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Ippolito Nievo
Antiafrodisiaco per l'amor platonico

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II

 

Il signor Incognito

racconta la sua storiella

 

V'immaginerete certamente che in questa storiella parlerò molto di me. Ah il parlare di se è una gran tentazione! una tentazione che non si vince con tutta la grazia abituale, e straordinaria che ci somministra la nostra Santa Madre Chiesa Apostolica Romana. Parlerò dunque molto di me e pochissimo di voi, se me lo permettete, e vi racconterò delle cose molte che vi faranno ridere, o piangere a vostra scielta. Ma siccome so che voi siete un accanito partigiano di Democrito, e più ancora dell'opera Buffa, e più ancora delle Coriste dell'opera Buffa; così vi confesserò, qualmente tre anni fa io mi credessi un uomo di consigli; e spero che riderete di cuore, poiché (potete immaginarlo) io era invece uno scempiatello, com'è tutto il genere umano a sedici anni. Io ciarlava molto, perché non sapeva cosa fossero i fatti, e badava poco a quel che diceva perché non abbadava a quel che ascoltava. Vi è mai saltato in testa d'essere uno spirito forte? Quella è una gran bella idea! e mi congratulo con voi se non la vi è ancora capitata, perché una volta, o l'altra ella vi capiterà, e voi sarete perfettamente felice per una quindicina di giorni — cioè finché vi durerà quella persuasione. Ma per me quell'idea è sfumata, e convengo oramai d'essere un minchione come siete voi... zitto! altrimenti non avreste le convulsioni.

— Dunque, come vi diceva, io era persuaso d'essere un uomo di consigli ed uno spirito forte. M'incontrai in un giovane della mia età, che aveva precisamente la vostra magagna, ma in grado così sublime ch'egli dimenava non solamente le gambe, e le braccia come voi, ma la bocca, e gli occhi, e tutto il resto — il che era uno spettacolo mirabile. Povero lui che allora non aveva storiella da raccontargli! del resto egli sarebbe guarito, ed io non sarei qui a raccontarvi la sua Odissea.

Si pretende che gli estremi si tocchino, che i contrari si attraggano, e che un Re possa essere il Liberatore d'un popolo; io attribuisco a questi tre celebri assiomi il legame d'amicizia che si strinse tra me, ed Augusto1, cioè tra il Signore che ora vi parla, ed il Signore di cui poco fa vi parlava.

Chiunque però vi abbia il merito d'una tale amicizia, io ne lo ringrazio infinitamente, perché la nostra relazione è tanto stretta che dopo morti saremo certo annoverati fra le coppie indissolubili d'Amici, come Castore e Polluce. Se però in tale congiuntura ci trasformeremo in istelle, ciò non sarà certo nella Costellazione d'Amore.

— Sapete, mio bel Signore, che primo obbligo degli amici è la confidenza, e il mio dolce amico mi fece, con una tal quale ironia, una confessione generale più dolce di Lui. Per non farvi fare degli sforzi d'immaginazione che vi trarrebbero a mal partito, voglio distendervela in formis come sullo stampato, e sentirete l'acquolina in bocca. Si trattava di confidenze amorose, confidenze che si dicono segrete, e che vanno per le bocche di tutti come le sentenze di morte.

— Egli era appena uscito dagli innocenti trastulli dell'infanzia, quando mi disse, di aver guardato un po' troppo in viso una giovine signora, che a quel che pare aveva molta esperienza per la sua freschissima età. Una mattina una bocca malevole gli riferì, che la sua bella si faceva sposa, e capirete benissimo che lo sposo non era lui. Fin qui non c'è novità; ma la novità è che Augusto voleva dar le tempie contro le pareti. Egli rifletté un lampo, e dopo aver deciso che gli era meglio darla contro i guanciali, andò difilato ad augurare la felice notte alla felicissima coppia conjugata ch'era montata in carozza. Io so di seconda mano che la felice notte fruttò pel primo mese la consueta luna di miele e pel susseguente un'abbondante corona di etcetera in surrogato al serto d'Imene che cominciava ad avvizzire. Ma ciò non toglie che il povero Augusto non abbia avuto la Luna per quasi tre ore; ma siccome tre ore sono l'ottava parte d'un giorno, e un giorno la trentesima d'un mese, e un mese la dodicesima d'un anno, ed un anno (a voler darla lunga) la settantesima della vita, così egli conchiuse che non gli restava tempo da perdere, e si mise le mani in saccoccia per non più pensare al passato. Ma cosa fece egli per non pensare al passato? Pensò al futuro; e questo forse è peggio. Si ficcò in testa d'essere l'uomo più infelice, perché non aveva un bel bocchino che gli tortoreggiasse al fianco, ed una tal fissazione in tutti i giorni di maltempo gli metteva indosso la malinconia.

Bisogna certamente che vi sia un Dio. Primo: perché tutti lo hanno detto, e il gridar più di molti è un grand'impegno. Secondo: per parecchie altre ragioni. Bisogna dunque che vi sia un Dio, ed io scommetto che gli saltò il capriccio allora di divertirsi alle spalle del povero Augusto. A tale effetto non dico già ch'egli mandasse in terra l'Arcangelo Gabriello, benché non voglia negarlo; ma dico invece che gl'inspirò il pensiero di visitare un certo luogo che dovea essere prima il giardino, e poi lo scoglio delle sue illusioni. Eppure quel luogo non era né un giardino, né uno scoglio — era invece un bel cortile di campagna, con due file di platani, e due pilastri avanti ad una colombaja che serviva di portone; con una bella casa, con due fabbriche laterali, e con una bella aja di dietro a tutto questo; ma il complessivo doveva essere prima un giardino d'Armida, e poi una specie di Scilla, e Cariddi pel povero Augusto; e fra parentesi anche per me, — il che io passo a dimostrarvi con una infinità di parole. Ma per carità non fatemi carico di qualche sbadiglio: è una triste abitudine che s'impossessa di me, quando rumino, e rimastico le soavità dei tempi passati.

I Greci ebbero una stravagantissima religione, ed un culto più stravagante ancora pel numero tre. Tre erano le Furie, tre erano le Grazie, tre le Parche, e tre le Dee che si cavarono la camicia per rubarsi il pomo di Paride. E questa è verità; e ne chiamo in testimonio tutti gli Arcadi, e i Succhiapennelli del secolo passato. Mi domanderete qual rapporto abbiano Venere, Giunone, e Minerva con la mia filastrocca, ed io risponderò, che ne hanno un grandissimo, perché il luogo sopra descritto era abitato da un trio di ragazze, o donzelle, o altro che dir si vogliano. Se somigliassero alle Parche, o alle Grazie lo direte voi dopo aver ponderate le mie deduzioni; io per me credo che non fossero né l'uno, né l'altro, e che occupassero il giusto mezzo. In medio stat virtus. E questa è una mala regola davvero, massime nel caso nostro, perché la mediocrità nelle ragazze è un oroscopo funesto per gli amanti spirituali del taglio d'Augusto, ed un augurio di buona riuscita, per coloro che attendano indefessamente a quell'Ufficio per cui Madonna Natura ha inventato l'amore. Volete che vi descriva le nostre tre eroine? Niente di meglio, così chiacchererò un quarto d'ora di più. La maggiore aveva nome Morosina: e non maravigliatevi se gli è un nome alquanto pagano perché ne sentirete in seguito dei più arabi ancora. Ma la Morosina di cui parliamo non era né Pagana né Araba, ma sibbene una donna battezzata, e cresimata per la grazia di Dio. Ella non era né secca, né severa come sembrerebbe richiedere il rango di primogenita. Era anzi piccioletta, e di giuste forme; con certi occhietti azzurri, e capelli biondi-scuri che si ammirano nelle Madalene del Tiziano. Peccato che le mancasse nelle debite regioni quel non so che di ripieno di cui questo pittore era prodigo verso le sue creature! Ella rideva molto, e parlava poco; forse perché è molto più facile colle labbra far delle smorfie, che dei bei discorsi, e perché un certo riso, largo nella bocca, e stretto negli occhi quadrava mirabilmente al suo viso grande, ed ovale! Ell'era insomma uno di quei molti de' quali si dice: Ride e non fa ridere! — Non dico per questo ch'ella facesse piangere! — no, per pietà... anzi... Ma non prevenirmi gli avvenimenti! piuttosto che fare uno sbalzo di cronologia, voglio passare alla seconda, alla Signora Ottavia, la quale Signora Ottavia faceva gesticolare i suoi begli occhioni celesti tanto diabolicamente, che si capiva a prima vista ch'ella si riputava una donnetta di spirito. E per certuni avrebbe potuto esserlo, perché ad onta della sua bassa statura, ad onta della sua poca loquacità, aveva una facciotta ritondetta molto piacevole. Io però la devo rimproverare di soverchia modestia, perché ella teneva tanto imprigionato nel cuore quel suo povero spirito, che niuno ha mai sospettato ch'ella ne avesse un bricciolo.

Farei un peccato d'omissione imperdonabile se non tributassi i dovuti elogii al suo bel visino, alla sua copiosa capigliatura castana, alla sua fina, e morbida pelle; ma sarei uno storico infedele se non tacciassi il suo corpicciuolo di esiguità. Già è vero che le sostanze esigue sono quelle che pizzicano il naso, e penetrano più agevolmente ma è vero altresì che sono le più incomprensibili, e tale è, e sarà sempre la Signora Ottavia per chi non è astrologo.

Non si può dire così della Signora Egiva, la quale è l'ultimo numero del terno, e nello stesso tempo la ragazza più comprensibile che io m'abbia mai visto. Più pienotta, e ancor più tozza delle altre, col mento un po' sporgente, e con occhi castani a fior di testa ella potrebbe servir di modello a un pittore Fiammingo, come figlia d'un Borgomastro. A chi darebbe Lawater la preferenza fra l'occhio da bamboccia, ed il mento da furbacchiona? — Ora ascoltate il mio epilogo se vi piace. La Signora Morosina ha qualche buona qualità e qualche pretesa, e fin qui la cosa è sopportabile. Nella Signora Ottavia calano le buone qualità e crescono le pretese, e la cosa è in ragione inversa del corso regolare. Finalmente nella Signora Egiva rovinano a precipizio buone qualità e pretese, ed io non veggo in lei che una buona zitella, come si dice. — Cosa vi pare? — Mi pare che nella terza l'affare sia più ragionevole; poiché la modestia è come il velo che nasconde le rughe, e la pretesa è pei diffetti, quello che è una torcia pel viso d'una vecchia imbellettata.

Voi credete che abbia finito? — No, mio caro. Resta la Mamma, la Signora Marianna, coi suoi quarant'anni suonati, co' suoi capelli ancor neri foggiati a ricciolini sulle tempia, e col suo gnocco di capegli sul sopracciglio sinistro. Resta la Signora Nonna, cogli occhiali sopra il naso, e la goccia di sotto; col suo libro di devozione in mano, e coi suoi tre denti. Resta il Rispettabile Papà, il Signor Filostrato, ciarlatore infaticabile, o meglio mangiatore di parole, coi suoi gesti da energumeno, coi suoi strani ghiribizzi, e colla sua rossa faccia da buon uomo. Resta il Signor Lucifero, figlio di suo padre, restano tre, o quattro bimbi, e resta finalmente la Baba rispettabile cagna boule-dogue, la quale non è forse il peggiore capitale della compagnia, ed è certamente uno dei personaggi più importanti per lo scioglimento della commedia; per cui vi prego di non dimenticarla... nelle vostre orazioni.




1 Il lettore tenga presente che Augusto, in seguito, sarà chiamato Attilio, e poi Anomino.






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