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Errico Malatesta – Francesco Saverio Merlino Anarchismo e democrazia IntraText CT - Lettura del testo |
I MOTIVI DELLA PARTECIPAZIONE
Ulteriore intervento di Merlino, questa volta sull’Avanti! del 9 marzo 1897. Il titolo dell'articolo è: «Gli anarchici e le elezioni».
Una mia dichiarazione nel Messaggero del 29 gennaio in favore della lotta politica parlamentare come mezzo e stimolo ad una vasta e feconda agitazione popolare, ha dato luogo ad una polemica, che dalle colonne di quel giornale si è spostata sulla stampa socialista e anarchica. Io non ho risposto che a uno solo dei miei contraddittori, il Malatesta, amico mio da molti anni, col quale ho finito sempre, benchè differissimo temporaneamente – e spero di finire anche stavolta – col trovarmi d’accordo. Ad altri rispondo ora collettivamente, perchè mi preme di dire tutto il mio pensiero e di chiudere, per conto mio, una polemica alquanto ingrata.
Si afferma che la lotta politica parlamentare sia contraria ai principi socialisti anarchici. L’asserzione è una di quelle che, avventate da qualcuno, passano di bocca in bocca e si ripetono fino a diventare assiomatiche in un dato circolo di persone, senza che nessuno le abbia ponderate.
Intendiamoci. Quello che è contrario ai principi nostri è il partecipare al governo come ministri, come impiegati, come poliziotti, come giudici, magari come legislatori... Sì, anche come legislatori, perchè io sostengo che il deputato o socialista o operaio o rivoluzionario dev’essere non un legislatore, bensì un agitatore. Ma non è contrario ai nostri principi che il popolo eserciti un’ingerenza, per quanto indiretta e di poco valore, nell’amministrazione della cosa pubblica. Noi possiamo e dobbiamo dolerci che quest’ingerenza oggi sia minima; che la sovranità popolare duri il quarto d’ora delle elezioni; che poi gli elettori, tornati a casa – il contadino all’aratro, l’operaio all’officina – gli eletti rimangano arbitri della cosa pubblica e dispongano a loro talento dei più gravi interessi del Paese. Questo è il male, non la partecipazione di una parte del popolo all’elezione dei deputati e di alcuni pubblici amministratori.
Ora a questo male non si rimedia astenendosi dalle urne; ma bensì inducendo il popolo anzitutto ad esercitare con coscienza e vigore quella poca autorità che ha, poi a reclamarne una maggiore; abituandolo a lottare e prolungando la lotta oltre il breve periodo elettorale.
La lotta politica deve svolgersi nel Parlamento e fuori del Parlamento. Qui sta la differenza fra il mio modo d’intenderla e quello dei politicanti e purtroppo anche di taluni socialisti e di molti democratici.
Per costoro la lotta politica sta tutta nel mandare alla Camera il maggior numero possibile di deputati del proprio partito.
Per me invece l’elezione dei deputati ostili al governo non è che un modo di agitazione popolare, e il compito dei deputati non è già di proporre leggi e di chiacchierare sugli ordini del giorno presentati alla Camera; ma di combattere la maggioranza parlamentare e il governo, di denunziare al Paese gli arbitrii e le prepotenze e di prendere parte a tutte le agitazioni popolari, lasciandosi magari imprigionare coi loro elettori.
Purtroppo i deputati democratici d’oggi non fanno nulla di tutto questo; tengono a bada il popolo con discorsi e interpellanze, ma si guardano bene dal promuovere o secondare serie agitazioni.
Il governo scioglie associazioni, proibisce riunioni, calpesta le libertà popolari. L’on. Cavallotti a chi domandava che intendeva di fare, rispondeva: Ne parlerò alla Camera.
Le aule universitarie sono invase da poliziotti, i quali malmenano professori e studenti. Pazienza: l’on. Cavallotti ne parlerà alla Camera.
Le flotte europee cannoneggiano gl’insorti di Candia, e la diplomazia soffoca il grido di libertà dei popoli gementi sotto la dominazione turca. Consoliamoci: Cavallotti ne parlerà alla Camera.
Francamente, questa non è condotta di democratico; ma di uno che diffida del popolo e crede che le grandi e piccole questioni politiche si debbano trattare nelle alcove ministeriali o in quell’anticamera del ministero che è il Parlamento nazionale.
Noi invece dobbiamo volere che il popolo faccia valere la sua volontà e i suoi interessi contro la volontà e gl’interessi della consorteria dominante, che esso lotti sul terreno politico come sull’economico, per la propria emancipazione; e guardi al governo non come ad un padrone cui si debbono ubbidienza ed ossequio, ma come ad un servitore cui si comanda e che si può congedare quando non faccia il suo dovere o non si abbia più bisogno dell’opera sua.
Anni addietro gli operai delle nostre grandi città si peritavano di ingerirsi di politica. I conservatori alla Pepoli insinuavano che è dovere degli operai di occuparsi unicamente dei propri interessi economici, rimanendo estranei a ogni agitazione politica; e tutt’al più concedevano loro di andare ad acclamare i sovrani e i ministri alle stazioni e a votare, nelle elezioni politiche e amministrative, pei loro benemeriti padroni.
Fu un progresso che gli operai cominciassero a votare per individui della loro classe, e molti di essi concepissero l’ambizione d’andare al Parlamento e ai consigli comunali e provinciali; ed un progresso maggiore fu fatto quando, costituitosi il partito socialista, essi andarono a votare per una grande idea.
Ora rimangono tuttavia moltitudini di operai e di contadini ligi ai padroni, che li sfruttano economicamente e politicamente, come lavoratori e come elettori. È forse contrario ai nostri principii tentare di strappare queste moltitudini alla loro servitù e gettarle nella lotta politica, magari se si debba cominciare dalle elezioni?
Ma si dirà, se non è contrario ai nostri principii che il popolo, invece di lasciare la scelta dei deputati e dei consiglieri alla classe dominante, concorra anch’esso alla loro elezione, è certamente contrario ai nostri principi accettare il mandato, andare alla Camera o al Municipio, votare le leggi, convalidare gli atti del governo e partecipare alle spoglie del potere.
D’accordo: ma io ripeto, si può andare al Parlamento o al Consiglio comunale non a governare, bensì a combattere il governo; non a far leggi, ma a dimostrare l’ingiustizia delle leggi che ci sono; non a mettere la mano nel sacco. ma a gridare ai ladri. Si può andare al Parlamento come un operaio, delegato dai suoi compagni, va in un’adunanza di padroni a discutere le condizioni di lavoro; o come un imputato o il suo difensore va in tribunale a dire le sue ragioni o quelle del suo cliente, anche quando non riconosce l’autorità dei giudici. Fino a che vige l’attuale sistema, l’imputato si deve difendere, l’operaio deve sforzarsi di ottenere condizioni meno dure dal padrone, e il popolo deve schermirsi dalla tirannide, mettendo bastoni fra le ruote del governo.
Per poco che valgano le elezioni, valgono a strappare qualche concessione al governo o ad imporgli un certo riguardo per l’opinione pubblica. E per poco che valga la presenza di socialisti o di rivoluzionari al Parlamento, vale qualche volta ad impedire una grave ingiustizia. E per poco che valgano le immunità parlamentari, non si può negare che molte riunioni si tengono grazie alla presenza di deputati. Oh! il governo restringerebbe volentieri l’elettorato, il numero dei deputati e le immunità che essi godono: e sarebbe felicissimo se potesse far senza addirittura di deputati e di elezioni.
Gli stessi anarchici astensionisti riconoscono che qualche frutto si può ricavare dalle elezioni; e qui a Roma hanno deliberato di proporre il Galleani per liberarlo dal domicilio coatto. Ottima idea, anche perchè il Galleani è giovane intelligente, sincero ed energico, tre qualità che non si trovano riunite in molti uomini. Ma, dico io, supponete che riesca, rinunzierà egli poi per tornare forse al domicilio coatto – donde voi dovreste trarlo fuori con una nuova elezione – e così di seguito?
E se non è contrario ai principi votare per liberare un coatto politico, sarà contrario ai principi votare per impedire al governo di fare di noi altrettanti coatti politici?
Il governo annunzia per la prossima legislatura il rimaneggiamento della legge sul domicilio coatto, una restrizione dell’elettorato e il prosieguo degli scioglimenti di associazioni e delle proibizioni di riunioni; i suoi candidati sono disposti ad approvare tutto questo, e magari nuovi stati d’assedio e nuovi massacri di moltitudini affamate.
Lasceremo fare? Staremo inerti spettatori di una lotta di cui le conseguenze ricadono su di noi? Per poco che l’opera nostra valga ad impedire la riescita di candidati ministeriali, vi rinunceremo noi, e rinunciandovi non faremo noi cosa grata al governo?
Ma taluni davvero si compiacciono della reazione. Perchè a dispetto delle persecuzioni le idee progrediscono, essi si immaginano che progrediscano a causa delle persecuzioni. C’è chi ripete ciò che scrive Malatesta: il dispotismo essere da preferire all’ibrido sistema attuale.
Supponiamo che il governo li prenda in parola e faccia un colpo di stato: sopprima il Parlamento, tolga la libertà di stampa e riduca l’Italia allo stato politico della Russia. Mi dicano sinceramente i miei amici: la causa del socialismo ci guadagnerebbe? o la lotta per il costituzionalismo assorbirebbe e impedirebbe per molti anni la lotta per il socialismo, come appunto avviene in Russia?
Mi si dirà: Questi a cui avete accennato, sono i vantaggi della lotta elettorale. Ad essi si contrappongono danni di gran lunga maggiori: la corruzione, le ambizioni, i compromessi coi partiti affini. Potrei rispondere che danni di questo genere si verificano in ogni opera nostra: sono il tributo che si deve pagare all’imperfezione dell’umana natura.
Se noi impiantiamo un giornale, ecco sorgere ambizioni, invidie, gelosie e magari (se il giornale prospera) un interesse economico in questo o in quello dei suoi redattori od amministratori. Rinunceremo noi, per questo inconveniente, a propagare le nostre idee per mezzo della stampa?
E non dirò che l’ambizione può essere utile, perchè non tutti gli uomini che lottano per un’idea, son mossi ad agire dalla pura convinzione della giustizia della loro causa. Molti eroi delle passate rivoluzioni furono spinti al sacrificio dal desiderio di far parlare di sè, da gelosia, da angustie finanziarie in cui versavano: e possiamo ammettere che anche oggi gli uomini praticano il bene per una varietà di motivi buoni, mediocri e cattivi.
In talune località il partito socialista è sorto perchè taluni vi hanno scorto un mezzo di andare al Consiglio comunale o al Parlamento. Meglio che sia sorto così che non sorgesse affatto. Man mano si verrà depurando; perchè la forza del socialismo sta in ciò, che esso risponde ai grandi interessi della grande maggioranza del popolo; e quando questo si fa innanzi, le ambizioni e le vanità individuali devono cedere e scomparire.
Ma è poi vero che le elezioni siano niente altro che una scuola di corruzione? Quelli che vanno a votare per il candidato socialista o operaio o rivoluzionano, sfidando ire governative e ire padronali e rimettendoci qualche soldo, non mi pare che si corrompano; al contrario si appassionano per la Causa, e lo stesso ardore che mettono nella lotta elettorale, posson metterlo in altro genere di lotta. Non credo che i ferventi elezionisti debbano essere necessariamente tiepidi rivoluzionari.
Ma la lotta elettorale ci obbliga a compromessi. Anche qui potrei rispondere che compromessi ne facciamo tutti i giorni, lavorando per un padrone od esercitando una professione, un commercio, notificando alla polizia le riunioni pubbliche da noi indette, mandando al procuratore del re la prima copia dei nostri giornali, ricorrendo ad avvocati che ci difendano avanti ai tribunali, intendendoci con altri partiti per date agitazioni. E se domani, fatta la rivoluzione, dovessimo attuare il socialismo, dico e sostengo che saremmo costretti a fare dei compromessi, se pure non volessimo imporre le nostre idee agli altri o sottometterci alle altrui.
Ma i compromessi elettorali possono cadere sui voti, non debbono cadere sui principi: si capisce che compromessi che offendano i principi, non si debbono accettare.
D’altra parte, se la nostra partecipazione alle elezioni non producesse altro vantaggio che quello di avvicinarci ai partiti affini, facendoci riconoscere ciò che vi può essere di giusto nei loro programmi – e di avvicinare i partiti affini a noi, facendoli convenire in una parte almeno delle nostre rivendicazioni – di accostare tutti al popolo e indurci a tener conto dei veri bisogni e sentimenti e delle vere aspirazioni di esso, solo per questo sarebbe da approvare.
In Germania, in Francia, nel Belgio l’interesse elettorale ha spinto i socialisti a consacrare una parte delle loro forze alla propaganda nelle campagne, per guadagnare i contadini alla causa del socialismo. Basterebbe questo fatto a giustificare la tattica elettorale; perchè chi è che non vegga che senza il concorso dei contadini una rivoluzione socialista non è possibile, e pure scoppiando, terminerebbe in un disastro.
Io non sono profeta, ma ho predetto ai miei amici astensionisti che (dove non ricorrano al ripiego del candidato protesta) essi non faranno neppure la propaganda astensionista.
Le elezioni si faranno, tutti i partiti si affermeranno: di voi e dei vostri principi e degli interessi che vi stanno a cuore, non si parlerà. Sarete dimenticati.
E lo ripeto, e i fatti mi daranno ragione. L’astensione ha la sua logica. Dal momento che le elezioni non servono, tanto vale starsene a casa. D’altronde, la gente è poco disposta ad ascoltare predicozzi; e durante l’agitazione elettorale non si appassiona che per quei principi che prendono corpo e persona, che diventano, per cosi dire, candidati.
Se volete dunque che si discuta di anarchia – ho detto e ripeto ai miei amici – dovete schierarvi pro o contro qualcuno. A questa condizione la vostra parola sarà ascoltata; la vostra opinione rispettata, condivisa o combattuta, ad ogni modo discussa; la vostra amicizia ricercata e la vostra inimicizia temuta.
Ma gli astensionisti non intendono queste ragioni. Essi sono dottrinari e argomentano così: «Il parlamentarismo è contrario ai principi anarchici. Dunque noi dobbiamo combatterlo con la parola, aspettando che si presenti l’occasione di distruggerlo coi fatti. Se poi le nostre forze bastano o no a quest’opera; se l’occasione tarda e frattanto il popolo langue e si scoraggia; se il popolo seguirà o no la nostra iniziativa; se le nostre idee si attueranno oggi o di qui a mille anni; o se per avventura siano troppo semplici e astratte per essere applicate, – tutto ciò non ci riguarda. Affermiamo le idee: esse troveranno la strada di attuarsi. Il popolo ammirerà la nostra coerenza e verrà a noi. E se anche non venisse, se pure le nostre idee dovessero non attuarsi nè ora nè mai, noi avremo fatto il nostro dovere. I mezzi termini ci indeboliscono, corrompono, dividono: la verità sola, detta tutta intera e senza ambagi, ci può salvare».
Prima di tutto, questo modo di ragionare implica il convincimento che essi soli, gli anarchici astensionisti, siano nel vero, che posseggano tutta intera la verità, e che non c’è che un modo di risolvere la questione sociale, ed è quello da essi proposto.
Poi, il ragionamento è radicalmente sbagliato. Le idee non valgono per se stesse, ma per l’azione che esercitano sulla sorte degli uomini.
Una verità che non si può attuare, non può essere perfettamente vera; un partito che non riesce a guadagnare alla sua causa la moltitudine, ha sbagliato strada. La lotta deve avere un fine immediato; dove tanti milioni di nostri simili soffrono giornalmente, è insensatezza consumare le proprie energie in guerricciole di partito e in quisquilie accademiche.
Il sistema parlamentare può non convenire alla società futura; frattanto la lotta elettorale ci offre mezzi e opportunità di propaganda e di agitazione. Essa ha anche inconvenienti come tutte le cose di questo mondo. Molto dipende dal modo come si fa.
Che direbbero gli anarchici a chi argomentasse cosi: la violenza è contraria ai nostri principi; dunque non dobbiamo usare la forza neanche per difendere la nostra vita?
Risponderebbero certamente che l’uso della forza ci è imposto dalle condizioni della società in cui viviamo; e così rispondo io ai loro argomenti contro la lotta politica parlamentare.
È vero o non è vero che l’uso dei mezzi legali ci è imposto nei tempi ordinari, come quello della violenza nelle occasioni straordinarie?
Io dico di si.
Non ci illudiamo. Sopra cento persone se ne possono trovare magari dieci capaci di affrontare la morte sul campo di battaglia o in una insurrezione; ma se ne troverà sì e no una disposta ad affrontare le piccole persecuzioni di tutti i giorni, ad andare in carcere, a farsi mandar via dal padrone, a veder la moglie e i figlioli soffrire la fame.
E i pochissimi che resistono a queste persecuzioni, il governo li conta, li sorveglia, li aggredisce e li sbaraglia in un momento.
Un partito veramente rivoluzionario deve stendere le sue propaggini fra il popolo, e questo non può farlo se non con un’azione che non sia esposta a troppi pericoli in tempi ordinari. La lotta elettorale risponde appunto a questa condizione; e non si può negare che, per averla adottata, il partito socialista è riuscito a riunire un gran numero di operai nelle sue file.
Viceversa, gli anarchici hanno veduto diradare le loro, appunto perchè si son voluti ostinare nella loro tattica astensionista; ed io non dubito che, se continueranno ad ostinarsi, cesseranno addirittura di esistere come partito; e di essi non si parlerà, come già non se ne parla, se non quando al governo piaccia di perseguitarli per sfogare su di essi la sua libidine di persecuzione.
Riepilogando, senza credere che la questione sociale possa essere risolta per mezzo di leggi e di decreti, io sono per la lotta elettorale e parlamentare:
perchè non è contrario ai principi socialisti e anarchici che il popolo faccia valere la sua volontà e i suoi interessi in tutti i modi possibili;
perchè è necessario sottrarre le classi lavoratrici alla loro dipendenza ereditaria da proprietari e da padroni, impedire che siano tratte alle elezioni come gregge, ed esercitarle alla vita pubblica e alla vita politica;
perchè le elezioni offrono opportunità di propaganda, di agitazione e di protesta contro gli arbitrii e le prepotenze del governo, come gli stessi astensionisti riconoscono con le loro candidature-protesta;
perchè nel momento attuale sono la quasi unica affermazione che ci è consentita, e il governo vuole contenderci anche questa, e sarebbe insensatezza cedergli;
perchè, in generale, noi abbiamo il dovere di non abbandonare le libertà che i nostri padri conquistarono combattendo, ma di difenderle energicamente e accrescerle;
perchè, senza credere molto efficace l’opera dei deputati socialisti, operai o rivoluzionari alla Camera, è invece utilissima l’azione che essi possono e devono spiegare a pro della causa fuori del Parlamento;
perchè l’esperienza ha dimostrato che erano esagerati i nostri timori per l’influenza corruttrice dello ambiente parlamentare sugli eletti del nostro partito; anzi il contrasto fra gli uomini di carattere e disinteressati che il socialismo pone innanzi come suoi rappresentanti e i rappresentanti corrotti e versipelle della borghesia, non può che conquistare alla nostra causa la simpatia della parte sana della popolazione;
perchè, infine, noi dobbiamo partecipare a tutte le lotte e agitazioni popolari, e spiegare la nostra azione in mezzo alla massa, non nei piccoli conciliaboli del partito.
Possano queste ragioni convincere i miei amici e indurli a uscire dal riserbo che si sono imposti, e a portare il contributo delle loro forze nell’attuale campagna elettorale contro il governo e per la difesa della Libertà e della Giustizia. Quanto a me, ripeto che il mio scopo, nel combattere la sterile tattica astensionista, non è stato di soddisfare una mia ambizione personale e accrescere di uno il numero dei deputati socialisti al Parlamento.