Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText |
Ippolito Nievo Antiafrodisiaco per l'amor platonico IntraText CT - Lettura del testo |
Dopo la rivoluzione
Ora, io Signor Incognito qui presente verso la fine dell'anno mi trovava ancora essere come Gesù nel deserto, meno il Demonio che almeno visibilmente non mi credette degno della sua compagnia. Ma io non ebbi l'Eroismo di nostro Signore per durarvi quaranta giorni, e fui violentemente tentato di tornar fra i viventi allo spuntare del vigesimo quarto. Si festeggiava il Santo Natale, e le campane erano frenetiche per annunciare la milleottocentoquarantottesima Nascita di nostro Signore, quando io m'avviai verso la strada maestra. Giuntovi non gettai propriamente il cappello all'aria per dirigere la mia gita a seconda del vento, come i tre fratelli della leggenda dei Tre Aranci, ma mi arrestai su due piedi per deliberare, come si conviene ad ogni uomo assennato. E in capo a mezzo minuto aveva deliberato tutto, perché fortunatamente non mi si presentava che un partito cui appigliarmi, ed era — di farmi spettatore immediato delle gioje amorose del nostro Anonimo come fino allora ne era stato corrispondente per lettere.
Al primo paese che incontrai, vedendo qualche bella ragazzetta che stretta nel suo velo bianco si affrettava alla Chiesa, mi assalse uno scrupolo singolare di non assistere alle tre messe di obbligo per ogni devoto Cristiano. Entrai in Chiesa, ed il devoto sesso femminino fu talmente edificato del mio fervore, che si rivolgeva ogni momento per ammirarmi. Confortato dagli affetti spirituali proseguii più allegro il cammino, e ne pervenni alla meta che era sera tarda. Anonimo non c'era — ov'era egli? Ah! sarebbe propriamente un insulto il dirvelo, perché voi sogghignate maliziosamente. Ma io non sogghignai punto, e non feci neppur la prova di sorridere perché mi fu d'uopo passar la sera in una vicina famiglia ad un tavolo di Campana, e Martello ove i serii interessi del giuoco vietavano l'allegria, e fin le parole oziose. Alla fin dei conti me ne andai a letto infuriatissimo perché la fortuna m'aveva bersagliato per quattro ore, ed aveva perduto quasi dieci soldi.
Mi sognava ancora del pari, e del dispari, quando mi svegliai perché Anonimo mi tirava le gambe. Nel vederlo ogni malumore andò in fumo, perché la sola sua presenza metteva l'allegria. Dormire sotto il tetto che raccoglie le emanazioni della propria bella! — ah questa è cosa tale, che farebbe cascar per terra dalla consolazione anche un ubriaco.
E Anonimo prese la parola in questo modo: «Tu già morirai della voglia di conoscere la mia Ottavia — dunque corriamo subito a vederla» ed in meno d'un'ora egli era ai piedi della sua Dulcinea, ed è dietro l'uscio che li contemplava invidiosamente.
E non soltanto contemplai la Signora Ottavia, ma vidi la Signora Egiva ed ammirai Madamigella Morosina; e feci in breve conoscenza con tutto il resto della famiglia.
Quel giorno (per disgrazia) i miei occhi avevano ciò che si disse il guardafisso, e mai non mi riescì di staccarli dalla Morosina. Appena fummo partiti mi accorsi di un secondo malanno, perché avendo fatto una colazione piuttosto pesante mi batteva il cuore, e mi brucciava lo stomaco. Anonimo m'addomandò, come m'eran piacciute le tre ragazze, ed io risposi con un certo miscuglio di frasi incoerenti, perché le due malattie sopradette m'inciampavano la lingua. Tornando a casa, benché avessi annunciato fin dalla mattina ad Anonimo che sarei partito lo stesso dì, pure mi guardai bene dal ripetere la stessa cosa, perché quei sintomi di malattia mi facevano temere un qualche strano accidente per viaggio.
La notte mi sognai di molte cose — e per incidenza della Signora Morosina; il giorno dietro mulinai molti pensieri, e per caso pensai molto alla Signora Morosina; il dopo pranzo m'intrattenni a lungo con Anonimo, e (guardate che fatalità!) — egli intuonava Ottavia, ed io rispondeva Morosina. Egli terminò coll'assicurarmi che mi avrebbe fatto innamorare. Bella bravura in verità, fare quello che è fatto!
Siamo al capo d'anno. Tutta la famiglia di Anonimo era invitata a desinare a casa del Signor Filostrato, ed io credetti una mala creanza il rifiutarmi alla compagnia. Prima di porsi a tavola si trinciarono molti bei discorsoni di politica; ma mentre le labbra si affaccendavano delle cose pubbliche, gli occhi trattavano delle private. Era tanto sbalordito che dovunque mi volgessi vedeva una Morosina, cosicché, mi sembrava di vederne tre, o quattro, ed era un fenomeno curiosissimo di ottica... morale. La Signora Morosina rideva sempre — ma le Morosine che si moltiplicavano dinnanzi a me non ridevano punto, e mi vibravano certe occhiate supplichevoli che moveano a pietà; ed io fui commosso a segno, che dovetti ritirarmi nel cortile per distornare alquanto le mie illusioni. Ma il cortile era vasto, e se prima le Morosine erano tre, o quattro, in quello ne vidi a migliaia. Mi parea persino d'essere diventato una Morosina anch'io, ed andava dicendo a me stesso delle coserelle così tenere, che avrebbero innamorato i sassi; ed io che non era un sasso mi innamorai: benché, per dire il vero, dopo avermi ben bene stropicciato gli occhi, trovassi la Morosina di carne un po' differente dalle altre Morosine che corteggiavano la mia fantasia. Ma non ebbi tempo di costruire il parallelo perché la minestra era in tavola.
L'appettito aveva squagliato le illusioni ed a pranzo la mia attenzione fu egualmente ripartita fra la Morosina che aveva a diritta, e le vivande che mi si porgevano a sinistra.
Maledetta l'abitudine di bere acqua schietta! La mia dama servita ne ingollava a bicchierate, e dovendo ripiegarmi su lei per farle da coppiere m'imbatteva sempre ne' suoi ginocchi, e finiva col versargliene qualche goccia sulle mani. E allora conveniva scusarsi. Ma io arrossiva, e le mie scuse erano balbettamenti lambiccati senza capo, né coda.
Provava dentro di me un tal ardore che credo sarà stato più fresco San Lorenzo sulla graticola — ma come il medesimo Santo mi pareva di giacer mollemente in un letto di rose.
In pochi giorni l'amicizia fu fatta, ed io seguitava co' miei sospiri repressi e le mie occhiate alla sfuggita. La Signora Egiva disse in tutta confidenza a sua sorella primogenita che il mio sguardo era molto compassionevole, e la Morosina si mise a ridere, perché se n'era già accorta.
La Domenica seguente Messer Filostrato e famiglia vennero alla casa di Anonimo, e passammo con esso loro una bella giornata. La Signora Ottavia amava tanto svisceratamente il suo Anonimo, ch'ella volea mostrare una prova d'affezione fino al suo cortile, e gli diede col didietro un bacio tanto sonoro, che tutti si misero le mani in testa per paura d'un terremuoto.
Sull'ore calde, indorate da un bel sol di Italia, saltammo in una barchetta che attraverso i fossi delle risaje, ci menò ad una vicina fattoria. Non so capire come non si sieno ancor proibiti gli ombrelli in certe circostanze! Quella volta per esempio il Sole era proprio rimpetto alla Morosina, ed ella dovette per convenienza tenersi l'ombrello davanti gli occhi, sicché dei tre soli che m'illuminavano, non restò a me che il più buffone. Scusate la metafora un po' arcadica!
Una vita così romantica si prolungò per tre settimane, ed io non diceva di andarmene. Ci abbisognava una causa più che efficace per tormi al mondo della Luna, e la causa non mancò.
Vi ricordate di quel viaggietto combinato con Anonimo? — ebbene, come suol essere dei progetti anche quello svanì, perché Anonimo per impreviste circostanze non potea essermi compagno, ed io gli dichiarai che avrei fatto la mia parte istessamente, e che sarei partito alla metà di Gennajo. Ora toccavamo la fine di quel mese ed il viaggietto era ancora una Chimera. Voglio darvi un avvertimento. Se avete qualche piano, non esternatelo per carità a chicchessia, perché il raccontarlo è come una certa promessa di porlo ad effetto, mentre gli impegni presi col proprio cervello si possono infrangere, o riaccomodare a piacimento.
Una mattina dunque che nevicava a falde larghe, come la mia mano, io mi congiunsi le mani dietro la schiena, e dissi ad Anonimo: partirò ai ventinove del mese! - ed eravamo ai venticinque - e quando il fioccar della neve ebbe tregua, montammo il calesse, e senza tirar le redini, il cavallo più accurato di noi condusse Anonimo a baciar la sua Ottavia, e l'Incognito a cantar l'Ave Maris Stella a Madama Morosina. Nota bene che avevamo con noi un bastarduccio cagnolino inglese che si chiamava Bortolo.
Annunciai perentoriamente alle Signore la mia vicina partenza; e Bortolo se ne addiede perché, dopo averla loro annunciata mi si cacciò nel capo un profondo umor nero che si risolse in una pioggia dirotta di bastonate sulla sua povera pelle. Ma cosa volete? nella mia disperazione non avrei rispettato, nonché un cane, nemmeno un Lord inglese, foss'egli anche l'allaccia calzetta della Regina Vittoria. Quello che è storia si è che a Bortolo dispiacque assaissimo la mia partenza, e più il modo con cui gliene comunicai la notizia ufficiale, mentre la Morosina sorrise secondo il solito, e mi volse le spalle... Ah!!! ma questo era un manifesto segno d'amore, poiché le ragazze innamorate sogliono essere facili al rossore, e per conseguenza facilissime a volgere le spalle. La cosa è chiara, e lampante. Ma in quel momento non ebbi il genio d'interpretarla, ed appiccai all'invece discorso con Donna Ribobola, aja di casa, magra, e storta come si può esserlo, e col Messer Acefalo fattore di campagna, piccolo, grasso, e acceso in viso come ogni buon gastaldo. Il discorso fu animatissimo, e gravido di belle osservazioni per me, poiché si mormorava che il cuor peloso di Messer Acefalo, e l'anima magra, e storta di Donna Ribobola fossero legati teneramente dal roseo laccio d'amore. Fortunati loro che non sanno che sia l'amor platonico, e si attengono al positivo! poiché cos'è finalmente l'uomo? — Carne, ed ossa — cos'è dunque l'amore? — Domandatelo a loro che ve lo spiegheranno a dovere.
Non so come fosse, la sera ci dimenticammo Bortolo in casa delle ospiti, le quali n'ebbero tutte le cure immaginabili come ei ben meritava. Ma la mattina esse fecero un conciliabolo per regolare la sua sorte futura, e fu adottata all'unanimità la mozione della Signora Ottavia di farlo latore per noi d'un invito a pranzo pel giorno susseguente. Vidimato il progetto dai capi di famiglia, acchiapparono Messer lo cane, e in mancanza di portafogli gli attaccarono il dispaccio nel sito più acconcio, vale a dire sotto la coda. A quanti ministri senza portafoglio si potrebbe fare lo stesso, poiché di coda ne hanno venti braccia! Finalmente il povero Bortolo fu cacciato a furia di graziose legnate fuori dalla porta. Fortunate loro che non erano dell'anno mille ottocento cinquanta, e che gli abbaiamenti inglesi di Ser Bortolo non giunsero alle orecchie di qualche Console Brittanico, altrimenti una flotta sarebbe accorsa a vendicare l'insulto fatto alla Regina del Regno Unito nella persona d'un suo suddito, e quel ch'è peggio a farselo pagare in contanti. Ma Bortolo si vendicò da se solo, e fece una terribile guerra di rappresaglia a un branco di polli d'India che si pavoneggiavano coi loro ventagli nell'ortaglia vicina.
Nei panni di Ser Cane ogni viaggiatore moderno avrebbe consultato la bussola per orientarsi, ma egli segui una tattica totalmente opposta. Fiutò i ciglioni della strada, e bisogna dire che noi avessimo lasciato dalla sera scorsa una distinta fragranza in quel sito, perch'egli indovinò tostamente la nostra direzione. Due ore dopo noi eravamo occupati a staccare delicatamente il dispaccio dalla sua celletta, e a fare in ispirito i nostri ringraziamenti alle Signore, dimenticando il povero Bortolo che se li aveva guadagnati con tanta fatica.
Ma anche quel domani fortunato diventò un ieri, e giungemmo alla sera del sabbato. Si fece la solita passeggiata, ed io diceva in mio cuore: — Ah Morosina Morosina! e gli orecchi mi ripetevano: Morosina Morosina — e fin le case, gli alberi, fino i buoi, e le capre che incontrava, pareva mi ripetessero Morosina, Morosina! — Solo il mio cervello ardì mormorare una volta: Ah Incognito, Incognito! — ma io respinsi i suoi rimproveri come inopportuni, e seguitai come Geremia, col mio Ierusalem, Ierusalem!
Ierusalem, Ierusalem convertere ad Dominum Deum tuum! Ah Morosina, Morosina fa buona ciera al tuo... cosa devo dire, se per lei mi sarei accontentato d'essere l'umilissimo servitore? Ah Morosina, Morosina, cosa non farei io per te! anziché gettarmi nelle vicissitudini, nelle peripezie d'un viaggio in così rotta stagione, preferirei venirti a prendere con un mansueto asinello, e poi vorrei che andassimo a paro a paro fino a qualche innocente colonia d'Arcadia, ove passeremmo i mesi, e gli anni divisi perfettamente tra le dolcezze del nostro amore, e le dolcezze della polenta, e latte. Alto là, alto là! mi gridava quell'insulso prurito della Ragione! e la testa mi cadeva allora sul petto che pareva un impiccato. Mi domandate cosa feci quella sera? — Guardai la Morosina, — e la notte? — Dormii saporitissimamente, e questo lo sostengo anche a dispetto di quelli che pretendono ch'io l'abbia passata pensando a Lei.