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Ippolito Nievo Antiafrodisiaco per l'amor platonico IntraText CT - Lettura del testo |
Non fatevi caso se esordisco di botto con un miracolo; perché si vocifera che Mastro Gionata Beccafichi sia nato, e balzato fuori bello e vestito da una cazzaruola di fagioli cotti. Ma questa è una ciarla della gente — quello che è storico si è, che egli vide la luce in casa di Mastro Macario Professore di Gastronomia, detto volgarmente Cuoco. Ch'egli poi sia nato colle qualità fisiche, e morali sviluppate, e perfezionate potete crederlo in coscienza, perché lo asserisce egli stesso; anzi aggiunge che appena sbucato dall'alvo materno sdrucciolò dal letto sul pavimento, e vi compose uno stupendo balletto con gran battimani per parte degli astanti. Debole preludio dei successi incredibili che dovevano sposarlo a Tersicore.
Io mi maraviglio come suo padre reso non lo abbia un oggetto di speculazione facendolo ballare sui trivii come le scimmie, e le marmotte: ma fu forse, perché egli studiando, e perfezionando nei domestici lari le sue proprietà sbalordisse il mondo tutto in un colpo; e diffatti lo sbalordì come si può vedere in appresso.
A due anni egli recitava il Canto di Ugolino con tutto il terrorismo di Gustavo Modena; a due e mezzo suonava il flauto, e la chitarra ad un tratto; a tre predicava latino come Cicerone. Non parlo del leggere e scrivere, poiché tali cose erano in lui infuse dallo Spirito Santo, anzi io ritengo ch'egli legesse ad alta voce, prima di far capolino al finestrello del mondo, perché sua madre nel tempo di sua gravidanza si lamentava d'uno strano mormorio nelle budelle. Solo non so spiegare da quale apertura ricevesse la luce, e da quale biblioteca i libri. Ma questi sono problemi da darsi a risolvere agli ostretici, che ne hanno risolti dei più curiosi con una sorprendente disinvoltura.
Verso i sette anni il nostro Gionata risolse di gettarsi nei vortici della vita pubblica; a tal effetto chiese a Mastro Macario quaranta soldi, ed una bissacciata di crostini di pane, e s'incamminò a muso duro verso la piazza. Dietro via egli diede un guasto spaventevole alle sue munizioni da bocca; per cui sentendo nello stomaco un certo vuoto, negoziò da un mercante allo svoltare d'una via due soldi di mele cotte, e vi diede dentro con tutti i denti, e tutta l'allegria dell'uomo libero. Dopo due minuti vediamo il nostro Gionata, addossato ad un pilastro della piazza, co' suoi trent'otto soldi in una mano, ed una mela cotta nell'altra. Non mi pare di avervi accennato ch'egli fosse filosofo, ma ve lo sarete immaginato senza alcun dubbio. Nella sua qualità di scioperato si mise ad osservare per davanti, e per didietro tutti gli straccioni, e tutte le loro Signorie che gli camminavano avanti. Ne distinse uno fra gli altri abbastanza lustro, impettito e attillato per fermare la sua attenzione. Gli esaminò il cappello, e non ebbe di che ridire; discese alla pezzuola, e giudicò che le sarebbe andata bene una buona stretta di più. Calò al giubbetto!...
Oh qui il nostro critico fu scandalizzato, e arricciò il naso: — Cosa ci hanno da fare tutti quei ritagli, quelle cuciture diritte, e storte che gli solcano la schiena? Ah secolo buffone, secolo arlecchino che non sai fare altro, che buffonate, ed arlechinnate! — Nostra Mamma Eva adoprò ella l'ago, e la forbice per coprirsi?... E che sì ch'ella doveva comparire al cospetto di Domeneddio! — Così egli favellò in cuor suo, e per la prima volta in sua vita si rammentò di aver esso pure un giubbetto. Se lo cavò bellamente senza tanti rispetti umani, e sedutosi sulle calcagna, lo posò sulle ginocchia per osservarlo con più comodo. Tornò a vedere tutte quelle maledette commettiture che gli avevano scaldato tanto la bile sul dorso del gentiluomo, e nella sua indegnazione lo avrebbe certamente stracciato... se non fosse stato di Dicembre. S'affacciò indiavolato al banco d'un Mercante, e spese trenta soldi in tre braccia di percallo sulle quali meditò profondamente come archittetare un abito senza nemmeno puntarvi un ago.
Avete mai letto di Archimede quando dopo i calcoli più sublimi, e maledetti levò la testa, si sfregolò le mani, e corse per Siracusa gridando: ho trovato? — Lo stesso successe dopo cinque, o sei ore di concentrazione del nostro Gionata!... ché la scoperta era ben più importante per l'umanità. La stoffa era riquadra! — Tanto meglio; col suo temperino vi aperse un foro nel mezzo per la testa, e due ai lati per le braccia, e poi allacciatisi i due capi fra mezzo alle gambe ripigliò la sua corsa per le strade, e pei vicoli gridando: ho trovato! — Ma dietro una cantonata egli trovò davvero loro Signorie gli Sbirri, i quali se lo tirarono in braccio, e lo portarono in trionfo fino dal Commissario di Polizia. Il quale decretò che il celebre giubbetto fosse appeso all'Accademia di belle Arti, e l'abile Artista mandato tantosto alla Casa di Ricovero.
Dietro viaggio Mastro Gionata burattava tali pensieri: — Cosa andava sofisticando quel buon uomo di mio padre delle insidie, e delle male accoglienze del mondo? — se io con sì breve fatica ho messo in entusiasmo la forza armata, e mi sono procurato una fama nei giornali, ed un alloggio di bando? gratis? E burattava altri pensieri ancora quando la forza armata lo depose nel cortile della Casa, ove due vecchi spiritati lo spogliarono in camicia, e gli indossarono un certo vestone caffè e latte che lo faceva assomigliare a S. Rocco. Credette tale l'usanza, e quello fosse come il manto di cui si avvolgevano nei trionfi i generali Romani; per la qualcosa fece due, tre giri pel cortile pavoneggiandosi, e strascinando senza economia i lembi della zimara. Era a metà della sua trionfale passeggiata quando gli si spalancò una porta di fianco, e ne sboccò un torrente di giovinetti, tanto arrabbiati che l'urto del primo lo buttò per terra, e gli fece andar in broda una mela cotta che gli rimaneva nella tasca dei calzoni. Quei buoni capi vedendogli uscire quella broda di sotto la veste, gli si sfilarono d'intorno, e cominciarono a congratularsi secolui della sua anti-stitichezza in termini poco fragranti, massimamente pel rampollo di Mastro Macario Dottor Gastronomico. Ma non c'era rimedio, e fu d'uopo ingozzare tutti i complimenti di quei ragazzacci, che si contentarono di graffiargli un po' il naso in pena della sua poca creanza. Finalmente il povero paziente rimasto libero adocchiò di sghembo la porta d'uscita alquanto socchiusa, e si mise a galoppare verso quella tanto veloce, che il portinajo arrivò a serrarla quando egli era già fuori, e non acchiappò che un'ala del vestito, e un lato dei calzoni. Quando riapersero l'uscio il diavoletto era scomparso, e non ci fu verso di stanarlo; non ci fu verso di poterlo scoprire, né da lontano, né da vicino, né per terra, né per aria! Indovinate mo' dov'egli s'era ficcato? Sotto le sottane d'una specie d'Amazzone che rivendeva cavoli di faccia allo Stabilimento e che ben volentieri gli offerse un inviolabile asilo in mezzo alle coscie. Sull'imbrunire egli uscì tutto aromatizzato dal suo luogo di salvazione, e dopo mille ringraziamenti alla sua protettrice che gli regalò quattro castagne lessate, ei s'avviò verso casa fregando dietro il muro il lato scoperto del suo deretano. Montò le scale nel mentre che sua madre era lì lì per essere strangolata dalla mano destra di Mastro Macario. Immaginatevi come fu beata la buona donna di vederlo arrivare, massime quando il soave marito abbandonò il suo collo per abbracciare, e bacciazzare il piccolo Gionata. E questi dopo i baci, e gli abbracciamenti cavò di tasca gli otto soldi che gli eran rimasti, e poi additando con la sinistra il naso, e colla destra il deretano fece chiaramente capire, come in grazia dei trentadue soldi che aveva spesi ambedue quei siti abbisognassero di qualche riparazione. E la provvida Mamma gli unse il naso con del burro fresco, e gli tirò su per le gambe un pajo di pantaloni del consorte, assicurandoglieli sotto le ascelle in modo, da rendere inutile la presenza del giustacuore.
Ma intanto il povero Gionata restava meditabondo, ed ozioso perché aveva veduto svanire le sue prime illusioni; e stette meditabondo, ed ozioso dieci anni filati, più tre mesi, e due giorni sempre accosciato nella sua poltrona; d'inverno accanto al fuoco, e d'estate davanti alla finestra. Finalmente quella voce che chiamò il Battista nel deserto, ed Ezechiello nel Camposanto, chiamò anche il nostro Gionata dalla sua poltrona. Forse non fu precisamente la stessa, potrebbe anche essere stata la voce dello stomaco, perché essendo morto suo padre da due anni, e sua madre da due giorni le cazzaruole erano vuote. Comunque la sia, egli pensò quello che da dieci anni avea dimenticato cioè che per mangiare bisogna darsi qualche briga. Frugò nella cassa di sua madre e vi trovò due lire, e quattro cedole del Lotto. S'incappucciò in un cappellone su cui erano scritte a caratteri cubitali tutte le glorie paterne, e colla canna in mano uscì dalla sua casa, come Lazzaro dal Sepolcro: più la canna - il cappello - e le due lire - che quel povero Ebreo non aveva portato seco, credendo di non doverne aver bisogno per un pezzo.
Il nostro uomo se la passò una giornata come un Cavallier di ventura, e così per prendere un'idea della carità de' suoi simili dimandava l'elemosina a tutti quanti. L'impresa fu tanto proficua che alla sera si trovò aver ricevuto tre soldi, una pagnotta secca, e due calci nel culo. Ora mentre che seduto sui gradini d'una porta computava quanto egli ricavava da ciascun piede nel didietro, quattro dilettanti di buontempo che girovagavano per far ridere la gente, vestiti con certi stracci arabeschi che facevan pietà, principiarono le loro capriole accompagnandole con sberleffi tanto spiritosi che in breve ebbero accalcata intorno la schiuma dei cialtroni della Contrada.
Gionata che aveva una propensione straordinaria pel loro mestiere interruppe i suoi conteggi, montò ritto sul gradino, e si diede a fare tali atti e tanti versacci che si cattivò alla fine l'attenzione del più vicino delli spettatori: questi diè di gomito al vicino, e così via via, finché tutti, attirati forse dalla maggior novità dello spettacolo, voltarono il viso a Gionata, e la parte opposta ai quattro ciarlatani. Gionata non fu da meno dell'aspettativa, perché oltre che egli aveva un talento straordinario per ragghiar come l'Asino sapea fare mill'altre belle cose che stordirono tanto gli astanti che sempre più spalancavano la bocca, e sbarravano gli occhi. I quattro miseri derelitti dall'altro canto adunarono una specie di Congresso di Vienna. Il primo che aveva fatto il boia consigliò di strozzare un concorrente sì fortunato — il secondo che era una spia propose di denunciarlo alla Polizia — il terzo ch'era un nipote di Macchiavelli fu per l'avvelenamento — e l'ultimo che era un ex-gesuita gridò loro ch'erano pazzi, e disse invece che bisognava affigliarlo alla compagnia. L'ultimo partito come più utile, e prudente prevalse, e il nostro Gionata entrò per quinto in così onesta comitiva.
Vi fece una degna comparsa, e ne divenne il capo, e la nobilitò siffattamente, che dalle strade passarono alle scene, e Dio sa dove sarebbero iti se i quattro compagni non lo avessero piantato rubandogli ogni peculio, e tutti gli effetti meno la chitarra.
Egli aveva allora vent'anni, e la chitarra. — Cosa gli mancava? — Nient'altro che una moglie! — e la moglie ei la trovò una sera al chiaro di Luna, andando a diporto in una parte deserta della Città. Se la condusse chetamente a casa, e l'indomani la trasse in Chiesa, e gli sponsali furono celebrati in piena regola, e Donna Bettonica ebbe il diritto di aggiungere come coda al suo prenome il casato di Beccafichi.
Immaginatevi quanta felicità gustasse il cuore amoroso di Gionata, mentre la mano coglieva quelle rose d'amore che mandano un profumo tanto soave! — Tanto più che le rose della Signora Bettonica non erano bottoncini appena sbucciati, o semiaperti, ma rose belle, e buone, colle loro foglie spalancate, ed esalanti tale fragranza da inebbriare dieci nasi alla volta! — Perché Gionata avea sposato una donnetta come si deve, una vedovella che sapeva il suo conto, e non una di quelle colombine scipite che non distinguono il bene dal male!
La chitarra, e la moglie gli apprestarono il pranzo, e la cena per lunga pezza; ma un genio terribile compariva a quando a quando sulla musica carriera del nostro genio tanto mellifluo, e gli intralciava il passo! — Chi era quel genio importuno? Napoleone Bonaparte, il quale colla melodia de' suoi cannoni superava tanto spesso gli accordi delle chitarre che questi alla fine perdettero il credito. Allora Gionata si levò in piedi. Gettò la sua chitarra in quel luogo ove Arrio ha vuotato l'Anima, e presente Donna Bettonica sul sepolcro del suo caro istrumento giurò in nome dei Santi di non più toccare chitarra. Donna Bettonica all'udir tali parole si stracciò le vesti dalla disperazione. Ma Mastro Gionata fu irremovibile assai meglio del Re Assuero - anzi veggendo tanti leggiadri ufficialetti passeggiar su, e giù vestiti di rosso, di verde, e di giallo, s'invogliò di fare un'eguale comparsa, e tanto si adoprò, e tanto brigò che finalmente lo impiegarono in una Cancelleria militare come tiralinee - ed egli tutto vanaglorioso colla testa ritta, e colla destra sull'elsa del suo palosso si tirava dietro a braccetto Madonna Bettonica vestita all'Ateniese a spese degli Ufficiali Francesi.
Ma Messer Napoleone Bonaparte se n'andò assai peggiormente che non era venuto, e un altro Messere venne a seguitar l'opera sua, vale a dire a dissanguare i poveri padri nostri. E Gionata non fu niente contento d'un tal cambiamento, perché egli era entusiasta di Napoleone, e dei pezzi da 20 Franchi de' suoi Ufficiali. Però colla pace tornarono a rifiorire le Arti belle, e siccome sapete ch'egli le coltivava tutte dalla prima all'ultima, così poté sguazzarla allegramente colla cara metà sino allo spuntar dell'anno 1848. Si dice anzi ch'egli sapesse buon grado, e fosse gratissimo (e tale si mostrasse più in opere che in parole) a quei cari Signori che a furia di Congressi son riusciti a far quello che non avevan potuto fare a furia di Cannonate.
In questi trentatré anni Mastro Gionata era stato un camaleonte, egli era stato: I: Commesso d'un giojelliere che lo teneva occupato nel ripulire le lampade di bottega; II: Factotum d'una libreria in cui sbatteva i volumi dalla polvere; III: Quarto dei terzi flauti nell'Orchestra d'una Compagnia di Cavallerizzi; IV: Primo sarto dei facchini di dogana; V: Ballerino grottesco nel palco dei Burattini; VI: Aiutante d'un Ingegnere che lo impiegava nel misurare la ghiaia; VII: Fornaciajo, ed inventore di pietre galleggianti; VIII: Architteto di pollaj; IX: e finalmente Incisore ad acqua forte, Professor di disegno, ed Architetto in majuscolo.
In questa qualità egli insegnava a disegnare delle figurine alla Signora Ottavia, ed ad abbozzare dei pilastri al Signor Anonimo. Dal contesto di questa storia si vedrà poi com'egli sapesse combinare con questa professione, altre occupazioni passeggiere che contribuirono non poco a renderlo illustre. Nel principiar dell'anno di grazia mille ottocento quarant'otto noi lo troviamo nel terzo piano d'una casa alloggiato sopra la ganza d'un avvocato, e d'un Commissario di Pulizia. Un pancia tonda, e soda è il punto culminante della sua persona. Superiormente ad essa si diparte un torso piramidale che finisce in una testa conica, e grigia, il tutto all'altezza di quattro piedi e mezzo, e nella suddetta testa sono incastrati due occhietti, ed un nasino da falcone, ed una bocca a labbro sottile che si contorce per tutti i lati. Due belle gole di grascia servono di festoni sotto il mento a così bell'apparato. Inferiormente le gambe seguono il medesimo processo — cioè vanno a finire a cono discendente in due piedi piccoli, e grassotti come quelli d'un abate.
Caratterizzato l'individuo guardiamo di vestirlo, e incamuffarlo alla meglio. Per conservare il ritratto somigliante gli attortiglieremo il collo con un fazzoletto di seta nera che finisca sul davanti in un gruppo microscopico. Gli insaccheremo le gambe in un paio di calzoni ristretti alla noce del piede, ed abbondantissimi alla cintura — gli faremo imbracciare un panciotto color cioccolatte assettato al collo, e comodissimo sul ventre, e un robone di panno uliva colla schiena cortissima, e le ali fin sotto il ginocchio. Lo pianteremo in un paio di stivali di vitello foggiati a punta — gli metteremo due scatole da tabacco in mano, ed un cappello alla Metterniche sulla cima, ed ecco il vero facsimile di Mastro Gionata Beccafichi Professor di Disegno — il quale Mastro Gionata insegnava il disegno a Madamigella Ottavia, e le faceva tali discorsi.