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Paolo Valera
Il cinquantenario

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Pietro Bastogi, Balduino, Cristiano Lobbia

e le vittime della Regia.

 

Gli ultimi quattro o cinque anni di Firenze capitale sono senza dubbio i più arruffati e i più turgidi del cinquantenario.

Lo scrittore è come in una immensa bolgia di criminali truccati da gentiluomini. Più guarda in alto in cerca di una faccia onesta e più chiude gli occhi terrorizzato. Garibaldi li chiamava tempi borgiani.

In tutto quel periodo non c'è un attimo di vita sincera. Non c'erano che venduti, che corrotti, che violenti, che gaglioffi, che bricconi, che malviventi.

I ministri trafficavano e si circondavano di sicari della penna; i deputati facevano degli affari, i giudici rendevano dei servigi, la pubblica sicurezza era infame e sovrana; i monopolii nazionali venivano abbandonati ai banchieri della speculazione ladra, le imposte erano così scorticatrici che il Governo non poteva esigerle che coi massacri e con gli stati d'assedio. Fra gli eminenti di quei giorni si era come scatenato il demone dei guadagni ingenti. Si speculava, su tutto e con tutti. Con la febbre di andare alla ricchezza col treno lampo era nata la manìa delle pubbliche costruzioni. Si costruiva per smodati interessi, per trascinare nell'orbita delle intraprese gigantesche, il denaro della nazione. Hausmann aveva fatto scuola.

Intorno ai ministri erano persone losche, gente uscita dalle speculazioni con le mani sucide, scrocconi di tutti gli affari tenebrosi, progettisti che volevano la patria grande per svaligiarla. Il primo caso che ha fatto trasalire il pubblico e «offuscato l'onore della destra parlamentare» è stato quello della cessione delle ferrovie meridionali a una società italiana in surrogazione della società francese.

È stato un vero traffico parlamentare. L'autore del mercato è passato alla posterità in un giorno. Si chiamava Bastogi. È stato ministro di Italia. Egli diceva, come Walpole, che l'onore degli uomini era nel prezzo.

Chi resisteva era colui che voleva vendere la sua onestà per una somma maggiore. Il Bastogi era un trafficone di tutte le coscienze.

Capo del Credito Immobiliare di Torino e deputato, andava dicendo a tutti ch'egli voleva dimostrare all'Europa che l'Italia era in grado di provvedere da alle più ardue e gigantesche imprese. Lavorò sott'acqua. Ottenne la concessione. Comperò dei voti e degli uomini. Il sottovoce del suo mercato è stato assalito da caterve di pennivendoli al servizio del Bastogi. La stampa sbrigliata non si lasciò tappare la bocca. Ingrossò il sottovoce con frasi aride. C'è stata una furiosa battaglia d'inchiostro.

Da una parte si negava, dall'altra si accusava. Bastogi alzava le mani facendole vedere monde. Si diceva vittima della calunnia, minacciava di querele. Il sottovoce ghignava e diventava impertinente. Levava la testa con aria di sfida. I reazionari protestavano, dicevano la Destra pura. Il sottovoce era divenuto un nome.

Il nome una legione di nomi. Nessuno era più salvo. Tutti i deputati che avevano votato per la concessione delle ferrovie meridionali erano sospetti. Le malelingue facevano circolare le cifre intascate dai corrotti. Il sussurro è divenuto generale. Vox populi, vox dei. Lo dicevano tutti. Bisognava piegare.

Anche gli onorevoli che non avevano partecipato al banchetto dei corrotti incominciarono a credere che nel negozio per le ferrovie meridionali si nascondesse un vituperevolissimo mercato. Se non giungiamo, diceva l'onorevole Mordini, a compiere e presto la arginatura, avremo lo straripamento della corruzione. I nomi più illibati sono fatti segno al sospetto. Non resta riputazione intatta. La Camera deve procedere risolutamente con un atto solenne di moralità. La Camera deve volere l'inchiesta. E l'inchiesta venne approvata da tutti i presenti, meno tre. I risultati non furono tali da pacificare l'opinione pubblica. Molti nomi sono stati rispettati, molte cose taciute. A udirne la relazione gli onorevoli erano tutti galantuomini.

«Qualunque voce, o sospetto, diceva, di corruzione esercitata verso uno o più deputati nell'occasione della discussione e votazione della legge sulle ferrovie meridionali è rimasta pienamente smentita».

Bugia! Menzogna! Al contrario. La commissione, pur volendo ignorare e assolvere gli sbruffati, non ha potuto non bollare il Bastogi e il Susani — tutti e due deputati. L'uno aveva corrotto l'altro. Bastogi aveva ringraziato Susani con un milione e 100.000 lire. Susani, relatore di un progetto di legge per conto della Camera, aveva fatto di tutto per farlo andare a monte e sostituirvene un altro. La cosa gli è riuscita, ma ha dovuto scomparire dalla vita pubblica, come ha dovuto scomparire per alcuni anni Bastogi. Quanti altri che avevano mercanteggiato il voto sono rimasti nell'ombra? Parecchi. Ci sono stati perfino dei deputati che hanno potuto far denari rimanendo assenti al momento della votazione. Avevano venduto l'assenza.

Mentre si applicavano i contatori meccanici ai molini e si sottomettevano le regioni affamate al regime dello stato d'assedio, l'Unità Italiana è uscita con una notizia che ha fatto saltare in aria tutti. Era un giornale mazziniano. Non gli si poteva credere. Aggrediva la monarchia, la vituperava, la disonorava tutti i giorni. Il procuratore del re non l'ha lasciato passare. L'ha mandato al tribunale. Di che cosa si trattava? Accusava i guardiacaccia di sua maestà Vittorio Emanuele II di avere ammazzato nelle tenute reali ventiquattro «trespassers», ventiquattro persone che avevano osato internarsi nei terreni reali per cacciare, per portar via delle pernici, dei daini, dei cinghiali, dei fagiani, dei pavoni, delle folaghe, delle lepri, delle quaglie e degli altri volatili preziosi. De Sonnaz — il grande guardiacaccia non ha esitato a far agguantare dalla legge il giornale imprudente.

Il processo è avvenuto a Milano. È stato intitolato il processo Tombolo, il luogo dove era la tenuta reale.

È stato uno scandalo. Si è venuti a sapere che il re, in nome dei suoi sagrifici fatti per l'unità italiana, era divenuto il signore di dodici o quindici tenute con parchi per la caccia, di una estensione sbalorditiva. La monarchia costava in cacciagione milioni all'anno.

L'accusato principale era un collega di quel tempo l'avv. Bottero. Era lui che aveva accusato di delitti di sangue i guardiani delle possessioni cosiddette reali.

Con le sue rivelazioni si è venuto a sapere che gli omicidi rimanevano impuniti come nei tempi feudali. Chi indossava la montura reale non doveva essere importunato dalla legge. Erano i bravi del feudatario. L'accusato disse solo queste parole:

— Nei parchi reali avvengono i più sciagurati casi, nei quali invece di selvaggina cadono degli uomini colpiti dal piombo dei guardiacaccia.

L'accusatore dei guardiacaccia era l'on. Toscanelli.

Egli, citato come testimonio, aveva una lista di tutti i morti. La sua presenza al processo ha fatto una impressione enorme. Egli non era mica un rivoluzionario. Era un uomo ricco a milioni, era parente del Peruzzi, era consigliere provinciale di Pisa, rappresentava il collegio di Pontedera, ed era stato eletto dalla VII alla XIV legislatura.

Clericale, espulso dalla massoneria, e confezionatore di vini all'ingrosso. Il chianti del Toscanelli è ancora famoso.

Interrogato su quello che sapeva ha domandato il permesso al presidente di permettergli di servirsi delle note per non cadere in errori. Aveva la voluttà del documentista. La sua lista delle vittime dei guardiacaccia era di ventitre individui. Chi era stato ferito al collo, chi era stramazzato cadavere, chi aveva dovuto subire l'amputazione del braccio o della gamba; chi era stato colpito al collo, chi alla testa, chi alla tempia, chi alla gola, chi al ginocchio, chi al ventre.

Egli era preciso. Dava nomi e cognomi, luoghi di abitazione, dove erano stati feriti e ospitati, e tutti i particolari che non lasciavano dubbi sulla narrazione.

Per far cessare il delitto reale, il Toscanelli «aveva fatto istanza presso la giustizia, perchè si procedesse contro i reati di sangue».

Impotente a scuotere il magistrato che rendeva servigi alla Corona, s'è servito della tribuna parlamentare. Identico risultato. Si è sentito nelle sue parole una concitazione personale. Si diceva che non aveva saputo essere oggettivo.

Citato dall'Unità Italiana è stato aggredito dagli avvocati che rappresentavano la Corte. Egli non si è lasciato scompaginare. Ha ribadito le accuse. Non voleva che Tombolo facesse parte delle tenute della Corona, perchè non vi si ammazzassero i trasgressori come nelle tenute reali di Coltano e di San Rossore.

Difendevano i guardiacaccia delle tenute Reali Mancini e Curti, due deputati e due ventraiuoli in toga che hanno fatto molti discepoli. Difendevano tutto e tutti per il denaro. Il Mancini, abile e intelligente, era colui che aveva fatto sciogliere anche il matrimonio di Garibaldi con la Raimondi.

Prima di morire è disceso fino all'accettazione dell'elemosina reale. Giusta punizione a chi ha fatto di tutto un grosso mercato.

Allo strepito del Mancini il teste ha risposto con una lista dei morti e dei feriti.

Fu letta in mezzo alla stupefazione di coloro che l’ascoltavano. Non era che un elenco funebre.

«Rainieri di Prato, ucciso nella tenuta di Coltano con un colpo d'arma da fuoco al collo. — Achille Ceccarelli di Pretignano, ferito con arma da fuoco al ventre nel centro della tenuta di Coltano, presso il monte di Carigi, morto poco dopo. — Obaldo degli Innocenti, ferito con arma da fuoco a Coltano, mentre fuggiva. Nessun processo. Nessun scandalo. Nessun annuncio. — Folaini Luigi, ferito al confine della tenuta di Coltano, con palle che gli trapassarono e ruppero il ginocchio sinistro...».

Egli è andato fino in fondo, fino al ventitreesimo, a costo di annoiare l'uditorio. Di tanto in tanto si fermava a leggere qualche nota sbiadita in margine all'epitaffio.

La scusa dell'eccidio, per esempio, era che i trasgressori della caccia proibita avevano opposta resistenza.

La storia di Giovanni Orelli è un esempio. Ferito con tre colpi d'arma da fuoco al dorso e alla mano, trovato da due sconosciuti al limitare della tenuta e portato all'ospedale di Pisa, è guarito storpiato ed è stato processato per resistenza. I feritori non sono neanche venuti in scena.

L'ho già detto: il guardiacaccia godeva delle prerogative reali del suo signore. Chi penetrava nelle tenute di caccia di Vittorio Emanuele II, periva.

In quel di San Rossore nel '68, vi lasciarono la pelle o le membra: Alessandro e Giuseppe Lippi, fratelli, sorpresi con un daino. Nella stessa tenuta venne aggredito dai pallini dei guardiacaccia Giuseppe Talaini, ferito alle gambe e ai testicoli gravemente. Francesco Sesti, ferito in San Rossore, dovette subire l'amputazione del braccio.

Se non avessi paura degli sbadigli, continuerei l'elenco funebre dei contadini o braccianti finiti a sciabolate o a fucilate sui terreni reali.

La sentenza è stata in armonia coi tempi borgiani. L'avv. Bottero e il gerente Giacinto Piazza sono stati condannati per avere denunciati i venti e un omicidi e averne provati ventitre, a sei mesi ciascuno di carcere, a 300 lire di multa, alle spese processuali e alla rifusione dei danni alla parte civile da liquidarsi in separata sede.

L'avvocato in difesa non ha potuto neanche parlare. Egli stava dicendo:

«Imperocchè, o signori, queste cose non accaddero giammai nemmeno sotto i governi assoluti. È passato il tempo che un re possa far squartare il ventre di un suddito...

Presidente: —  Avvocato, le tolgo la parola.

Noi che abbiamo veduto in azione le leggi eccezionali non abbiamo neanche idea dei tribunali di una volta, dei tempi in cui il Pironti era ministro di grazia e giustizia. Non avevano ragione che i moderati. Potrei citarvi centinaia di sentenze.

Fra la Gazzetta di Milano e la Perseveranza, da un processo di diffamazione usciva vittoriosa l'ultima. Cito quella che ha condannato la prima per avere provato che Ruggero Bonghi occupava tre impieghi governativi. Cito quella fra il Gazzettino Rosa e il Civinini, deputato passato da un tramonto all'altro dalla sinistra alla destra. Cito quella di Cristiano Lobbia, maggiore dello stato maggiore e deputato di sinistra al Parlamento di Firenze. Il Lobbia è stato il protagonista di una lugubre storia piena di cadaveri. Il cancan di quei giorni era intorno alla Regìa cointeressata. La concessione era stata ottenuta con lo stesso metodo che aveva servito al Bastogi per la concessione delle linee ferroviarie.

Il personaggio del mercato era il Balduino, direttore del Credito Mobiliare Italiano. Con l'audacia dell'arrivista che vuol riuscire ad ogni costo ha cercato di soffocare il sottovoce, minacciando di querela giornali e privati che avessero osato accusarlo di corruzione.

Si è fatto avanti il Cristiano Lobbia. È andato alla Camera e per costringerla a votare l'inchiesta sui «si dice» ha aggiunto che egli aveva in mano documenti per provare che un deputato aveva «indebitamente lucrato nell'affare della Regìa».

— La deposizione documentale è nelle mie manidiceva — ed è stata legalizzata da un notaio. È qui — esclamava, agitando due larghe buste chiuse.

Non c'era più modo di scappare. L'accusa aveva il suo gerente responsabile. Il governo non potendo più evitarla non ha lavorato che per diminuirla, che per confinarla nella zona delle restrizioni.

Il Crispi era nel mistero, ma non voleva parlare. Il segreto professionale glielo impediva. Il Lobbia veniva addentato da tutte le iene del giornalismo ministeriale. Per salvarsi è stato obbligato a scrivere alla Riforma:

 

Firenze, 15-6-1869.

«Signor Direttore

 

Qualche giornale cominciò a farmi segno di turpi e codardi attacchi personali facendosi scherno della mia attuale posizione verso la Commissione di inchiesta, alla cui opera mi legano i più ineluttabili sentimenti di dovere e di onore. Io ho la coscienza di ciò che devo a me stesso ed al paese in seguito al voto della Camera, vi è forza che possa distrarmi in questo momento al compito mio.

Però credo fin d'oggi avvertire per mezzo della maggiore pubblicità che, non uso a tollerare come uomo, soldato e deputato offesa sospetto al mio nome, io terrò bene in mente quei giornali e quei nomi che osarono, sia pure menomamente, di offendermi per chieder conto, appena libero, dei loro attentati al mio carattere.

La prego di pubblicare la presente, come prego gli altri giornali di riprodurla».

 

Lo stile è del soldato e la fierezza è del rappresentante della nazione. l'uno l'altro avevano ammansate le belve delle fazioni e delle cospirazioni cointeressate che urlavano per la sua testa.

Lo si dileggiava, lo si svillaneggiava, lo si canzonava.

Il giorno dopo, il 16, doveva essere la sua gran giornata. Egli era citato davanti alla Commissione d'inchiesta.

Nella notte tra il 15 e il 16 egli era avviato a fare una visita al suo amico prof. Martinati. Giunto tra la via S. Antonio e la via dell'Amorino, venne sorpreso, aggredito, pugnalato.

— Eccoti il plico, diceva lo sconosciuto menandogli un colpo di pugnale al cuore. Il primo colpo è scivolato dal portafoglio grosso di carte e lo ferì al braccio. Cadde e il suo aggressore gli andò sopra e tentò di assassinarlo con altri due colpi alla testa.

Cristiano Lobbia riuscì a divincolarsi e a trarsi dalla tasca la pistola con la quale fece partire due colpi.

L'aggressore scomparve. Si è venuti a sapere più tardi che il maggiore da un po' di giorni era sempre seguito da due sconosciuti ch'egli supponeva agenti di pubblica sicurezza.

Le pugnalate di via dell'Amorino son passate per il Paese come un'irritazione e una provocazione.

Tutti vedevano nella mano che aveva attentato alla vita del Lobbia, la mano ministeriale o di alcuni ministeriali interessati a far scomparire un uomo per loro così pericoloso.

Lobbia è divenuto l'uomo del giorno. Dimostrazioni, comizi, processioni dovunque. Dappertutto si gridava «Viva Lobbia! Morte agli assassini! Abbasso il ministero».

I principali deputati sospetti erano Fambri, Civinini, Brenna, direttore della Nazione, e altri dodici o tredici che avevano preso i «zuccherini» dal Balduino, come gli altri avevano presi i carrozzini dal Bastogi.

Su Fambri non c'era dubbio. Solo egli si scusava dicendo che aveva fatto un affare. Le azioni, secondo lui, le aveva comperate. Il Civinini era indiziato più degli altri. Lo si accusava di avere mercanteggiato il voto per un milione. Le azioni le aveva comperate il banchiere Basevi, pagando la provvigione al mediatore Tringalli in 52 mila lire.

Sul traffico parlamentare del Civinini è rimasto sempre un po' di dubbio, perchè i suoi amici hanno detto che è morto povero.

La democrazia di quel tempo ha onorato il pubblico accusatore imitandolo negli abiti. Tutte le vie erano popolate di cappelli Lobbia, di cravatte Lobbia, di giacche Lobbia. I «Lobbia» sono stati la fortuna di parecchi cappellai. Non c'era più negozio senza la sua fotografia e la sua caricatura. È stata coniata una medaglietta con la sua effige da appendersi al panciotto come ciondolo e messa in vendita per L. 2,50.

È troppo lungo il finale di questa turpissima storia parlamentare per lo spazio a mia disposizione. I moderati che non avevano potuto farlo uccidere, tentarono di assassinarlo con un processo per «simulazione di delitto».

Si sono trovati dei giudici che l'hanno condannato. Con il suo assassinio morale si sono pure assassinati alla chetichella tutti gli altri testimoni che avrebbero potuto parlare.

Se mi ricordo bene, le vittime sono state sette. Chi è finito nell'Arno, chi è stato trovato morto nella strada e chi è stato avvelenato.

Tempi veramente borgiani!

Rileggendo le mie note dei tempi borgiani, ne trovo sei. Ma può darsi che io copiandoli ne abbia lasciato uno per la strada. Sono stati tutti spenti di morte «subitanea». Proprio come ai tempi del Borgia. Cesare Borgia si difendeva dai nemici dando incarico ai sicari di sopprimerli. Gli attori pericolosi del dramma della Regìa e di via dell'Amorino, con il ministro Pironti, sono scomparsi tutti e non se n'è saputo più niente.

Il primo ad andare all'altro mondo borgianamente è stato il giovane Scotti. Egli, rincasando, aveva avuto la disgrazia di incontrarsi con l'assassino di Cristiano Lobbia, quando fuggiva inseguito dalle grida della vittima. Non gli è stato dato tempo di fare rivelazioni. Aveva 18 anni. È morto avvelenato appena giunto al suo paese. Quando se ne parlò nei giornali l'autorità di Cremona ne ordinò l'esumazione. Sarebbe stato un documento.

Il Pironti la fece contrordinare. Le «pillole Scotti», dopo il suo avvelenamento, sono divenute famose.

Il secondo è stato Faccioli. Egli aveva preso parte alla disparizione delle lettere e delle ricevute dei deputati cointeressati. Poteva essere un ricattatore in permanenza. Poteva vendersi. Via, al cimitero! È morto di morte improvvisa a Napoli «nel vigore di una virilità prospera e robusta». Nessuna autopsia.

Il terzo fu il Burei, l'uomo più importante di tutti. Egli era stato il detentore delle diciassette ricevute. Ne aveva negoziato il riscatto col Corsale e coll'Ellero, per conto dei deputati compromessi. Della vendita non si è salvato che una lettera del Brenna e anch'essa dovuta al sacrificio del deputato Cucchi. Era la lettera famosa in cui si parlava dei quattrini. Non lasciava dubbio che si fosse compiuto un mercato parlamentare. Il Burei, sanissimo e robustissimo, ha finito anche lui di morte repentina.

Poi è venuta la volta del Domenico Corsale. Egli è stato ucciso per un futile motivo o «per causa ignota» come ha stampato l'Opinione d'allora, governativa. L'uccisore è rimasto irreperibile per dei mesi. Il morto è andato sottoterra col mistero, come il Burei.

L'uccisore del Corsale è stato scoperto: si chiamava Somigli, ma lo si è lasciato al largo.

La lettera del Fambri, stata pubblicata dai giornali denunciatori del traffico parlamentare, era stata rubata da un domestico o da un impiegato del Fambri. Egli ha fatto di tutto per riaverla, perchè essa era l'ultima delle diciasette ricevute rilasciate al commendatore Balduino da un gruppo di deputati che aveva per capo della speculazione il Fambri, questore della camera e autore drammatico. Il gruppo era nel sottovoce come la «fazione cointeressata». L'attentato di via dell'Amorino è avvenuto appunto alla vigilia della deposizione del Lobbia davanti la Commissione dell'inchiesta parlamentare, indubbiamente perchè la «fazione» si era spaventata e credeva che nei plichi del Lobbia ci fossero le ricevute scandalose. Fu solo pochi giorni dopo che i deputati venduti vennero a sapere dove erano le lettere o le ricevute - 14 delle quali sono state comperate dal detentore Burei, il confidente del Fambri. Il Burei le aveva depositate presso certo Eller.

Sono state riscattate tutte a contanti. I cointeressati, invasi dalla paura, non hanno più badato al biglietto da mille. L'Eller doveva essere anche lui un briccone. Perchè dalle lettere depositate presso di lui ne aveva fatte scomparire alcune; per venderle per proprio conto, e l'ultima, quella al «Caro Paulo» (Fambri) del Brenna, deve averla venduta alla parte accusatrice.

Dalla casa del Corsale — il Burei, per riaverla — gli scrisse: «Si tratta di guadagnare molte migliaia di lire anche questa notte. Vieni qui subito da Corsale». Ma la lettera era già nelle mani dell'on. Cucchi — il quale l'ha fatta recapitare alla Commissione d'inchiesta.

E poi scomparve con una stilettata al cuore anche colui che aveva ammazzato il Corsale.

Fra coloro che devono essere ricordati nella storia del cinquantenario è pure Guglielmo Cambray-Digny, il ministro che ha fatto dare, come risultato al processo di Firenze, il mandato a un signor Bonomi di spacciare il Lobbia. E poi dite che non erano tempi borgiani. I giudici non esistevano che per rendere dei servigi. I sommi di quei tempi erano i De Foresta, gli Aveti, i Cantini, i Perfumo e i Tondi. I ministri facevano degli affari; chi si metteva fra loro e la borsa, spariva.




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