659. BUDINO DI
FARINA DI RISO
Questo dolce nella
sua semplicità è, a mio parere, di un sapore assai delicato e, benché cognito
forse ad ognuno, non dispiacerà di sentirne stabilite le dosi nelle seguenti
proporzioni, che io credo non abbisognino di essere né aumentate né diminuite.
Latte, litri 1.
Farina di riso,
grammi 200.
Zucchero,
grammi 120.
Burro, grammi
20.
Uova, n. 6.
Una presa di
sale.
Odore di
vainiglia.
Sciogliete
prima la farina con la quarta parte del latte diaccio, aggiungetene un poco del
caldo quando è a bollore e versatela nel resto del latte quando bolle; così
impedirete che si formino bozzoli. Quando è cotta aggiungete lo zucchero, il
burro e il sale; ritiratela dal fuoco e aspettate che sia tiepida per
mescolarvi entro le uova e l'odore. Cuocete questo budino come l'antecedente.
La composizione
di questo dolce, il quale probabilmente non è di data molto antica, mi fa
riflettere che le pietanze pur anche vanno soggette alla moda e come il gusto
de' sensi varia seguendo il progresso e la civiltà. Ora si apprezza una cucina
leggiera, delicata e di bell'apparenza e verrà forse un giorno che parecchi di
questi piatti da me indicati per buoni, saranno sostituiti da altri assai
migliori. I vini sdolcinati di una volta hanno lasciato libero il passo a
quelli generosi ed asciutti, e l'oca cotta in forno col ripieno d'aglio e di
mele cotogne, giudicato piatto squisito nel 1300, ha ceduto il posto al
tacchino ingrassato in casa, ripieno di tartufi, e al cappone in galantina. In
antico, nelle grandi solennità, si usava servire in tavola un pavone lesso o
arrosto con tutte le sue penne, spellato prima di cuocerlo e rivestito dopo,
contornato di gelatine a figure colorate con polveri minerali nocive alla
salute, e pei condimenti odorosi si ricorreva al comino e al bucchero che più
avanti vi dirò cos'era.
Le paste dolci
si mantennero in Firenze di una semplicità e rozzezza primitiva fin verso la
fine del secolo XVI, nel qual tempo arrivò una compagnia di Lombardi, che si
diede a fare pasticci, offelle, sfogliate ed altre paste composte d'uova, burro,
latte, zucchero o miele; ma prima d'allora nelle memorie antiche sembra che
sieno ricordati soltanto i pasticci ripieni di carne d'asino che il Malatesta
regalò agli amici nel tempo dell'assedio di Firenze quando la carestia,
specialmente di companatico, era grande.
Ora, tornando
al bucchero, vi fu un tempo che, come ora la Francia, era la Spagna che dava il
tòno alle mode, e però ad imitazione del gusto suo, al declinare del secolo
XVII e al principio del XVIII, vennero in gran voga i profumi e le essenze
odorose. Fra gli odori, il bucchero infanatichiva e tanto se ne estese l'uso
che perfino gli speziali e i credenzieri, come si farebbe oggi della vainiglia,
lo cacciavano nelle pasticche e nelle vivande. Donde si estraeva questo famoso
odore e di che sapeva? Stupite in udirlo e giudicate della stravaganza dei
gusti e degli uomini! Era polvere di cocci rotti e il suo profumo rassomigliava
a quello che la pioggia d'estate fa esalare dal terreno riarso dal sole; odor
di terra, infine, che tramandavano certi vasi detti buccheri, sottili e
fragili, senza vernice, dai quali forse ha preso nome il color rosso cupo; ma i
più apprezzati erano di un nero lucente. Codesti vasi furono portati in Europa
dall'America meridionale la prima volta dai Portoghesi e servivano per bervi
entro e per farvi bollir profumi e acque odorose, poi se ne utilizzavano i
frantumi nel modo descritto.
Nell'Odíssea
d'Omero, traduzione d'Ippolito Pindemonte, Antinoo dice:
... Nobili Proci,
Sentite un pensier mio. Di que'ventrigli
Di capre, che di sangue e grasso empiuti
Sul fuoco stan per la futura cena,
Scelga qual più vorrà chi vince, e quindi
D'ogni nostro convito a parte sia.
Nel Tom. 6°
dell'Osservatore Fiorentino si trova la descrizione di una cena, la quale,
per la sua singolarità, merita di riferirne alcuni passi:
“Tra i piatti di maggior solennità si contava ancora il pavone, cotto a
lesso con le penne, e la gelatina, formata e colorita a figure. Un certo
senese, trattando a cena un Cortigiano di Pio II (alla metà del 1400
all'incirca) per nome Goro, fu sí mal consigliato in preparar questi due
piatti, che si fece dar la baia per tutta Siena; tantopiù che non avendo potuto
trovar pavoni, sostituì oche salvatiche, levato loro i piedi ed il becco.
“Venuti in
tavola i pavoni senza becco e ordinato uno che tagliasse; il quale non essendo
più pratico a simile uffizio, gran pezzo si affaticò a pelare, e non poté far
sì destro, che non empiesse la sala e tutta la tavola di penne, e gli occhi e
la bocca, e il naso e gli orecchi a Messer Goro e a tutti...
“Levata poi
questa maledizione di tavola, vennero molti arrosti pure con assai comino; non
pertanto tutto si sarebbe perdonato, ma il padrone della casa, co' suoi
consiglieri, per onorare più costoro, aveva ordinato un piatto di gelatina a
lor modo, e vollero farvi dentro, come si fa alle volte a Firenze e altrove,
l'arme del Papa, e di Messer Goro con certe divise, e tolsero orpimento,
biacca, cinabro, verderame, ed altre pazzie, e fu posta innanzi a Messer Goro
per festa e cosa nuova, e Messer Goro ne mangiò volentieri e tutti i suoi
compagni per ristorare il gusto degli amari sapori del comino, e delle strane
vivande.
“E per poco
mancò poi la notte, che non distendessero le gambe alcun di loro, e massime
Messer Goro ebbe assai travaglio di testa e di stomaco, e rigettò forse la
piumata delle penne selvatiche. Dopo questa vivanda diabolica o pestifera
vennero assai confetti, e fornissi la cena”.
|