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Ippolito Nievo
Antiafrodisiaco per l'amor platonico

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Comincia l'Odissea

dell'Incognito

 

Si balza di letto alle sei: i denti battono dalla fame, e dal freddo — si rimedia a questi due inconvenienti con una sola ricetta — con una buona colazione; si attacca il cavallo, e si parte.

Indovinate cosa successe pel viaggio: quello che avevamo preveduto, e sperato — un incontro colle Signore, che uscivano dalla Chiesa d'un paesotto, ove avevano deposto le loro agonie a' piedi del Crocifisso; e convien dire che la Morosina avesse deposto anche l'affanno per la mia partenza, perché la trovai vispa, e gaja! — L'imbarazzo, ed il freddo impigliavano la mia eloquenza per cui lasciai la parte attiva della conversazione ad Anonimo e me la cavai con tre profondi inchini.

Tirammo innanzi; fu questo il viaggio più allegro per non dire pazzo tra me, ed Anonimo — per cui mi confermai nel paradosso, che le disgrazie amorose aprono in me una inesauribile vena di buon umore. Anonimo imprecava alla fortuna che gl'impediva di venire con me, io malediva alla sorte che mi sbalestrava chi sa dove, e mai non furono registrate nel zibaldone del diavolo bestemmie più comiche, e di più buona grazia. Anonimo non sapeva ancora un'acca della passione amorosa che mi rodeva le viscere, ed io me la aveva quasi dimenticata.

Ad un pranzetto che ci imbandì un oste al luogo di nostra separazione, io era l'uomo più felice del mondo, ed aveva collocato tutta la mia compiacenza in un bel pollo arrostito che mangiai da me solo. Che felicità possedere, ed avere nella pancia tutta la compiacenza! — È vero che la digestione in seguito la fa svaporare! — E così fu di me, come vedrete fra poco. Ci baciammo, ci ribaciammo, ci femmo mille promesse, si riattaccò il cavallo, e Anonimo tornò addietro, ed io bevetti un caffè.

Dopo quel caffè incomincia il primo capitolo della mia Odissea. Incomincia la Tragedia dell'amor mio, che ora è pieno, ora mezzo, ed ora un quarto a un dipresso come la Luna.

Il caffè irrita i nervi, e precipita la digestione — questa fu la prima peripezia del mio viaggio, poiché la memoria della Morosina si riebbe della prima sconfitta, e rinforzò acerbamente attraverso il fumo d'uno zigaro che mi sognai d'accendere per la mia ultima rovina. Corpo di mille diavoli! sclamai — non posso vivere senza di lei! — e un mio conoscente di quel paese mi sfidò a sei partite al bigliardo, e dopo la seconda aveva scoperto che si potea vivere discretamente anche giocando al bigliardo. Colsi il momento favorevole, e partii. — Guardate la disdetta! — M'imbarcai col mio baule in un cassettone che per una bizzarra ironia si chiamava una carozza. Era tanto sepolto in quella specie di catafalco mobile che io non vedeva che il cielo, e non sentiva che i sussulti delle mie povere ossa che mi rendevano un conto esatto del numero dei sassolini su cui sdrucciolavano le ruote. Mi sdrajai al colmo dell'avvilimento sulla pancaccia della vettura, e andava pensando: — O quanto era più felice seduto su una buona scranna immerso nella contemplazione della mia incomparabile Morosina, e delle rispettive sue smorfiette! Poiché in quella botte assai peggiore di quella di Diogene io la giudicai insuperabile! Ma il vetturino mi pregò a mezza la via di permettere che una sua nipote sedesse con me sino ad un paese vicino, ed io così come un automa ammiccai di sì. Montò una ragazzotta — l'automa non tardò molto a stabilire un paragone fra essa, e la Morosina, e concluse che ai giorni passati la Morosina era bellissima, incomparabile, e che al giorno d'allora era più incomparabile di Lei la mia compagna di viaggio.

E l'incessante sobbalzar delle molle mi faceva cascar sopra di Lei. Come era morbida! — era una qualità codesta che non aveva ancora esplorata nella Morosina. Ad una scossa più forte fui tanto spaventato che la presi per mano. Insomma in capo a mezz'ora scopersi in quella ragazzetta sette, od otto virtù che erano per lo meno dubbiose assai nella mia Morosina. — Grazie Signore — a rivederla — Buon viaggio! mi disse con una vocina d'angelo, e pensai a lei per tre quarti d'ora, ma a poco a poco la sua faccia rosea e pienotta si cambiò in un visino pallido, ed ovale, le sue mani rotondette si profilarono, i suoi denti (bisogna che lo dica ad onor del vero) diventarono più piccoli, ma meno bianchi, e la figura della Morosina prese il suo posto.

era il punto per decidere la gran questione fra il Classico, ed il Romantico, fra il viso sentimentale della Morosina, e le guancie grassotte della mia nuova conoscente. Ma io non era giudice competente, perché come dissi, la memoria della Morosina tornava ad assassinarmi. In qual modo? — con qual incantesimo? neppur ella lo sa, ma lo so però io, e non lo voglio dire perché gli è un incantesimo tanto stupido da dar la fama di stupido anche a me che mi ci son lasciato accalappiare. Tutto ad un tratto il calesse s'arrestò, e un omaccio rosso e bernoccoluto s'appresentò allo sportello facendo udire un certo mugolio da cane di guardia che volea dire — Il passaporto! — Il passaporto! o cosa angelica, e veramente celestiale che gli è il passaporto! — invenzione celestiale per loro Signorie Illustrissime i Poliziotti che ne convertono il ricavato in tanto lardo di peso per la loro trippacelestiale, e divina per i birbanti che sotto la sua salvaguardia hanno il diritto di essere creduti galantuominicelestiale pei gabellieri che ci trovano sempre una qualche irregolarità regolarizzabile mediante un pajo di lire.

Dopo sì cospicui vantaggi chi bada mai se il passaporto è un incomodo pei poveri viaggiatori! — poiché a vero dire il passaporto li mette tutti anima e corpo in arbitrio della Polizia, e sapete ch'ella usa assai liberamente de' suoi raccomandati. Sporsi il mio passaporto, e il buon uomo rosso, e bernoccoluto mi fece qualche difficoltà. Io per risparmiare le due lire stimai opportuno di montar sulle furie — e mi riscaldai in modo che dimenticai me stesso, la Morosina, e fino il diritto di qualche Maestà che io violai in quel degno funzionario, dandogli uno scappellotto. Come succede agli sventati dovetti pagare le due lire — più un vistoso compenso per l'insulto fatto all'impiegato, e proseguii il mio viaggio in compagnia del Signor Din-Don che impiegava dieci ore al giorno di tavoletta per sottrare dieci anni alla sua fisonomia.

Questo scioperato Signor Din-Don col suo continuo din-don di scempiaggini, e di frivolezze lambiccate mi annojò tanto che per divertire le mie forze mentali stimai buon alleato anche il dolore. E qual dolore più fiero per me che il rammentarmi della Morosina! e il pensare che forse non l'avrei vista per un pezzo! e il pensiero della Morosina scacciò le cattive impressioni prodottemi dall'avventura del passaporto, e dal cicaleccio del Signor Din-Don.

Ferma vetturino! — ferma!

— Cosa c'è cosa c'è! va fuori la ruota?

— Altro che ruota, altro che ruota! Allegria! Viva questo, viva quello! C'è, c'è, e poi c'è... Indovinate cosa c'era? C'era una notizia che mi fece diventar mezzo matto, una notizia per la quale avrei regalato due Morosine per uno a tutti i bimani di questo mondo — fu una notizia in breve che io non voglio dire, ma che era bella, e bella, e poi bella assai.

Addio, Morosina! Qual fibra del mio cervello si commosse allora per te? Qual goccia del mio sangue conservò il fuoco dell'amore, che un'ora prima lo faceva ribollire nelle vene?

Mi consacrai corpo, ed anima all'allegrezza di quella buona novella, e per goderla con più comodo mi diedi a considerarla sotto tutti i punti di vista. La diveniva sempre più bella, ed io seguitai a farle cambiar banda! Bestia ch'io fui! non sapeva che ogni cosa buona di quaggiù ha un confine! — Pensai che doppiamente io sarei stato contento versando in un cuor sensibile la piena della mia gioja.

Questo fu il punto di vista che bastò a far andar in fumo la splendidezza degli altri. Qui cominciai il solito ritornello: Ah Morosina, Morosina! — E il torrente che le altre volte s'era limitato alle minaccie questa volta straripò! — per cui afferrai una penna, e scrissi in tutta furia ad Anonimo — che io era per morire, e che amava la Morosina!

Mi domanderete perché attesi a dichiararmi in un momento tanto critico, e vi risponderò che più facilmente si ottengono le Indulgenze in articulo mortis. Quella lettera fu come un condotto per cui svaporarono i fumi del mio cervello.

La gettai nel buco della posta, come gettassi la mia vita, e tornai all'Albergo, ove vegliava di sentinella il Signor Din-Don il quale mi spifferò così su due piedi una vaghissima tiritera di sciocchezze alla moda.

— Vuole che facciamo quattro passi?

— Facciamo pure.

Era una giornata superba di quelle tali giornate che compensano gl'Italiani di tutti i loro malanni. Il bel mondo della città era uscito dalle stuffe in abitino attillato per pigliare un po' d'aria — presso a poco come un abito che si sbatte dal pepe, e dalla canfora, e si stende al sole per salvarlo dal tarlo e dalla muffa. Mille Signorine vestite di seta sbucavano dalle cantonate, e spazzavano le strade colle loro code di seta. I miei occhi diradarono la nebbia della concentrazione, e finirono col perdersi dietro le fantastiche loro gambe. Sarebbe possibile ch'io amassi il genere per la specie e viceversa? Le gambe quinquagenarie dell'elegantissimo Signor Din-Don sudavano nel tener dietro alle mie, e il povero diavolo era trafelato in maniera che non potea più dir parola. Alla fine m'afferrò risolutamente pel gabbano, e si mise a scampanare a disteso che quasi me lo strappava.

Allora era per l'appunto immerso nella contemplazione d'una brunetta grassoccia dagli occhi celesti che spuntava da un portico, e il cadere dalla soave adorazione della beltà al muso imbellettato del Signor Din-Don fu per me come la caduta di Lucifero. Mi rivolsi ancora verso la bella, e la bella era scomparsa, mi voltai tutto stupefatto verso il Signor Din-Don ed il Signor Din-Don per mia ultima malora, era sempre li con due occhi ispaventati, e supplichevoli, e col mio gabbano stretto fra le due mani. Mi lasciai commovere dall'attitudine compassionevole del suo viso, e lo rimorchiai passo passo fino a casa, piena la testa delle celesti, e terrene fantasie che m'avevano inspirato le houris del passeggio. E sognai tanto, e sognai tanto, che alla fine m'addormentai, e nel sonno i sogni cambiarono affatto registro. Mi pareva che la Morosina pallida, e severa rimproverasse al mio pensiero la sua infedeltà. La sua voce era tanto flebile, e moribonda, che le mie orecchie rintronavano ancora de' suoi gemiti quando m'alzai. La prima mia parola fu: al diavolo i sogni, e la seconda: Portatemi da colazione! Ma questa ricetta valevole per tante malattie valse assai mediocremente per la mia, ed io rimasi coi rimproveri della mia Morosina fitti in cuore come tanti chiodi d'acciajo. In tal momento solenne scrissi una lettera ad Anonimo significandogli il mio testamento, e pregandolo di significare alla Morosina ch'essa era quella che mi rimetteva alle mani caritatevoli del prete, e del Notajo.

Immaginate cosa disse Anonimo al ricevere la mia prima lettera, e peggio poi la seconda. Si narra ch'egli non abbia detto nulla per la sorpresa, che si abbia morsicate le unghie per la consolazione, e che sia corso di trotto dalle Signore a perorare la mia causa. Certamente poi egli mi rispose con un piego tutto odoroso di fiori amorosi, e di acqua di muschio.

Io consegnava alla cameriera dell'Albergo un capo che abbisognava di bucato, quando il portalettere me lo rimise. Quella lettera capitata in quel punto mi fece l'effetto d'un soavissimo emetico. Mi sconvolse lo stomaco, e risposi ad Anonimo che le sue buone speranze m'avevano spinto a piedi nel culo fino al colmo della felicità.

Io era giunto finalmente al termine del mio viaggio, e la strada montagnosa che si percorreva, l'aria pura de' monti, le belle vedute, m'avevano tratto fuori dal mondo. E poi che cosa non si dimentica arrivando in una città abitata da migliaia di statue, dove gli artisti, ed i geni profusero le loro ispirazioni, dove dieci secoli sudarono per innalzar templi, e palagi! — Qual potenza umana può incatenarti quaggiù, quando un quadro di Raffaello t'invita al Paradiso? — Quando i monumenti delle glorie antiche della patria fanno rissonar nel tuo cuore quel sentimento che soffoca tutti gli altri?

Cosa siete voi Ottavie, Egive, e Morosine davanti a tutto ciò? Grani di polvere vivente! — suscitatrici di affetti ciechi, e irragionevoli! — Cedete cedete il campo alle sublimità del genio che ci trasportano in quello spazio di meraviglie ch'essi hanno creato! — Affetti grandi, ed infiniti son questi, che voi non sapete ispirare, perché uno scipito sorriso, una smorfia melliflua non può paragonarsi alla impronta, che il genio imprime per l'eternità nelle opere sue! — Io vi lascio quel Signor Din-Don che mi annoiava tanto colle sue puerilità, vi lascio i mille altri che sprecano il fuoco che li tien vivi nell'ammirazione della mediocrità! Una statua Greca, un capo-lavoro di Canova è cento volte più apprezzabile di voi! — Immagini son esse di quelle Silfidi eteree che si beano sempre di se stesse nella spiritualità della loro esistenza, mentre voi pretese vergini divine, mangiate, e bevete, e vi abbassate a tutti gli atti prosaici, e naturali d'un facchino di piazza.

Frammezzo alle statue di Canova ed ai quadri di Raffaello incontrai un mio compagno di Collegio, che si annojava classicamente. Dopo le accoglienze oneste e liete gliene domandai la cagione, ed ei mi rispose in questi termini.

«Tu sei un pazzo maledetto, a immaginarti che ciò che ti piace oggi ti debba piacere domani! Anch'io volava in estasi la prima volta che feci conoscenza con tutti questi Signori di pietra, e di tela, ma dopo averli passati in rivista dieci volte, e trenta cominciai a sospettare che fosse una seccaggine l'incontrarsi sempre con un Bacco che ride eternamente, con un Apollo che gratta sempre la cetra senza cavarne pure uno strillo, con una Maddalena che non si consola mai, con una Leda che tenendo voluttuosamente, e continuamente il suo cigno sotto del manto è un sarcasmo scolpito contro la brevità de' nostri piaceri — e sbadigliai! — Guai a chi fa il primo passo! — dopo quel giorno ebbi la sfacciataggine di sbadigliare sul muso a tutti questi Signori di pietra, e di tela, che dal canto loro si mostrarono insensibili ad una sì incivile dimostrazione: - Movimento, ci vuole, movimento! Due discreti occhietti, e due manine d'una crestaja vagliono assai meglio delle occhiaje senza pupille, e delle mani agghiacciate di tutte le belle statue di questo mondo».

Ed io lo motteggiai, ma venti giorni dopo, mi trovai perfettamente d'accordo con lui, poiché mi stancai di conversare con gente senz'anima; e per trovar sul fatto uno che mi rispondesse, mi diedi a conversar con me stesso — e di pensiero in pensiero rinculai fino all'epoca della mia partenza da casa, e mi trovai in faccia all'inevitabile Morosina — e in conseguenza vergai un'altra lettera piagnolosa per Anonimo, in cui mi spacciava per bello, e morto.

E siccome mi si disse che pei morti in una vicina città v'era un famoso Campo Santo — così per questa, e per molte altre ragioni mi affrettai ad andarvi.

Messomi in viaggio con una buona compagnia d'amici vi arrivai più vivo che mai, ed in tutta quella giornata non si fece che ridere delle cose ridicole, e delle cose serie di questo mondo.

L'indomani si passeggiava qua, e , e andando a zonzo si sbirciava per le finestre, dove faceano capolino certi visetti fatti apposta per innamorare. Ad un finestrone d'una modesta casa scopersi una bella giovinetta dagli occhi, e dai capelli neri, snella, e bianca come un angelo. Guardai lei, e per conseguenza la casa, e decisi che sarei stato fortunatissimo se potessi procurarmi in quella un quartiere. Come in risposta alla mia intenzione era appesa ad un'imposta la scrittaCamere ammobigliate. Battei le mani, guadagnai a salti la scala, e all'indomani io era accasato nella mia nuova dimora.

Vi sono certi giorni che passano veloci come il lampo, ma che lasciano una traccia indelebile nella memoria, e nel cuore. E tal fu il primo mese ch'io passai in quella casa benedetta! — La primavera cominciava ad inghirlandarsi di viole, ed io era come un gardellino nella sua gabbia che è sempre vispo e saltellante, e pare non si accorge della sua prigionia!

E qui come vincere la mia vergogna nell'incastrare questo secondo amore nella storia del primo! — poiché di chi volete che prigioniero io mi fossi, se non del bell'Angelo che mi aveva ammaliato dalla finestra?

Cosa volete? mi scuserò colle parole di Messer Dante Allighieri - perché io aveva portato meco di quel d'Adamo - ed in che abbondante dose! — Figuratevi la Signora Fanny che avesse in sé qualche cosa di quel di Eva, e poi fatene le necessarie deduzioni. A vantaggi tanto palpabili non poté resistere l'impalpabilissimo amore che aveva recato meco dal paese natio, e benché qualche lettera di Anonimo gettasse un rimorso nel torrente delle mie voluttà, io credo per altro che ciò non fosse che un piacevole diversivo, poiché gli era come un sasso intorno a cui le onde del torrente gorgogliavano più rigogliose e spumanti. Ma la disgrazia che pesò allora sulla mia povera patria compunse il mio cuore traviato nel labirinto delle terrestri felicità, ed una fosca malinconia mi travagliava dalla mattina alla sera.

— Siccome un buon sentimento risveglia in noi tutto ciò che vi resta di buono — così l'amor platonico in quell'emergente riprese il disopra, e diede a quella malinconia un colore tanto minaccioso, che per salvarmi dal languore a cui m'aveva condotto una dolorosa contrazione di quasi due mesi, dovetti ricorrere a mezzi violenti. — Vane scuse d'un amore colpevole! — dirà taluno — ma pure il fatto è tal quale ve lo narro.

E uno dei mezzi più violenti, fu l'inebbriarmi nei blandi abbracciamenti della soave fanciulla, che altre volte aveva ammaliato i miei sensi, e che morria della voglia di ammaliarmeli ancora! — Annegai nella sensualità ogni mia angoscia, e se questo si chiama abbrutimento, io vi giuro che non fu mai abbrutimento più beato del mio.

Indovinate quanto durò questa faccenda? Più di due mesi, e non finì più se non per dar luogo ad un'altra peggiore di molto. Perché stanco dei godimenti materiali, sognai di nobilitare me stesso con una fiamma pura, e sublime, e il saltare di colpo alla intuizione della Morosina essendo uno sbalzo incompatibile col mio spirito sensualizzato cominciai a far d'occhiolino alla Signora Angiolina che abitava dirimpetto alla mia camera. E le cose andarono tanto in regola che dopo due giorni giurai di amarla eternamente; cosa che mi ricorderò scrupolosamente di eseguire giunto ch'io sia nell'eternità.

Così mollemente barcheggiandomi fra Angiolina, e Fanny come una gondola fra due dolcissimi flutti, ora era sospinto verso il puro ideale della poesia ed ora verso il furore divampante della realtà.

L'anima, ed il corpo si saziavano d'ogni beatitudine, ed il pensiero spettatore delle loro contentezze esclamava: Io ho sciolto il problema! — si può esser felici in questo mondo un mese e mezzo! Ma il giorno dopo non potei aggiungervi un giorno di più, perché io calpestai indegnamente il letto di rose su cui riposava la mia felicità!

Io inclino a credere che l'uomo si stanchi d'esser contento — poiché una mattina che il portalettere mi porse un piego, io lo afferrai come se da quello fosse dipenduta ogni mia fortuna. Eppure io non mancava di nulla! Miracolo di Dio! Era Attilio che mi rispondeva tardamente ad una mia di due mesi addietro — egli mi mandava con tutta la possibile venerazione una ciocca di capelli della mia adorabile beltà, e quel virgineo pegno d'amore riuscì tanto nuovo a' miei sguardi avvezzi a pascersi delle cose meno ideali ch'essi mi ruotavano nelle orbite come due girandole. Miserabile! dissi a me stesso — e non sai tu comprendere la purezza d'una passione? Il mio amor proprio si mise in capo di comprenderla per forza — e vi riuscii tanto bene che dopo pochissimo tempo rinvenni nel mio cuore un cantoncino fatto apposta per l'amor platonico, e per la mia Morosina, e da quel cantoncino nelle ore notturne sbucciavano a migliaia le amorose idee consolatrici de' miei sonni. Del resto nelle ore diurne non era cresciuto, né calato, il corso degli affari, e per un capriccio venutomi così per sorpresa, non avea voluto abbandonare le vecchie mie conoscenze.

Che giorni deliziosi eran quelli! — Essi succedevansi l'un l'altro colla monotonia della contentezza, uguali e beati!

Mi ricorderò lungo tempo d'un viaggietto fatto colla mia innamorata e col suo gentile Papà. Il prudentissimo uomo aveva noleggiato una vettura mezzo coperta capace di tre persone e sedeva in mezzo fra me, e la Fanny tenendo superbamente in mano le redini del più magro rozzone che abbia mai strascinato carretto. Ma i mantelli che ne impacciavano molto lo costrinsero dopo due miglia a collocarsi in sul davanti, e noi due accosciati petto contro petto ce la intendevamo tanto bene per di dietro alle sue spalle, che mi vengono ancora le orecchie calde a pensarvi. E alla sera smontammo ad un bel paesetto, ove si dormì saporitamente, così almeno assicurava il buon Papà, poiché io e la Fanny non diremmo altrettanto sulla tema di dire bugia.

Quante graziose passeggiate non si fecero in venti giardini sopra verdeggianti colline! — quante salite sopra poggi aerei incoronati da folti cespugli, ove il caro vecchio non poteva salire perché pativa di asma! E come noi lo consigliavamo premurosamente di non moversi troppo per non guastarsi la salute!

Indi arrivati in una città, ove le arti hanno eternato se stesse, come faceva io osservare alla mia bella quelle care ispirazioni del genio che ogn'anima amante non può disconoscere! — e com'ella beveva ingordamente le mie parole, e come s'animava la sua pupilla all'amorosa vivacità de' miei gesti, e come arrossavano sopratutto d'un fuoco di voluttà le sue guancie quando le mie labbra nella solitaria cameretta dell'Albergo si piegavano verso di essa, mentre il Papà era in chiesa ad ascoltare la Messa! — O benedetta la devozione! O benedetta la mia Fanny dai baci di fuoco! O benedetta la mia Angelina dalle occhiate sentimentali! — O benedetta la mia Morosina così dolce, e lusinghiera nel vapore ondeggiante dei sogni! — O com'è soave l'amor platonico dopo cinque minuti di amore strettamente terreno! Ma prima, chi volete che creda al platonismo dell'amore in questo secolo corrotto, in cui unici ritegni alle brutali passioni sono tre bottoncini di osso appiccati con un filo di seta! — Io no certo mio Dio! — e se ci credo, ci credo esclusivamente in certi momenti nei quali le passioni fiaccate non osano ancora rialzar il capo! — Ma in que' tempi di cui parla la mia istoria ci credeva meno di adesso.

Alla mattina fumando il mio zigaro con tutto il buon umore possibile dava una lezione di Calligrafia alla cara Fanny la quale, lo confesso, di queste robe ne sapeva meno d'una gallina; e a quella Lezione quante lezioncine accessorie andavano unite! Quante volte mi toccava riaccendere il zigaro che per distrazione aveva lasciato spegnere sul tavolo!

Poi si passeggiava, si desinava allegramente, si leggeva, — si passeggiava ancora, — e alla sera si faceva una partita cogli amici bevendone un bicchiere del buono, e con pochi soldi; sul far della notte la vocina tremolante dell'Angelina m'inchiodava sotto una persiana verde per più d'un'ora — e mi faceva presentire in parte il sentimento spirituale, e sublime che coloriva i sogni delle mie notti, divinizzati sempre dalla presenza dell'incomparabile Morosina.

Bisogna essere di stucco, oppure essere un critico inesorabile per non intendere le celestiali attrattive d'una tal vita, massime per ciò che riguarda le lezioni di Calligrafia... poiché mi si concederà che lo insegnare agli ignoranti è un'opera di misericordia, e non può che fruttare soddisfazione, e contento alla nostra coscienza. Quanto alla parte più prosaica, cioè alle passeggiate, al pranzo, e alle conferenze cogli amici, oh quanto sareste felici se aveste conosciuto al pari di me il terribile Polifemo, terribile vuotatore delle nostre caraffe, e l'irascibilissimo Andrea, che da buono e cristiano Lombardo giuocava alla mora masticando bestemmie, e il burlevole Maso, eloquentissimo ostiere che ripeteva dieci volte una cosa per imprimerla bene nella testa come un Maestro di Ginnasio — e l'onorevole Giacometto Mastro Pentolajo dei più classici dei dintorni, e mille altri che vagliono certo assai, ma che sommati insieme non varrebbero neppur una coscia del primo, neppur un'unghia del secondo! Del resto essi erano solazzevoli compagnoni; e molte risate si diedero alle spalle dei buoni terrazzani di que' paesi che vivono alla moda de' nostri bisnonni, colla Madonna Addolorata da un lato, l'Acquasanta dall'altro, e col Rosario in mano.

Anonimo (ci s'intende bene), di tratto in tratto scriveva delle lettere patetiche, ed amorose come quelle di S. Paolo, ove mi dimostrava coll'algebra, colla logica, e col calcolo sublime che doveva correre prestamente a piedi dalla bella Morosina per gustare una felicità, diceva egli, che appena trovasi in Paradiso, — ma io mi ricordava il caso di Fetonte, e non mi sentiva per nulla disposto a lasciare i beni di questa terra per spaziar sulle nubi! per cui gli rispondeva: — Piangosospiro — son disperato — no; anzi rido, spero, volo nei campi della speranza! — Cose incongruenti a prima vista, ma congruentissime, ove si supponga che colui che le scrive abbia il cervello in evaporazione. E Anonimo suppose così, e trovò le lettere d'un gusto assai originale.

Insomma per finirla, e per accorciarla venne il caldissimo mese d'Agosto; e a certi medici che avevano un'illimitata autorità in quei paesi parve bene ch'io avessi bisogno di respirar l'aria natia. Me lo consigliarono dapprima, e trovandomi ricalcitrante, aggiunsero ai consigli alcuni eccitanti formulati in modo, che io non dubitai punto, che sarebbero passati ai mezzi più violenti e proprij dell'arte per la mia guarigione, se me la prendeva più a lungo su per le dita.

Pensando a quei giorni mi vengono ancora le lagrime agli occhi, massime se son seduto presso ad un camino che m'affumichi gli occhi, come ora che scrivo. Io scappava qua, e pel paese da quei medici spiritati che volevano guarirmi a mio malgrado. Ma se m'abbatteva in un paesano, e gli chiedeva da pranzo — egli solo all'udir la mia pronuncia gridava inorridito: È un appestato! Se io entrava in una locanda, e sporgeva il mio passaporto, l'oste osservava ch'esso era scaduto, — e gridava come un indemoniato: Ha il colhera costui, ha la lebbra, fu spedito dai medici! Ed io di soppiatto me ne ritornava dalla mia Fanny, e vicino a lei mi sentiva sano come era di fatto, ed ella non aveva paura d'una malattia tanto innocente com'era la mia.

Chi mi i tetri colori del sepolcrale Ioung, per descrivere quel giorno fatale in cui presi la risoluzione di troncar una vita tanto fastidiosa, e d'allontanarmi dai siti delle mie buone avventure? Ma adesso che ci rifletto — è meglio che quei colori nessun me li dia, perché andrei a rischio di spaventare i miei pazientissimi leggitori! Perciò è meglio raccontar l'istoria asciutta, asciutta, e lasciar da banda il prestigio immaginativo.

Richiamai intorno al mio cuore tutto lo stoicismo ch'ebbi a mia disposizione; lessi una pagina sdegnosa di Jacopo Ortis, e due canti dell'Ariosto; regalai un paio di scarpe rotte al mio ciabattino per lasciar buona fama di me in quei paesi, e allungai tanto il mio collo verso la persiana verde che scoccai il primo, ed ultimo bacio sulle labbra dell'Angelina. Ciò fatto preparai il mio bagaglio, e m'assisi silenzioso al fianco della mia Fanny.

Udiva l'orologio che batteva dal taschino, e qualche singhiozzo della mia bella — ma l'orologio continuava impassibile il suo moto, e i singhiozzi invece si convertirono in un dirotto pianto. Le mie labbra furono la coppa in cui si versarono quei caldi lagrimoni d'amore, e il mio cuore palpitava con tal forza che mi strozzava la gola, cosiché ogni qualvolta volea formare una parola mi veniva all'incontro da piangere. Unica consolazione che io le potei dare fu lo stringerla fra le mie braccia! — Ma questo non fece che raddoppiare d'intensità il suo cordoglio, e render me più perplesso. Dovea io fuggire all'impensata per togliermi a uno spettacolo che avrebbe finito col metter a nudo la mia debolezza?

No - no 'l doveva, ed io no 'l feci - poiché una profonda stima, ed un vivace attaccamento era subentrato in me alla mia simpatia leggiera per quella buona ragazza.

Ristetti un poco, e ritrovando finalmente un filo di voce: — Consolati, le dissi, o mia Fanny! ti scriverò sovente! e chi sa che qualche volta il destino non mi porti ancora fra le tue braccia!

Ella mi rispose con uno sguardo pieno di riconoscenza, e d'amore — il sorriso tremolava sul suo labbro, le lagrime sul suo ciglio, e il dolore della mia partenza, e la speranza di rivedermi le toglievano al pari la parola.

Consolati! le soggiunsi, e posai un bacio sulle sue labbra, e m'involai da quella stanza, mentre ella cadeva colle mani al viso sopra un divano, premendo la bocca con un guanciale, perché le sue strida non rendessero a me più amaro il distacco!

Io partii col cuore stracciato un minuto dopo, perché il calesse mi attendeva alla porta, e giurai in mio cuore di scrivere alla Fanny e di tornare a rivederla. Così potessi io mantenere a me stesso la seconda parte del mio giuramento, come ho osservato fedelmente la prima! — Abbiti su queste carte un ultimo saluto, o la migliore delle donne che abbia mai incontrato quaggiù! — Tu hai compreso l'amore per un sacrificio, e mi hai offerto tutta te stessa! Malanno a quelle che chiaccherano d'abnegazione, e d'amore, e nell'estremo fervore dell'estasi ti domandano freddamente: Quando mi sposerai?!

Rifeci mestamente il viaggio che sette mesi prima aveva fatto col Signor Din-Don, e ove si ometta una fermata di due giorni in un cattivo albergo di montagna per la mancanza d'un visto al passaporto, un tempaccio d'inferno, e un malumore continuo, il mio viaggio fu abbastanza felice. Appena toccato il suolo natio fui d'un salto al paese d'Anonimo perché l'amicizia ch'ei m'avea dimostrato nella mia lontananza lo legava dolcemente al mio cuore; e poi (ingrato ch'io era) la Fanny cominciava a dileguarsi dal mio cuore, e vi subentrava la Morosina.

È una verità sconsolante questa, ma pure va detta! che il mio amore si regola a miglia, e che egli sente quasi sempre una propensione più decisa per la più vicina.

Mi fu detto esser Anonimo alla tesa delle quaglie — e io mi vi recai tantosto, si era impaziente di riabbracciarlo. Figuratevi s'egli rimase stupefatto di vedermi in quel luogo alle due dopo mezza notte! La sorpresa peraltro non gl'impedì di riabbracciarmi a più riprese, e di serrarmi cordialmente la mano.

— Finalmente! - egli mi disse - io ti aspettava fin da ieri come m'avevi scritto.

Io gli narrai l'incidente della irregolarità del passaporto, e dopo due minuti di silenzio, soggiunsi: — Bella davvero che per prima occupazione nella mia terra natale mi tocchi acchiappare delle quaglie.

— Se ne acchiapperemo! ei rispose dando un'occhiata al cielo burrascoso — ma pure accontentati che la seconda sarà di acchiappare un'amante!

— Cioè di abbracciar la Mamma.

— Hai ragione! tutto in regola di natura!

Vedi però che le regole di natura furono dimenticate a tuo riguardo!

Bel merito Signorino! Son proprio sulla strada postale, e non avevi che a smontare per trovarmi!

— Proprio? e poi far quattro miglia in una fanga orribile per venirti a sorprendere nella caccia delle quaglie!

Egli sorrise a questa mia appendice, e interuppe il dialogo chiedendomi qualche notizia del mio viaggio. Io gliene raccontai molte, e molte — e finalmente venuto giorno uscimmo per veder pure di cacciare in gabbia un po' di selvaggina - ma non ci fu verso - e le quaglie o non c'erano, o si beffavano di noi.

Buono per Anonimo che quella mattina la mia compagnia di cui era privo da tanto tempo gli tolse il tempo di bestemmiare per una notte spesamale!

Tornammo al paese, e la mia gioja fu al colmo trovandovi mia madre, e i miei cari fratellini, che mi erano venuti incontro. Non si usano descrivere nei racconti simili emozioni perché ogni penna maestra vi farebbe una cattivissima figura, per cui io che mi tengo assai peggiore degli altri, non mi ci proverò nemmeno. Basta il dire che mia Madre mi consigliò di non entrare per allora in città, perché l'aria era poco salubre per individui che si trovavano nel mio stato — ch'essa vi ritornò non pertanto la sera appresso — e che io, ed Anonimo ci mettemmo in viaggio verso quei platani, e quei pilastri di cui vi ho fatta la descrizione molte pagine indietro.




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