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Errico Malatesta – Francesco Saverio Merlino Anarchismo e democrazia IntraText CT - Lettura del testo |
DA UNA QUESTIONE DI TATTICA AD UNA QUESTIONE DI PRINCIPIO
Risposta di Merlino pubblicata sull’Agitazione dei 28 marzo 1897 col titolo: «Da una questione di tattica a una questione di principii». La risposta è preceduta da una breve introduzione di Malatesta, che riproducamo.
Sotto questo titolo riceviamo da Saverio Merlino l’articolo seguente, che pubblichiamo con piacere.
Il Merlino può essere sicuro di trovare sempre in noi la serenità e l’amore impregiudicato della verità, che egli desidera. D’altronde, noi conveniamo con lui che spesso gli anarchici si sono mostrati intolleranti e troppo pronti alle ire ed ai sospetti; ma non bisognerebbe poi, nell’entusiasmo dei mea culpa, pigliare tutti i torti per noi e dimenticare che l’esempio e la provocazione ci sono venuti il più sovente dagli altri. Senza rimontare ai tempi di Bakunin ed alle infami calunnie ed invereconde menzogne che ancora si raccontano ai giovani che non sanno la storia nostra, ci basti ricordare la condotta dei socialisti democratici negli ultimi Congressi Internazionali verso gli anarchici, e certi articoli apparsi, non è gran tempo, nella stampa socialista democratica di vari paesi.
In ogni modo, cerchiamo, se ci riesce, di esser giusti noi, checchè facciano e dicano i nostri avversarii.
Ecco l’articolo di Merlino:
— Vediamo un po’ se è possibile continuare a discutere serenamente senza ire nè sospetti, come abbiamo principiato. Sarebbe una cosa quasi nuova e di così lieto augurio, che io dovrei rallegrarmi di avere offerto ai miei amici l’opportunità di dimostrare che il partito anarchico comincia ad educarsi all’osservanza dei principi che professa.
E prima di tutto, sono io anarchico?
Rispondo: se l’astensionismo è dogma di fede anarchica, no. Ma io non credo al dogma. Non credo contrari ai principi nostri la difesa e l’esercizio dei nostri diritti – neppure dei minimi. Non credo che esercitando il diritto di voto, che ci viene consentito, noi si rinunzi ai diritti maggiori, che ci vengono negati e che dobbiamo rivendicare.
Credo che l’agitazione elettorale ci offra modi e opportunità di propaganda, a cui sarebbe follia rinunciare, specialmente in questo quarto d’ora e in Italia dove quasi ogni altra affermazione ci è interdetta, e credo che non se ne possa trarre tutto il profitto possibile quando si sostiene l’astensione. (Di ciò abbiamo fatto la prova in questi giorni qui a Roma, dove presentando la candidatura Galleani, abbiamo potuto tenere comizi, diffondere manifesti, guadagnarci la simpatia di molti che ci erano ostili o indifferenti come non avremmo mai potuto fare se fossimo rimasti astensionisti) —. Del resto non credo alla conquista dei poteri pubblici: sostengo che tanto la lotta per la libertà, quanto quella per l’emancipazione economica debba essere combattuta principalmente fuori del Parlamento. L’opera dei deputati operai, socialisti e rivoluzionarii la ritengo utile non per se stessa ma in aiuto alla lotta extraparlamentare. E se così pensando non mi trovo perfettamente d’accordo nè con gli anarchici nè coi socialisti‑democratici me ne duole sinceramente: ma posso io disdirmi?
Ma ormai pro e contro la partecipazione alle elezioni mi pare che si sia detto a un dipresso tutto quello che si poteva dire: ed io mi compiaccio che la disputa sia stata da Malatesta sollevata nella sfera dei principii: ed anche per questo non mi pento di averla suscitata.
Non si può negare che attorno ai nostri principii – che son veri, se rettamente interpretati – son pullulati molti errori e molti sofismi.
Uno di questi è che gli uomini debbano far tutto da sè, individualmente; che un uomo non debba farsi mai rappresentare da un altro, che le minoranze non debbano cedere alle maggioranze (essendo più probabile che s’ingannino queste che quelle); che nella società futura gli uomini si troveranno miracolosamente d’accordo, o se non i dissidenti si separeranno e ciascuno agirà a sua guisa: che ogni altra condotta sarebbe contraria ai nostri principii.
Io vorrei qui ripetere parola per parola le giustissime e lucidissime considerazioni che fa Malatesta (e non per la prima volta) contro codesto modo d’intendere l’anarchia nel n. 1 dell’«Agitazione», concludendo col dire:
«Dunque in tutte quelle cose che non ammettono parecchie soluzioni contemporanee, o nelle quali le differenze d’opinione non sono di tale importanza che valga la pena di dividersi ed agire ogni frazione a modo suo, ed in cui il dovere di solidarietà impone l’unione, è ragionevole, giusto, necessario che la minoranza ceda alla maggioranza».
In due punti però io credo di dissentire da lui: in primo luogo, Malatesta sembra credere che le cose nelle quali per le varie ragioni da lui adottate è necessità convenire sieno tutte cose di poco momento. Si vede dagli esempi che adduce. Vado in caffè: trovo i posti migliori occupati; devo rassegnarmi a stare sull’uscio, o andar via. Vedo persone parlar sommessamente: devo allontanarmi per non essere indiscreto e via dicendo. Io invece credo (e forse anche Malatesta lo crede, ma non lo dice) che tra le questioni nelle quali converrà l’accordo e quindi, se non è possibile essere tutti della stessa opinione, è necessario cercare un compromesso, ve ne sono delle gravissime: e sono tali propriamente tutte le questioni sull’organizzazione generale della società e tutti i grandi interessi pubblici. Vi può essere nella società qualcuno che ritenga giusta la vendetta: ma la maggioranza degli uomini ha diritto di decidere che è ingiusta e d’impedirla. Vi può essere una minoranza, che preferisca di organizzare l’industria dei trasporti per le vie ferrate in modo cooperativistico, o collettivistico, o comunistico, od in un altro modo: ma l’organizzazione non potendo essere che una, è necessità che prevalga il parere dei più. Vi può essere uno che ritenga addirittura una vessazione il provvedimento tale, adottato per impedire il diffondersi di una malattia contagiosa: ma la società ha diritto di premunirsi dai mali epidemici. Il secondo dissenso tra Malatesta e me è in questo, che io non credo di poter profetare che nella società futura la minoranza sempre e in tutti i casi si arrenderà volentieri al parere della maggioranza, Malatesta invece dice: «Ma questo cedere della minoranza dev’essere effetto della libera volontà determinata dalla coscienza della necessità».
E se questa volontà non c’è, se questa coscienza della necessità nella minoranza non c’è, se anzi la minoranza è convinta di fare il suo dovere resistendo? Evidentemente la maggioranza, non volendo subire la volontà della minoranza, farà la legge, darà alla propria deliberazione (come dice Malatesta a proposito dei Congressi) un valore esecutivo.
Malatesta dice anzi di più: e, a proposito di chi trova il posto preferito al caffè occupato, o di chi deve allontanarsi da un colloquio confidenziale dice: «Se io facessi altrimenti, quelli che io incomoderei mi farebbero sentire, in un modo o in un altro il danno che vi è ad essere uno zotico». Ed ecco una coazione. E si tratta, negli esempi addotti, di rapporti individuali e di questioni di pochissimo rilievo. Figuriamoci se si trattasse di una grave questione di pubblico interesse, come quelle a cui ho accennato io più sopra!
Sta bene che la coazione debba essere minima, e possibilmente più morale che fisica, e che si debbano rispettare i diritti delle minoranze, ed ammettere in taluni casi perfino la secessione della minoranza dissidente. Ma insomma è questione di più e di meno, di modalità e non di principii.
Nei casi, in cui ciò sia utile e necessario, dico io, non è contrario ai principi anarchici nè addivenire ad una votazione, nè provvedere all’esecuzione delle deliberazioni prese: e quando queste cose non si possono fare (per ragion di numero o di capacità) dagli interessati direttamente, non è contrario ai principi anarchici che, prese le debite precauzioni contro i possibili abusi, si deleghino ad altri.
Quindi io conchiudo:
— O si crede nell’armonia provvidenziale che regnerebbe nella società futura: ed allora ha torto Malatesta ed hanno ragione gl’individualisti.
— O Malatesta ha ragione ed allora non si ha più diritto di dire che ogni rappresentanza, ogni atto con cui il popolo confida ad altri la cura dei suoi interessi, sia contrario ai nostri principi.
A questo dilemma mi pare difficile di sfuggire.