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Paolo Valera
Il cinquantenario

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Il Calvario garibaldino.

 

Siamo nel '62. Tempi difficili. La monarchia che doveva tutto a Napoleone non aveva nella testa che ordini napoleonici. Vittorio Emanuele passava per un re qualunque. Lo si credeva un bastardo. Il sottovoce voleva ch'egli fosse il «maschiotto» del macellaio del Poggio di Firenze. Le sue volgarità e i suoi gusti di sovrano del sottosuolo contribuivano a lasciar credere che sua madre fosse stata per gli abbracci popolani. La vita privata poi del secondo re d'Italia faceva arricciare il naso a molta gente. Egli aveva sottomesso la madre dei suoi figli ad assistere in silenzio alle sue infedeltà coniugali e a ignorare a fianco della reggia la Rosina, divenuta in seguito contessa Mirafiori e a Roma la regina morganatica. Chi ha dei dubbi legga le memorie del generale Della Rocca, uno dei suoi più affezzionati cortigiani.

Il ministro del misfatto regio di quei giorni chiamati «nefasti» dalla democrazia regia, era Urbano Rattazzi, un mezzo uomo che non sapeva uscire dagli intrighi. Egli ha avuto l'audacia di mettersi sulla piattaforma politica come rivale di Cavour. Con la sua opposizione imbronciata, viveva in una freddezza calcolata. Fisicamente antipatico. Lungo, magro, allampanato, storto a sinistra, con le spalle giù pendenti come una desolazione. Il suo stomaco rientrava come uno specchio concavo e tutto il suo corpo pareva quello di un poveraccio malandato di salute.

Fronte piccina e umida, labbra rossastre, occhi riparati dietro le lenti del miope, voce esile, parola scolorata, modi da femminuccia. Mente da causidico, stile ammuffito e bianco dalla polvere del tempo, oratore floscio e stucchevole. Depravato come tutti gli uomini del «risorgimento». Sua moglie era la ditta della depravazione. Il suo nome è ancora nell'aria. Tutti ricordano il suo viaggio trionfale sino a Napoli. Abituata alle Tuilerie che ella frequentava come casa sua, andava ai banchetti politici col marito nelle vesti vaporose. Bella, vedova di tre o quattro mariti, padrona di una penna cosmopolita, che scriveva memorie e romanzi e libri intimi con la prosa fascinosa e morbida di George Sand. Infedele come l'amante di De Musset ha seminato l'Europa dei suoi piccoli e dei suoi grandi amori.

Fra i suoi tanti adoratori troneggiavano Vittorio Emanuele II e Luciani, finito a Santo Stefano. Il primo ha dovuto scorpacciare dalle risa. Il suo ministro gli domandava tutto serio la sua opinione sulla fidanzata che stava per diventare la di lui moglie. Il re smascellava dalle risa.

Il grande re trovava buffa la sua interrogazione. Hanno finito per convellere dalle risa tutti e due.

Il Luciani per la Rattazzi è stato un romanzo. Fu un abbraccio che le prese il cuore. La Rattazzi non lo ha mai dimenticato. Galeottizzato a vita ella gli ha fatto pervenire un mensile che è durato fino alla sua morte e ha aiutato la madre e la sorella del complice principale nell'assassinio di Raffaele Sonzogno, uomo veramente sfortunato. Con una coltura politica da mangiare molti dei suoi contemporanei, con uno stile superiore allo stile dei giornalisti del suo tempo, altamente fiero della sua morale pubblica e privata è stato accoppato da sicari volgari, mentre era al tavolino della Capitale a scrivere l'articolo di fondo.

Senz'accorgermi dimenticavo Urbano Rattazzi. Prima di Aspromonte egli era presidente della camera subalpina. Caduto Ricasoli, Vittorio Emanuele lo ha incaricato di formare la nuova amministrazione. A quei tempi era così lungo e pallido che qualcuno lo ha paragonato a una vecchia guaina raggrinzita. Impopolare, ha cercato di ingraziarsi Garibaldi. Prima della catastrofe il generale è uscito dal gabinetto convinto che il presidente del consiglio lo lasciasse fare. Ma poche settimane dopo il Rattazzi era un altr'uomo. Per salvarsi dai voti della demagogia fece nascere il famigerato «centro di sinistra», composto di anfibi Si era votato alla ipocrisia. Sconfessava, negava, ripudiava. Garibaldi accorso a Genova a presiedere alla riunione dei 400 delegati dei comitati di provvedimento, usciva dall'edificio pedinato. Urbano Rattazzi aveva assunto la maschera del ministro italiano. Non era più che un poliziotto. Il generale, alloggiato a Trescore per una cura balneare, si vide arrestar di notte il colonnello Cattabeni, l'eroe di Caiazzo, come complice dei ladri della banca Parodi a Brescia, mettere sotto chiave Nullo e Ambiveri. A Sarnico e nei dintorni si compiono delle razzie. Si ammanettano più di cento giovani côlti senz'armi. Notate che Garibaldi era allora deputato e che poco prima aveva regalato il reame a Vittorio Emanuele. Questo sproposito di essere generoso e leale cogli ingenerosi e gli sleali ha fatto dire a Proudhon parole scortesi sul generale. Non lo ha capito. Il generale non ha mai voluto fare da . Egli è andato dappertutto con la bandiera di Vittorio Emanuele. Ha voluto l'Italia unita e monarchica. Dove sentiva gridare Viva Mazzini! Garibaldi rispondeva Viva Vittorio Emanuele! Vittorio Emanuele non lo ha neanche salutato quand’egli gli ha presentato i Mille divenuti delle migliaia lungo la campagna di liberazione e si accomiatava dai suoi con il famoso sacco di castagne. Doveva conoscerlo. Era un re irriconoscente. Doveva serbargli rancore per tanta ingratitudine. Ma Garibaldi era senza fiele. Non c'era mercato nelle sue vittorie. Anche le sue collere non duravano più della tempesta. A Brescia il popolo domandava a grandi grida la scarcerazione dei cento arrestati. La truppa regia ha fatto fuoco sulla folla e ne ha ammazzati e feriti un numero discreto. Garibaldi che non aveva in testa che «O Roma o morte» ha messo pace. Non ha avuto che qualche parola indignata. È a Catania ch'egli scoppia, ma scoppia contro Napoleone III. È stata un'irruzione di lava cerebrale incandescente.

Non appena in Palermo si è rovesciato sul protettore del papa. «Popolo di Palermo! il padrone della Francia, il traditore del 2 dicembre, colui che versò il sangue dei fratelli di Parigi, sotto il pretesto di tutelare la persona del pontefice, di tutelare la religione, il cattolicismo, occupa Roma. — Menzogna, menzogna! Egli è mosso da libidine, da rapina, da sete infame di impero; egli è il primo che alimenta il brigantaggio. Egli si è fatto capo di briganti, di assassini. Popolo del Vespro, popolo del '60, bisogna che Napoleone sgombri Roma. Se è necessario si faccia un nuovo Vespro — 15 luglio 1862. G. Garibaldi».

La monarchia è rimasta vile. Ha fatto perseguitare i garibaldini. Ha denunciato il loro duce come un ribelle. Napoleone aveva telegrafato. «Dov'è la mia bandiera (a Roma), sono io e la Francia: Ed io non posso soffrire che siano tutti oltraggiati dai vituperii che Garibaldi ci scaglia nei suoi proclami insurrezionali».

Vittorio Emanuele non si è fatto aspettare. «Ogni appello che non è il suo, è un appello alla ribellione, alla guerra civile. La responsabilità ed il rigore delle leggi cadranno su coloro che non ascolteranno le mie parole. Re acclamato dalla Nazione (quale modestia!), conosco i miei doveri. Saprò conservare integra la dignità della Corona e del Parlamento, ecc.».

L'Isola di Sicilia, secondo il solito sistema italiano, è stata subito posta in istato d'assedio. Garibaldi non ha perduta la sua fede. Egli ha dichiarato in un momento in cui lui e i suoi non erano più che ribelli, che egli era con Vittorio Emanuele. «Noi siamo col Re e noi siamo tutti col Re a fare l'Italia». Egli associava la monarchia con la rivoluzione.

Il piano dei palermitani era di ammucchiare sui piroscafi i garibaldini e farli filare senza un minuto di indugio e non fermarsi che su qualche spiaggia vicina a Roma. Ma il generale ha preferito la Calabria.

Egli si è avviato coi suoi, dopo aver udito il Te Deum in una chiesa. Questa contraddizione è spiegata da queste parole del Guerzoni: «A compiere la tragicommedia degli equivoci, non mancava più che preti cattolici in chiesa cattolica, benedicessero a Dio per la caduta del potere temporale».

Il concentramento delle camicie rosse è avvenuto nel bosco della Ficuzza, a, poche miglia dalla capitale dell'isola. Il suo ordine del giorno conteneva queste parole «Fatiche, disagi, pericoli sono le solite mie promesse: e quelle promesse che spaventerebbero anime deboli e mercenarie, sono uno stimolo, io lo so, per i coraggiosi uomini che mi accompagnano». E via con la bandiera «Italia e Vittorio Emanuele, o Roma o morte».

Io non ho spazio che per il riassunto. Le forze garibaldine da Catania, sono sbarcate a Melito, in Calabria. Per evitare i dodici battaglioni di fanteria e di bersaglieri regi, Garibaldi ha spinto i suoi fino ad Aspromonte.

Era seguito. L'incarico lo ha avuto il colonnello dei bersaglieri Pallavicino. I Garibaldini erano considerati dalla truppa regia per dei malfattori, dei ribelli, dei camorristi, dei filibustieri e dei briganti.

Il Pallavicino aveva avuto dal generale Cialdini «l'ordine di fare ogni sforzo per raggiungere Garibaldi, ed inseguirlo sempre, senza mai dargli posa, se cercasse di sfuggirgli; di attaccarlo e di distruggerlo se accettasse il combattimento». Aggiungeva che non bisognava venire a patti e non accordargli che la resa a discrezione.

L'accampamento è avvenuto la sera del 28 agosto 1862, sugli altipiani di Aspromonte, a nord ovest, nel luogo chiamato i Forestali. La colonna garibaldina era estenuata dalla fame, dalle fatiche e dalle marce lunghe e disastrose. Il quartiere generale del generale era nella stanza di una delle due casupole. La notte dal 28 al 29 fu freddissima e piovosa. Ad intervalli pioggia dirotta e venti fortissimi. Le truppe regie erano a due ore da loro. Garibaldi, per evitarle, si rimise in cammino, passando coi suoi un piccolo fiume e fermandosi in una fittissima foresta. Si videro i regi che salivano dalla parte opposta. Garibaldi non voleva combattere. Non aveva messo avamposti. Diede ordine a tutti i suoi ufficiali di non far fuoco. Egli era in piedi nel suo ampio mantello grigio chiaro, foderato di raso, rovesciato sulle spalle poderose, col canocchiale, che seguiva i movimenti dei bersaglieri e della fanteria. Intorno a lui era incominciata la gragnuola di piombo. Egli gridava, si gridava lungo le linee garibaldine: «Non fate fuoco!». I bersaglieri facevano fuoco e andavano verso le camicie rosse. Le fucilate ispessivano. Qualche garibaldino non ha saputo frenarsi e ha fatto scattare, il grilletto. Avrebbe potuto cominciare îl massacro. Non si è voluto. Tutti gli ufficiali garibaldini urlavano. Garibaldi stesso era divenuto rauco. Cessate il fuoco! Non fate fuoco! Le trombe infuriarono per la cessazione del fuoco. Non combattete! Garibaldi ferito da due palle, mentre le palle regie infittivano, si è scoperto il capo gridando ripetutamente: Viva l'Italia! Non fate fuoco! Lasciateli (i bersaglieri) avvicinare. Non fate fuoco!

I suoi ufficiali lo trasportarono e lo adagiarono sotto un albero. Il generale accese un trabucos. Non combattete, ripeteva fumando.

È stato un quarto d'ora terribile. La monarchia ringraziava il donatore di regni con le palle regie e dileggiava i vincitori col nome spregevole di garibaldineria. Il primo dei regi a farsi vivo davanti al generale è stato un imberbe luogotenente pieno di burbanza. Il generale non gli ha permesso di andare dinanzi a lui senza togliersi la spada. Era un parlamentario.

So da trent'anni e meglio assai di voi, che cosa sia la guerra; apprendete che i parlamentari non si presentano in tal guisa.

Anche agli altri ufficiali regi il generale ha fatto togliere la spada. I medici bagnavano le ferite del generale, dicendo che quella del piede era gravissima. Fu convenuto che al generale si sarebbe lasciata la spada e che il convoglio garibaldino sarebbe stato scortato da un battaglione di bersaglieri in distanza. I morti tanto da una parte che dall'altra, erano troppo pochi per occuparsene.

Si discese. Il generale venne fatto sostare ad una capanna dopo tre ore di cammino. Il Governo lo faceva viaggiare nel disagio. Giunto al Varignano il suo appartamento si riduceva ad una camera «non molto spaziosa, dalle pareti ricoperte di carte felpate, cascanti a brandelli. Per un ferito mancava di tutto. Le prime filacce sono state portate da Laura Mantegazza».

Si è venuti a sapere che l'arresto del generale Garibaldi, coincideva con l'assedio nel napoletano.

Al Varignano, come si è veduto, si mancava di tutto. La White Mario è stata al suo letto. Le signore inglesi hanno mandato al generale il chirurgo ed il letto meccanico. Poco dopo c'è stata l'amnistia! L'amnistia è il perdono sovrano. Per i prigionieri politici il perdono è un oltraggio.

Garibaldi è ritornato a Caprera.

Per noi l'importanza dell'avvenimento è che la monarchia non voleva Roma. Senza le violenze di Garibaldi, Roma sarebbe ancora papale.

È divenuta capitale d'Italia, perchè Bonaparte era in frantumi. Aveva consegnata la spada imperiale al re della Germania.

La breccia di Porta Pia rappresenta una svergognatezza italiana: la solita viltà. — Senza Sedan, senza la caduta imperiale, la figura dinastica e il potere ministeriale non avrebbero osato.

L'Italia ufficiale è stata gagliarda e prepotente quando il papa non aveva che quattro svizzeri a sua disposizione.

Aspromonte è dell'altro sangue proletario. È dell'altra gratitudine monarchica. È un'altra pagina che deve figurare nel cinquantenario della risurrezione italiana.

Sangue! sangue! sangue!




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