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Paolo Valera
Il cinquantenario

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Francesco D. Guerrazzi nei momenti

più venali del cinquantenario.

 

Alto, grande, formidabile. Francesco Domenico Guerrazzi è la figura più eminente fra i costruttori della vita morale pubblica del suo tempo. Egli fu una campana a stormo contro la corruzione dei giornali borgiani. Io, lettore, ho ancora nelle orecchie gli echi fragorosi del suo stile. Prosa sonora come il rame. Rompeva nel cervello con il rumore delle lastre metalliche precipitate da una scala di marmo.

La sua penna non s'è confusa. È stata senza concorrenti. Era come un ferro rovente che strisciasse sulla cote per mandare scintille e stridori. Egli non ha scritto: ha inciso. I suoi libri sono state battaglie. Egli ha avuto un culto per la verità oggi demolita dal ventre. Sincero, convinto che il documento della vita è la produzione più importante nei conflitti sociali non ha risparmiato neppure sua madre, manesca, brutale, selvaggia, feroce, ardita, poco affezionata alle cose dell'altra vita, irreligiosa, capace di prendere Cristo per la barba. Se non fosse vero che lo stile è l'uomo, bisognerebbe fare un'eccezione per Francesco Domenico Guerrazzi. È tutto lui. È lo specchio che lo riflette cerebralmente. Violento, eloquente, indipendente, incorruttibile, incapace di qualunque ipocrisia. Gli ultimi anni in cui visse Domenico Guerrazzi sono stati i più foschi, i più venali, i più turpi, i più immondi, i più livreati della livrea regia del cinquantenario. Non c'erano scrupoli. I giornalisti si erano divisi. Da una parte si voleva l'epurazione, e dall'altra la cuccagna. Puritani e immorali si contendevano il terreno in nome della purezza dei costumi, delle libertà politiche, delle coerenze parlamentari. Gli uni erano altezzosi, gli altri villani.

L'accusa più terribile dei tempi del Lanza, del Sella e del Cambray-Digny era quella di austriacante o di avere favorito in qualche modo l'Austria. Così è stato enorme il baccano fatto intorno alle lettere di Raffaele Sonzogno vendute dal Mayer (Montazio) al partito della Perseveranza. Il povero diavolo che si era messo a capo dei moralizzatori ha dovuto scomparire dalla vita pubblica, ha dovuto dare le dimissioni da deputato e da direttore della Gazzetta di Milano. I Bonghi della Perseveranza, i Fortis del Pungolo e gli Emilio Treves del Corriere di Milano non si sono contentati del suo martirio a Josephstad. Sono stati implacabili.

La galera austriaca subita da un rosso italiano non bastava. L'espiazione era insufficiente. Bisognava morire. Lo hanno lacerato, straziato, ridotto un uomo senza resistenza. Gli uomini della epurazione non lo hanno difeso. Hanno voluto essere coerenti. I Cavallotti, Mussi, i Ghinosi, i Bizzoni, i Billia, i Crispi non lo hanno difeso.

Nessun partito nel 1811 poteva inchiudere persona che fosse stato in simpatia cogli austriaci. Gli austriacanti erano abbominevoli. Nessuno poteva tollerarli. Gli uomini «vituperevoli» si cercavano nei giornali come si cercavano nel '59 nei solai e nelle cantine.

I giornalisti che avevano subìto in silenzio la perdita di Raffaele Sonzogno si sono impadroniti di Emilio Treves che si era rifugiato come redattore politico nel Corriere di Milano. Lo hanno fatto a tocchi e bocconi. Moralmente non gli hanno lasciato neppure gli occhi per vedere lo strazio che si faceva di lui. Per le vie lo si schiaffeggiava, lo si ingiuriava come un istrione del giornalismo. Nessuno voleva battersi con lui. Egli era indegno, spregevole. Era l'autore di molti articoli politici scritti sul Diavoletto di Trento, il periodico di obbrobriosa memoria che insultava i martiri italiani e inneggiava alle forche dell'Austria e sulla Gazzetta di Milano dell'arciduca Massimiliano, diretta dal Menini. Molti testimoni, molte dichiarazioni collettive. Egli era un morto che camminava, un uomo che doveva perire, che doveva uscire dal partito conservatore che aveva assassinato il Sonzogno e voleva salvare il cav. Emilio Treves. La vendetta di Enrico Montazio, condannato come scroccone più di una volta ed ex redattore di quella Gazzetta d'Italia che aveva vilipeso le glorie più pure d'Italia, del Montazio che aveva venduto le lettere di Sonzogno ai moderati milanesi a peso d'oro doveva esser scontata con la testa di chi aveva nutrito i giornali austriaci del proprio entusiasmo pel terrorismo austriaco. Felice Cavallotti è stato il più inesorabile. Egli ha detto in grassetto che nessuno poteva avere questioni d'onore con Treves. Egli e tutti i «perduti» potevano darsi il lusso di mettere tutte le sere sotto i piedi le ingiurie degli avanzi imperiali e delle regie livree, lordi ancora del fango e della bava in cui si arrotolavano ai piedi dell'austriaco». Egli aggiungeva che la livrea dell'austriaco non poteva essere — in nessun caso — la divisa di nessun partito. L'Austria era della peste antinazionale. L'imperatore non aveva sottomesso l'Ungheria e l'Italia che con le forche.

Non si capirà mai la lotta cavallottiana se non risalendo ai suoi primi anni professionali. Era fin d'allora un epuratore. Non voleva che il giornalismo fosse un asilo o un rifugio agli uomini di fama pregiudicata — agli individui che avevano pecche da farsi perdonare o bassi livori a cui dar sfogo o agl'industriali che trattassero la professione come una pura e semplice speculazione o come un mezzo per vendere la propria opinione al miglior offerente. Egli voleva i «precedenti» dei giornalisti. No, signori moderati, voi non potete assumere arie dignitose, austere, morali, senza liberarvi delle persone indegne che parlano di incorruttibilità delle opinioni. Eh, che diavolo! Si son visti i Mistrali, i Pancrazi, i Montazio scrivere articoli splendidi di forma sulla necessità di moralizzare i costumi politici, ma non era che della prostituzione.

È stata una campagna non mai veduta. Tutti gli austriacanti erano trascinati alla sbarra della stampa incorrotta. Si sono messi alla berlina l'ex i. r. ciambellano conte Bembo, rappresentante di Venezia, il signor marchese Uberto Pallavicini, il signor Angelo Villa Pernice, deputato di un collegio di Lecco, tutti firmatari degli infami e scellerati indirizzi dei febbraio 1853 a Radetzki, in cui lo si applaudiva e lo si ringraziava di avere fatto provvidamente penzolare dalle forche i nostri poveri martiri. È stata un'esumazione di tutte le vigliaccherie compiute dagli uomini che componevano la maggioranza dell'Italia della cuccagna. Erano tempi tristi. I governanti non avevano pietà per alcuno. Con lo sbruffo ai rettili della stampa e il bavaglio a coloro che non volevano vendersi compivano stragi. Il Richetti, per esempio, ministro della guerra, ha fatto inviare tutti i sotto ufficiali implicati nell'affare Barsanti, assolti alle Assise di Piacenza, alle compagnie di punizioni di Rocca d'Anfo, dei Lido di Venezia e di Finestrelle, dopo averli, naturalmente, fatti degradare e dichiarati indegni di appartenere «alla famiglia onorata come quella dell'esercito!». E chi era Richetti che faceva tanto lusso di aggettivi illustrativi militari? Un infame del cinquantenario. Era colui che aveva dato l'ordine in iscritto al maggiore De Villata, di compiere le inaudite e feroci esecuzioni a Fantina. Egli vi ha fatto trucidare i garibaldini di Trassello.

I tempi erano così turgidi di vigliaccheria, così pieni di sangue e di orrore che si è veduto l'autore dell'Assedio di Firenze e della Battaglia di Benevento discendere dal suo piedestallo e andare fra gli scavezzacolli, tra i perduti, fra gli uomini alle prese con tutto il canagliume giornalistico e assumere il posto di combattente come uno di venti anni. È lui che ha denunciato le sessantanove fucilazioni compiute qua e là per l'Italia in pochi mesi, che ha denunciato la inaudita vigliaccheria di avere processato a Ravenna 800 persone firmatarie di una protesta per la loro esclusione dal ruolo degli elettori. Fu lui che ha sguinzagliato la sua collera contro i miserabili che avevano assassinato Barsanti — imperitura infamia della monarchia — lui che per la sua campagna morale si è veduto dai livornesi lasciato in fondo all'urna per eleggere, indovinate chi? Pietro Bastogi. «Ah! se avessi potuto presagire mai che le fortune patrie dovessero riuscire a questo, innanzi di scrivere e di parlare avrei consentito che altri mi mozzasse la lingua e le mani. Che oceano di viltà! Che diluvio d'infamia!». E poi vedeva la stupidità dei governanti, la viltà di una setta scellerata e trionfante, la illuvie dei mediocri, che nati al remo presero la penna.

La pubblica coscienza ha accusato il Bastogi della corruttela per l'accollo delle ferrovie meridionali con mezzi turpi e Livorno lo ha eletto. E sapete chi era il Bastogi? Un banchiere che prestava il denaro a usura al granduca di Toscana perchè continuasse a forare i petti dei livornesi col piombo.

Era il banchiere che speculava sul sangue dei sudditi vittimizzati dalla tirannia. Era colui che ha cercato dopo con una sommetta di tre borse di studio di farsi perdonare i «precedenti», ma la storia non può perdonarglieli, come non può perdonarli ai Susani, ai Cambray-Digny, ai Brenna, ai Pancrazi, ai Levi, ai Mistrali, ai Montazi, ai Fambri e a tutta l'altra colluvie umana passata alla fogna. Il Mistrali, giornalista fognoso, in un giorno in cui la sua svergognatezza gli impediva di vedersi nei bassi fondi giornalistici, ha osato sfidare Maurizio Quadrio. L'intemerato giornalista mazziniano, di solito così buono e così tollerante, si è trovato come davanti a un rospo. Si è alzato, lo ha preso per il sedere, lo ha tenuto in aria e poi lo ha buttato fuori dell'uscio come un sacco di immondizia.

E dopo una requisitoria rimasta immortale, l'uomo che aveva subìto, prima dell'Italia unita, 60 mesi nel Mastio di Volterra e alle Murate di Firenze, passati in stanze anguste, rozze e nude, come prigioniero di Stato e che ha dovuto subire anche lui, come Garibaldi, l'amnistia del tiranno, ha ripetuto che per lui la repubblica «era l'unico e più giusto dei governi». E dicendo questo faceva sfilare tutti i voltafaccia del suo tempo che da repubblicani erano diventati monarchici arrabbiati, deputati della consorteria e votanti in favore di tutti i ministeri.

Ci vorrebbe un volume per riassumere le rampogne guerrazziane. A me basta di avere additato che nel periodo della pioggia fangosa un uomo possente come Domenico Guerrazzi era in piedi a scagliare i suoi fulmini contro la canaglia possentissima che imperava con gli assassini e la corruzione.




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