indifferente alla propria persona. Nessuno ha sofferto come il nostro comunardo.
Nella stiva, in viaggio per la Caledonia, con una ferita d'arma dal fuoco che gli divorava la carne della gamba, egli ha subito tutta la sete dell'inferno. Ha patito l'arsura per pulirsi la ferita e salvarsi dalla cancrena. È stato otto anni in cella per non essere obbligato a togliersi il berretto del galeotto davanti al guardiano della galera. È stato eletto deputato una volta, due volte, tre volte, mentre era al bagno penale. Se ne è andato all'estero invece di andare alla Camera. Nei momenti della sua gloriosa vecchiaia, dopo aver trovato sua figlia, ha ereditato ventimila lire. Le ha rifiutate. Centinaia di rivoluzionari le avrebbero intascate. Cipriani, proletario, con la figlia che stava per diventare vedova, voltò il dorso al piccolo benessere e continuò a scrivere nella Humanité come se avesse avuto venti anni.
Non voglio sciupare la biografia che porto nella testa da parecchi anni. Io l'ho conosciuto ed ho passato con lui momenti indimenticabili. L'altro giorno mi ha scritto che non avevo detto tutto di Wolff, la spia di Mazzini, che lui ha conosciuto personalmente. Io gli ho telegrafato tre parole: «Manda, manda, manda!». Egli ha mandato. Leggete:
«Mazzini alloggiava, da anni, a Londra, al numero 18 Foulham Road, Foulham Terrace.
Per avvicinarlo, era un po' difficile. Bisognava passare per il tramite del suo fido, Luigi Wolff. Ma però, non bastava, perchè, se vi ritornavate senza di lui, eravate ricevuti da una grande e bella signora tedesca che portava i capelli a lunghe boccole, alle tempie, e se non le si dava il nome di Ernesti — pseudonimo di Mazzini — non si passava.
Dato il nome convenuto, si entrava in una saletta di mediocre grandezza e semplicemente ammobigliata, ove si trovava Mazzini seduto sopra un piccolo divano posto sotto la finestra che dava su Terrace, con un sigaro in bocca ed un bicchierino di bordeaux posto a portata della sua mano, sul davanzale del caminetto, che leggeva il Times ed altri giornali di altri paesi.
Egli era piccolo di statura, esile. Vestiva modestamente di nero, e portava al collo un cravattone, pure nero, che glielo fasciava tutto. Soprabitino e pantaloni, questi piuttosto corti, calzava stivali più grandi del suo piede.
Non era calvo, ma la fronte aveva spaziosa, la bocca piccola, raramente sorridente, forse perchè molti denti gli mancavano, gli altri anneriti dalla nicotina.
Allorquando sortiva, si copriva con un cappello nero a cencio a larghe tese.
Appena si era introdotti alla sua presenza, vi assaliva, subito con queste domande: «Avete combattuto per l'Italia? Foste con Garibaldi? Siete dei nostri?».
Qualunque fosse la risposta, non cessava perciò di essere cortese, buono, e circospetto; ma se eravate un semplice curioso era inutile di ripresentarvi una seconda volta, a meno che non sapesse chi vi aveva attirato nelle sue file.
Semplice, buono, generoso, con uno sguardo languido, limpido, nient'affatto lampeggiante, ma sereno, uomo che si sente onesto e forte: la parola era uguale allo sguardo.
Non aveva nulla dell'oratore. Parlava semplicemente, con calma, con effusione, con fede, con convinzione: era, insomma, «un grand causeur».
Ma quello che veramente ammaliava i giovani d'allora, era il fascino irresistibile di tutto il suo essere, del suo nome, della sua fama, la leggenda di ammaliatore che aleggiava attorno al suo nome, e la potenza della sua mente.
Oggi, dopo quarantaquattro anni, dopo tante vicende, dopo aver frequentati molti di quegli uomini che la storia chiama grandi, non conobbi che Mazzini che sia stato veramente grande, semplice, generoso, disinteressato come Garibaldi, e come questo fu grande nell'azione, egli fu altrettanto grande nel pensiero.
Io, grazie alle battaglie già combattute in Italia, in Atene, in Candia, ed alle condanne, ebbi subito la sua stima e fiducia. Del resto, nel 1867, allorquando lo conobbi personalmente, gli ero già noto perchè, fin dal 1861, io ero in relazione epistolare con lui, perchè i suoi punti d'appoggio li cercava nell'esercito. E se nel 1862 disertai dal 37° reggimento fanteria di stanza a Palermo, con altri 38 sottufficiali, è che noi seguimmo Garibaldi che aveva lanciato il grido di «O Roma o morte!», grido che la monarchia assassina soffocò, nel sangue di Garibaldi e dei garibaldini ad Aspromonte.
E qui mi fermo, perchè per parlare delle mie relazioni col grande agitatore, dovrei parlare troppo lungamente di me e passo a Luigi Wolff.
Lo conobbi personalmente, intimamente, a Londra nel 1867, e fu lui che m'introdusse presso Mazzini, col buon Domenico Lama di Faenza (Mingon).
Confesso, che la prima impressione fu piuttosto cattiva, perchè cercò di sapere da me, appena visto, troppe cose che, diffidenti come eravamo a quell'epoca, non gli dissi.
Non so nè la sua età, nè il suo luogo di nascita. So che nel 1848, capitano di una banda di svizzeri tedeschi, militò contro la Repubblica Romana.
Disertò e passò nel campo repubblicano, insinuandosi così nell'amicizia del grande triumviro.
Il titolo era buono e, forse, nei primi tempi fu sincero. Ma si avvide presto che l'amicizia di un tal uomo (Mazzini) fruttava molti onori, sì, ma molte persecuzioni, pochi guadagni, ed egli era avido e, per averne, tradì la fede, il maestro, l'amico, la sua nuova patria d'adozione, tutto.
Era di statura media, piuttosto tarchiato, con una folta e lunga barba brizzolata che gli copriva tutto il volto.
Portava sempre gli occhiali a stanghette, e parlava alla perfezione il tedesco (che era la sua propria lingua), l'inglese, l'italiano, il francese.
Era assai colto ed istruito. Aspetto bonario, dai modi popolani, insinuante, scrutatore, prudente nel parlare ed ancor più nell'agire, era sposo di una tedesca scaltra come lui, e credo che sapesse la parte infame che suo marito giocava presso Mazzini.
Egli era giunto ad insinuarsi in tutto, a saper tutto, a far tutto. Era l'anima, il braccio, la mente di Mazzini. Era, insomma, il factotum, il manitou, del partito mazziniano.
Anzi, codesto intrigante superiore, aveva saputo così bene imitare la calligrafia del Mazzini (col suo consenso) che, allorquando furono diffusi gli statuti dell'A.R.U. (Alleanza Repubblicana Universale) onde fare opposizione all'Internazionale di Karl Marx, erano scritti dal pugno del Wolff e tutti credettero fossero del Mazzini.
Il pseudonimo che aveva assunto per viaggiare in Italia ed altrove per conto del partito mazziniano, era Old Bear (vecchio orso).
La prima brutta impressione, si trasformò in sospetti, anzi in certezza; nel 1869 allorquando egli, incontrandomi in Oxford Street mi disse che Mazzini, allora a Lugano, chiedeva una mia fotografia con dedica.
Esitai; ma poi, non avendo nulla a temere, lavorando da fotografo nella fotografia di Adolfo Nathan e di Leonida Caldesi, in Pall-Mall-East, me ne feci una, e gliela consegnai.
Poco tempo dopo venne a trovarmi per dirmi che Mazzini mi voleva a Lugano per confidarmi il comando di una banda armata, che infatti partì da Lugano comandata da un Nathan, che fu poi arrestato a Milano e che oggi è morto già da anni.
Allora ero già padre e, come sempre, povero, ciò che feci osservare al Wolff.
— «Fai qualunque sacrificio, mi rispose, ma va ove ti chiama Mazzini, anzi, aggiunse, il maestro».
Raggruzzolai i soldi necessari e partii. Non gli dissi però quello che egli voleva sapere, il giorno e l'ora della mia partenza.
Come per prudenza e maggior sicurezza, viaggiavo senza bagaglio. Appena a Parigi volai in rue Moret a deporvi un pacco di proclami incendiarii di Felix Pyat contro l'impero.
Era appena un'ora che ero fuori che fui arrestato dagli agenti in civile.
Fui condotto dinanzi al prefetto di polizia dell'impero, Pietri, il quale, scorgendomi, esclamò in buon italiano (era côrso): «Ecco il commesso viaggiatore della rivoluzione, il braccio destro di Mazzini».
Io che capii cosa celavano quelle, parole, negai, poi mi chiusi nel più prudente riserbo.
Fui spogliato: i miei abiti, le scarpe, il cappello, tutto fu scucito; nulla trovarono perchè nulla v'era.
Il prefetto scorgendo il fiasco, esclamò: «Il romagnolo ce l'ha fatta!». Lo sgherro era bene informato.
Il tutto fu ricucito alla meglio. Dinanzi alle mie violente proteste, il prefetto ordinò che fossi condotto alla frontiera svizzera, giacchè avevo dichiarato che ero diretto a Fluelen (nei Quattro Cantoni, presso Altdorf).
Attraversai la Svizzera tedesca e presto fui a Lugano, colla certezza d'essere stato tradito dal Wolff.
Appena giunto, mi recai alla Villa Nathan sul lago, ove sapevo che vi si rifugiava Mazzini.
Fui ricevuto da Maurizio Quadrio, al quale narrai la mia piccola odissea ed i dubbi contro il Wolff.
— Aspetta, mi disse, tutta questa losca storia, urge che Mazzini la conosca.
Nel frattempo entrò la Sarina Nathan, che avevo conosciuto e fotografato a Londra. Appena mi scorse mi tese la mano:
— Lei da questa parte?
— Si, rispose Quadrio, urge che Pippo lo veda.
Appena entrato, il Quadrio gli disse:
— Ascolta il nostro Cipriani, ha gravi cose da dirti.
Dopo che gli ebbi minutamente espresso tutto, Mazzini che era seduto, generalmente calmo, scattò come una molla:
— Ma io, caro Cipriani, non ho chiesto la vostra fotografia, nè la vostra venuta a Lugano...
E rimase pensoso come persona che attenda una risposta. Gli risposi:
— Maestro, la vostra risposta non mi stupisce. Se sono venuto è giustamente per chiarire certi sospetti e farveli toccare colla mano.
— Io non so, nè dico questo. Credo soltanto che qualcuno ha voluto togliervi dal fianco un uomo d'azione, un amico fidato.
Quadrio, rannuvolato ed annuente col capo alle mie parole, esclamò:
— Io, e tu lo sai Pippo, questo Old Bear non mi assicura affatto.
— Allora? esclamò con amarezza il grande cospiratore.
— Allora, replicò il Quadrio, io condivido i sospetti del Cipriani. Non è di noi soli che si tratta, ma del nostro partito e dell'avvenire d'Italia.
Io gli strinsi la mano, sortii e tacitamente me ne tornai a Londra.
Dopo l'assassinio del giovane Barsantí, feci ritorno a Lugano per incontrarmi col mio amico Gustavo Flourens.
Mazzini e Quadrio erano partiti ed io, finiti i miei affari, tornai a Londra.
Un mese dopo scoppiò la guerra franco-prussiana.
Proclamata la repubblica il 4 settembre, partii, lasciando moglie e figlia che non dovevo veder più, almeno quella.
Giunto a Parigi, corsi dal mio amico Flourens, che aveva messo il seggio del suo Stato Maggiore, rue des Couronnes à Belleville.
Flourens era strettamente sorvegliato dalla polizia del Keratry, prefetto di polizia della neo-Repubblica.
Wolff aveva stabilito il suo quartiere generale nell'Hòtel du Hanovre, nell'angolo della stessa via, Boulevard de Belleville, per meglio sorvegliare le mosse del Flourens.
Una mattina che il battaglione era riunito, scorsi il Wolff dietro le file che interrogava delle guardie nazionali. Scorgendomi, tentò celarsi.
Lo segnalai al Flourens; ma siccome si sortiva da Parigi per combattere, la cosa passò liscia per questo giorno.
Proclamata la Comune, un bel giorno fui chiamato dal mio amico Raoul Rigault, prefetto di polizia della Comune, il quale, scorgendomi, mi chiese:
— Di', Cipriani, conosci Wolff?
Io che tenevo a lasciarlo parlare per sapere, gli risposi: — Sì, l'ho conosciuto a Londra.
— Al fianco di Mazzini? To', leggi questa sua lettera e guarda questa fotografia.
Era la mia dedicata al Mazzini.
E nella lettera scritta tutta di pugno del Wolff, questo vi dibatteva il prezzo del suo infame tradimento.
Rammento solo questa frase: «Comprenderete, signore, che a un uomo come me, che vive nella grande intimità coll'implacabile nemico di tutte le monarchie, che posso informare di tutti gli atti dei rivoluzionari internazionali, non gli si offrono 500 franchi al mese...».
Presi un manipolo d'insorti armati, corsi all'Hôtel, ma la preda era fuggita da qualche ora.
Scrissi subito a Mazzini, informandolo di tutto. E questa fu l'ultima volta che gli scrissi, perchè poi vennero le battaglie, le condanne a morte, la deportazione, la galera, la reclusione, l'esilio ove vivo ed ove forse morrò».