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Paolo Valera
Il cinquantenario

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Felice Cavallotti.

 

In cento anni di vita pubblica non c'è uomo che sia stato pianto come Felice Cavallotti. Nei cento anni sono inclusi Balzac, Victor Hugo, Zola, Castelar, Gambetta, Bismark, Manzoni, Gladstone, Verdigente celebre in tutte le case di tutti i paesi, gente che ha fatto storia, che è nella storia, che rimarrà nella storia.

Alla loro morte le penne giornalistiche non sono state quiete. Hanno adagiato i cadaveri nella prosa dell'apoteosi. Tutti loro hanno suscitato rimpianti, rincrescimenti, momenti gloriosi o epici. Ma nessuno di loro è morto nella commozione nazionale come Felice Cavallotti. Giunta la notizia ferale tutti gli occhi si sono riempiti di lagrime. In tutte le città simultaneamente si è sentito il lutto; a Palermo e a Napoli, a Roma e a Firenze, a Milano e a Torino. Si sono veduti funerali grandiosi come quelli di Victor Hugo e di Manzoni. Le moltitudini erano composte di ammiratori, di spettatori. Il carro funebre di Felice Cavallotti era seguito da tutto un popolo straziato, lagrimoso, che si disperava. Pareva che nella bara ci fosse qualche cosa di ciascuno e di tutti. Era morto il difensore di tutto un popolo, l'accusatore di tutti i ladri ministeriali, era spenta la voce alta e sdegnosa che aveva iniziato la vita parlamentare volgendosi alla destra con il dito puntato e dicendo: Coscienze inquiete, rispettate le coscienze tranquille. Dopo la sua morte, si è detto al cimitero, potevano sbucare dalla tana della loro paura i vibrioni della politica, i peculatori, i venditori di muletti, come i Crispi e i Laurenzana, ecc., ecc. Tutte le lagrime si son confuse sulla scalinata del Famedio del cimitero monumentale. Le lagrime dei socialisti e le lagrime dei repubblicani e dei democratici.

Molti sono stati giornalisti. Nessuno è stato come lui, neppure il Rochefort dei tempi imperiali. In un periodo in cui tutti erano venduti o in vendita, in cui tutti si inginocchiavano alla monarchia per delle sinecure, per delle cattedre, per delle imprese lucrose egli è stato un leone che ruggiva per la moralità di tutti. È stato lui che ha denunciato i pennivendoli stipendiati coi fondi segreti, che ha preso per il collo i Bonghi, i Torelli Violler, gli Emilio Treves, i Brenna, i Dina, gli Avanzini, i Fortis, i Papa, quando i Papa scrivevano nel Pungolo e nella Arena di Verona.

Duelli, carcere, processi, condanne, persecuzioni, sono stati i primi anni della sua vita pubblica. C'è stato un momento in cui Cavallotti e Bizzoni sono stati i d'Artagnan del giornalismo milanese. Non rifiutavano mai una sfida. Hanno sfidato tutta l'ufficialità degli ussari in un giorno. Si sono battuti tre volte in una sera. Sono loro che hanno rivelato i tripotages della Regìa cointeressata.

Alla Camera Felice Cavallotti non ha avuto uguali. Per tre anni di seguito non ha lasciato in pace il trasformismo di Depretis — il Depretis che manteneva una legione di «giornali obbrobrio», che pagava a un tanto il mese gli improperi grossolani e quotidiani degli abbietti scribi contro gli avversari del Governo. Depretis lo ha castigato facendo lavorare i suoi prefetti e facendolo lasciare sul lastrico in cinque collegi nei quali era simultaneamente candidato. Egli ha dovuto telegrafare ad un amico:

Coccapieller (scozzone) eletto, io no.

Dopo Depretis, Crispi. Lotta titanica. Egli lo ha sventrato coi saccheggi fatti alla Banca Romana, colla vendita del gran cordone dell'Annunciata a Cornelius Herz, con le truffe bancarie col mezzo dei Favilla, direttori della Banca di emissione, con l'inchiesta parlamentare dei cinque che ha fatto inorridire, con le rivelazioni sui giornalisti che il grande ministro fingeva di pagare del suo.

Dal 60 al 98 la storia è tutta piena di lui. Garibaldino, scrittore dell'Indipendente di Dumas padre, redattore della Gazzetta di Milano, collaboratore del Gazzettino Rosa, dell'Unità Italiana, del Dovere, direttore del Lombardo, difensore dei deboli, espurgatore degli ambienti, propalatore di fede nella democrazia, demolitore di tutte le corruzioni, di tutti i farabutti, di tutti i ventraiuoli di quel tempo. Tempra mirabile. Egli è stato in lotta con tutti i procuratori generali, con tutti gli assassini ministeriali. È Felice Cavallotti che ha scritto le più belle e virulente pagine su Monti e Tognetti, su Barsanti, su Oberdan, appesi dal Papa, fucilati dall'Italia e dall'Austria.

La giustizia rende ancora servigi. Ma in quei tempi era peggio di una prostituta. Non esisteva che per eseguire ordini. Potrei citare migliaia di casi portati alla Camera da Cavallotti. La polizia era così dispotica che poteva far viaggiare i galeotti da un luogo all'altro e liberarli per avere delle rivelazioni politiche e per servirsi di loro come spie e come delatori. Cito uno degli ispettori di polizia più scandalosi: Agostino Fassio che ha messo in libertà un omicidiario per delle delazioni.

Non mi occupo della vita letteraria di Felice Cavallotti: non ne ho il tempo lo spazio. mi occupo delle sue corse a Napoli e a Palermo nelle giornate colerose. Mi occupo solo della sua fine. Ce ne ricordiamo tutti. Non si risale che di tredici anni. Felice Cavallotti era di nuovo sul terreno. Il suo avversario era Ferruccio Macola, direttore della Gazzetta di Venezia e deputato alla Camera. Non ci voleva molto per provocare un uomo dalla pelle sensibile come il deputato del patto di Roma. Il Macola con il suo cinismo lo aveva provocato più d'una volta. L'ultima è stato quando lo ha chiamato «bacchifilo di Corteolona». Non c'è stato più pace. Sconsigliato non ha voluto cedere. Macola era più alto di lui. Sul terreno, la lunga spaccata in lungo braccio, gli dava il vantaggio di mezzo palmo sulla lama ed il braccio di Cavallotti.

Il resto è saputo. Alla terza ripresa la punta della spada di Macola gli ha reciso la carotide. In un minuto l'Italia intera sapeva della sua morte. Si singhiozzava nelle vie e nei ritrovi, nelle redazioni dei giornali, negli ambienti parlamentari. La gente si stringeva le mani come per consolarsi, si baciava, si abbracciava, piangeva insieme.

Cavallotti ha avuto il tempo di dire che perdonava al suo uccisore che ha voluto che il duello avvenisse col guantone per sopprimere i colpi al braccio e rendere più micidiale lo scontro. Ma il popolo non ha mai cessato di inseguire il Macola col nome di assassino.

Con la sua sepoltura il giornalismo italiano ha perduto i denti. Tutte le vigliaccherie sono rientrate nella vita pubblica, tutti i birbaccioni e i mascalzoni hanno rialzata la testa. Senza di lui si è fatto il '98. I giornali del sovversivismo sono scomparsi. La tribuna parlamentare non ha più avuto che dei ragionatori e dei calcolatori. Senza le giornate dell'ostruzionismo il sovversivismo parlamentare potrebbe essere considerato una conversazione di salotto. Nesssun deputato ha osato domandare un'inchiesta sulle stragi dei Bava Beccaris. Lo straziatore di popolo ha potuto andare e sedere nella seconda Camera indisturbato con l'elogio di sua maestà Umberto I.

Nessuno ha più fiatato sugli appannaggi reali. Nessuno incute più spavento. L'Italia moderna è il trionfo del Corriere della Sera. L'ambizione massima del giornalista e del deputato dei nostri giorni è di essere corrierista. Non c'è più elevazione professionale. Lo stipendio è tutto. Chi lo ha grosso è più rispettabile. È l'epopea del ventre. Il ventre è diventato una teoria. Non vi sono più moderati radicali repubblicani socialisti. Lo stipendio ha distrutto anche le nuances.




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