XXXIX.
Giunsi a Milano il 30 agosto a
mezzodì, con un caldo soffocante, un sole infuocato.
Nello stato d'animo in cui mi
trovavo non potevo sopportare il pensiero di accogliere il tranquillo benvenuto
di mia moglie.
Avevo una chiave del mio studio,
dove potevo entrare per una porta attigua a quella dell'alloggio. Mi rifugiai
nel mio studio senza entrare in casa.
A quell'ora i commessi erano a
colazione.
Sedetti allo scrittoio su cui erano
disposte in ordine di data le lettere venute durante la mia assenza.
Tra quelle soprascritte non ne vidi
che una. Una trammezzo a tutte, che era giunta tre giorni innanzi.
Una lettera di Fulvia!
Un freddo sudore m'imperlava la
fronte in quell'ardente meriggio d'agosto.
Una lettera di Fulvia! Era viva;
ricuperata dopo l'agonia di quei giorni in cui l'avevo creduta morta, ed avevo
pensato a lei con tutto l'amore che giustifica la inviolabile solennità della
tomba; era viva e mi scriveva.... Ed io era un buon uomo ammogliato con prole!
Mi sentivo sull'orlo di un
precipizio; un precipizio verdeggiante, attraente come quelli cui sognava
Fulvia sul Monte Bianco. Volsi un pensiero di compianto a mia moglie... ed
apersi e lessi la lettera.
«Massimo,
«Non v'impaurite. Non è dall'altro
mondo che vi scrivo. No; è da questo mondo bello, dalla terra verdeggiante, dal
cielo azzurro, dall'aria pura e serena, da questo mondo di luce, in cui si
aspira la vita e la felicità, in cui si ama e si è amati!»
Posai la lettera e mi alzai a
passeggiare nello studio facendomi aria coll'istruttoria d'un processo civile.
La gioia mi soffocava. Neppure nei più bei giorni passati, Fulvia non mi aveva
mai scritto con tanto trasporto.
La dolcezza acre ed inebriante del
pomo di Eva mi saliva alla gola, e mi dava alla testa.
O lettore, lettore!.... Tornai a
leggere.
«Avete ricevuto il piego colle mie
memorie? Oh Massimo! Erano cattive le ultime pagine delle mie memorie;
perdonatemi, avevo il freddo nel cuore.»
Ed io in quel momento ci avevo un
incendio!
«Non fu una commedia, vedete.
Sapete pure che io non mento. Allora volevo realmente morire. Non speravo più
che l'amore potesse farmi rivivere, ed adorare la vita. Oh come sono, come
voglio essere felice!
«Avevo il freddo nel cuore, ed ero
decisa a morire. Ma per verità la mia inesperienza m'aveva fatto credere la
cosa più facile che non fosse in realtà. Trovai a Chamounix un capo delle
guide, a cui le guide ch'egli mi assegnò si resero in certo modo responsabili
della mia persona. Poi delle corde, catena inesorabile di sicurezza, con cui
debbono legarsi insieme guide e viaggiatori nei punti in cui il suolo è più
pericoloso.
«Ad ogni modo, pensavo che troverei
sempre una gola spalancata, o quanto meno un ripido declivio per lasciarmi
precipitare in un momento di libertà. Le stesse cautele mi guarentivano la
certezza dei pericoli. Soltanto decisi di compiere l'ascensione, di godere
ancora quell'ultimo solenne spettacolo, e di studiare la via, di scegliere
coraggiosamente il mio punto, e di lasciarmi precipitare soltanto nella
discesa, quando mi fossi ben accertata che la caduta sarebbe mortale.
«Nulla mi spaventava di più che
l'idea d'esser rialzata, mezzo gelata, colle gambe rotte, per passare anni ed
anni di dolorosa inedia, sopravvivendo miseramente a me stessa.
«I due compagni di viaggio che
avevo trovati a Chamounix erano due capi scarichi. Non avevano nessuna
individualità. Uno posava, e l'altro l'imitava. Erano di quelle persone
nulle, che si praticano, che si chiamano oneste, perchè in ogni occorrenza
possono mostrar la fedina criminale, e provare che non hanno mai avuto maglia a
partire colla giustizia; ma non valgono la pena di essere studiati più di così.
«Tuttavia, ero raccomandata ad essi,
dovevamo fare la salita insieme, erano volgarmente cortesi, e di buon umore, e
si stabilirono tra noi quei rapporti di apparente cordialità che erano
inevitabili in quelle circostanze.
«Partimmo animati da un vero
entusiasmo. - Quando alla Pietra della Scala vidi che si passavano le corde per
legarci tutti insieme colle nostre guide prima d'entrare nel ghiacciaio dei
Bossons, incominciai a domandarmi seriamente, come era possibile di precipitare
in un abisso con quelle precauzioni. Quest'idea mi preoccupò pel resto del
viaggio fino ai Grand-Mulets. Avevo traversato ponti di neve larghi appena come
il piede di un uomo; avevo costeggiato precipizi di cui non si vedeva il fondo;
ma le guide erano là colla corda tesa. Se il ponte fragile si fosse spezzato sotto
un urto violento del mio piede, se avessi scivolato entro la gola spalancata
d'un precipizio, avrebbero tirato la corda, m'avrebbero tenuta sospesa, e sarei
stata salva.
«Ai Grand-Mulets trovammo una
specie di casupola dove entrammo, per mangiare e riposarci. Non dovevamo
riprendere la grande salita che dopo la mezzanotte.
«All'entrare in quella capanna
indietreggiai spaventata. Credetti vedere uno spettro. Era una grande figura
d'uomo colle gambe nascoste entro immensi stivali che salivano sino al ginocchio,
un ampio soprabito a lungo pelo che dissimulava le forme del corpo; - ed uno di
quegli orribili passa-montagne di lana scura, che usano i viaggiatori di
professione nei lunghi viaggi di notte, gli copriva intieramente il capo ed il
volto.
«I miei compagni di viaggio non ne
fecero meraviglia.
«- Qui è il luogo delle stranezze,
mi dissero. I touristes sono tutti stravaganti, e quando non lo sono
vogliono parerlo.
«Quello strano personaggio era
accompagnato da due guide.
«- Il signore sale al Monte Bianco?
domandò quello fra i miei compagni che posava per edificazione
dell'altro.
«L'interrogato guardò una delle sue
guide, che rispose per lui:
«- Il signore non parla che
tedesco. È stato già sul Monte Bianco; ne discende.
«I miei compagni non sapevano il
tedesco e rinunciarono a conversare collo straniero. Si disposero a mangiare;
ma, sia l'agitazione della salita che si sta per imprendere, sia il freddo
intenso, non si può mangiare a quell'altezza. Il loro appetito non fece onore
alla straordinaria potenza di stomaco di cui s'erano vantati.
«In compenso bevvero enormemente.
«Quanto a me non ero preoccupata
che dalla mia grande idea, e dissi:
«- Non comprendo come possano
avvenire disgrazie sul Monte Bianco, dacchè, appena il suolo è pericoloso, i
viaggiatori si legano colle corde di sicurezza.
«Allora tra i miei compagni e le
guide si fecero ad enumerarmi una schiera di vittime, quali scoperte sotto una
valanga che le aveva sepolte, quali scivolate da un'altura vertiginosa, e
trovate agghiacciate sopra una sporgenza del monte.
«- Si trovano dunque sempre i
cadaveri? domandai.
«- Quasi sempre, rispose una guida.
«- Ed allora?
«- Allora si frugano, si cerca
dalle loro carte di sapere il loro nome, si annuncia il fatto; i giornali lo
pubblicano, e, se hanno una famiglia, ne viene informata. E la guida
compiacente proseguiva a narrare di una signora venuta tre anni innanzi dal
fondo dell'Inghilterra a cercare il cadavere di suo figlio, per portarlo a
giacere eternamente nella tomba di famiglia accanto a suo padre.
«- Ma quello è stato un suicidio -
soggiunse.
«- Un suicidio! - esclamai. - Come
lo sapete?
«- Dalle carte che si trovarono sul
cadavere.
«Era un bel giovane. Ricco come Rotschild
e nobile come un re. S'era messo in testa d'essere un gran genio musicale, ed
era venuto in Italia per studiare. Quella primavera aveva compiuto la sua
opera, che credeva un miracolo. Egli ne aveva parlato tanto; aveva creato una
grande aspettazione, si figurava di diventare da un giorno all'altro un
grand'uomo. Invece la sua opera era caduta. Allora aveva voluto morire; era
salito sul Monte Bianco, e giunto al grande altipiano, - mentre guide e
viaggiatori si riposavano facendo colazione, - egli si era allontanato verso
sinistra, dalla parte delle Roccie Rosse, e si era precipitato in un crepaccio,
da cui fu tratto a grande stento cadavere, stecchito, come una massa di
ghiaccio. - Tutto questo mi disse la guida in un lungo racconto.
«Un altro aveva avuto prima di me
l'idea del suicidio sul Monte Bianco. Non c'è nulla di nuovo sotto il sole.
«Questo contrariava il mio
progetto. Io non avevo pensato al ritrovamento ed allo spoglio del cadavere.
Contavo rimanere sepolta tra quei ghiacci eterni, e, come vi dissi, avevo
portato meco le lettere di Gualfardo, l'unica cosa che amassi ancora sulla
terra, perchè fossero eternamente con me.
«Le avevo riunite in un piego, e,
non so per quale sfogo dell'anima, in quel momento d'emozione suprema, ci avevo
scritto:
«Gualfardo! Per quanto t'ho amato,
per quanto ho sofferto, perdonami di non renderti questi ultimi preziosi
ricordi, perdonami di seppellirli con me fra quei ghiacchi eterni, da cui ti
volgerò il mio ultimo pensiero; dove morendo per te, ti benedirò pel bene che
hai fatto al mio povero babbo, pel male ch'io t'ho fatto, pel tuo nobile cuore.
Perdonami, Gualfardo, perdonami. T'ho amato troppo tardi, ma t'ho amato fino a
morire per te.»
«Quel piego era accuratamente
avvolto in una busta di tela cerata e suggellato. Se lo trovavano su di me, la
mia dichiarazione scoprirebbe il mio segreto, e tutto quanto avevo fatto per
evitare la pubblicità indiscreta ed oltraggiosa, diverrebbe inutile.
«Era necessario ch'io mi privassi
di quelle lettere, che le rendessi a Gualfardo. Sulla sua discrezione potevo
contare.
«Ma come fare? Affidarle a' miei
compagni di viaggio o alle guide, era quanto dire che volevo morire; essi mi
veglierebbero, desterebbero l'allarme intorno a me. Era ancora la pubblicità,
ed una pubblicità vergognosa, che svelerebbe il mio progetto prima che fosse
compiuto, e lo impedirebbe.
«A quelle somme altezze, ed in
quelle supreme circostanze, ebbi un'audacia che non avrei avuta mai nella vita
d'ogni giorno. Pensai a quello straniero che parlava soltanto il tedesco, e
scendeva già dal gran monte.
«I miei compagni, dopo aver bevuto
assai più che non avessero mangiato, s'erano distesi sui loro materassi e
dormivano. Delle guide, alcune dormivano pure, altre passeggiavano fuori della
capanna, forse attratte dallo splendido orizzonte che il crepuscolo avvolgeva
ne' suoi raggi fiammanti.
«Mi accostai risolutamente allo
straniero, e gli dissi in tedesco:
«- Signore, sono una donna sola, ed
ho bisogno di un uomo d'onore. Posso contare su di voi?
«- Contate, mi rispose.
«Non era che una parola, ma il
tuono con cui era detta era più rassicurante d'un giuramento; e, cosa strana,
la voce di quell'ignoto mi parve commossa.
«Ma la stranezza del luogo, il
pericolo cui andavamo incontro, la mia stessa esaltazione che doveva esser
vicina al delirio per avermi indotta a quel passo, giustificavano a' miei occhi
la sua emozione.
«Io soggiunsi, sempre nella bella
lingua di Welfard che parlavo con amore perchè l'avevo imparata da lui:
«- Quando si va incontro ad una
salita pericolosa come quella a cui mi dispongo, bisogna prevedere tutto, anche
il peggio. Potrebbe darsi che mi cogliesse una disgrazia, che non tornassi più.
Non ci avevo pensato prima. Ho meco un piego che non mi appartiene. Vorreste
farlo avere a Torino al Consolato Tedesco perchè lo mandi alla persona che deve
riceverlo, e ch'io non so dove si trovi?
«Così dicendo porgevo il prezioso
piego.
«- Non ha indirizzo; - osservò
l'incognito; e la sua voce era così fioca e tremante, che pareva sul punto di
svenire.
«Quella faticosa salita lo aveva
sfinito.
«- Non ho meco una matita per
scriverlo. Ma dirò l'indirizzo a voi, e voi lo metterete.
«Ma all'atto di pronunciare così,
davanti ad uno sconosciuto, quel nome tanto caro, di staccarmi da quelle
lettere senza averle di mia mano dirette a lui, mille diffidenze mi sorsero in
cuore; - ed esclamai:
«- Oh se potessi scriverlo!
«Lo straniero aperse il suo
soprabito, trasse un portafogli, ne levò una matita e me la porse.
«Quell'ultima esclamazione, quasi
involontaria, m'era sfuggita in italiano. Non la rivolgevo a lui, ma a me
stessa; non avevo cercato di farmi comprendere.
«Come mai mi aveva compresa, egli
che non conosceva l'italiano?
«In tutt'altro momento questa contraddizione
mi avrebbe colpita. Ma nell'esaltazione di quell'ora non ci pensai.
«Presi quella matita e scrissi sul
mio piego:
«Welfard Herbert. Raccomandata
al Consolato Tedesco in Italia.
«Egli prese il piego senza parlare,
e s'avviò per uscire dalla capanna. Io mi spaventai, e trattenendolo esclamai
angosciosamente:
«- Sul vostro onore....
«- Sul mio onore, l'avrà; rispose
con voce tremante; poi senza voltarsi uscì.
«Allora, priva di quelle lettere
che mi ero avvezza a stringermi sul cuore come un ricordo di lui, come parte
del mio passato, mi sentii sola; sola in faccia alla morte. Ero seduta accanto
alla tavola. Mi nascosi il volto tra le braccia, e piansi amaramente.
«Rimasi a lungo così, immersa nel
mio dolore.
«Ad un tratto sentii prendermi alla
vita e mi alzai spaventata.
«Ma un braccio energico mi
trattenne, mentre una voce ben nota, troppo nota, e profondamente commossa mi
diceva:
«- Fulvia, perdonatemi!
«Era lo sconosciuto che aveva
deposto il suo orribile passa-montagne; era Gualfardo.
«Era Gualfardo inginocchiato
accanto a me. Gli ultimi raggi del crepuscolo entrando per una stretta finestra
segnavano una striscia nell'oscurità della capanna, e rischiaravano il suo
volto. Vidi quei begli occhi che mi guardavano con infinito amore, ed erano pieni
di lagrime.
«- Welfard! mormorai. E mi strinsi
al cuore la sua bella testa, e le nostre labbra si cercarono, e piangemmo
insieme.
«- Mia Fulvia; mia amante; mia
sposa; susurrava Gualfardo stringendomi le mani. Dimmi che vivrai, che vivrai
per amarmi; per esser mia; per non lasciarmi mai più.
«- Ma tu, Welfard, potrai tu
perdonarmi il mio torto, potrai tu amarmi ancora?
«- Oh cara, mi rispose col dolce
accento passionato de' nostri primi abboccamenti del collegio, non sai che t'ho
amata sempre? Non sai che neppure un'ora ho dubitato della tua onestà? Era il
tuo cuore che mi sfuggiva; ma io sapevo che tornerebbe; ed ho lasciato tempo al
tuo cuore di tornare a me. Quei due giorni fatali che passasti a Milano, io non
t'ho abbandonata un momento. Ti vidi uscire dallo scalo. Ti udii dire alla
contralto:
«- Povera me! Se qualcuno mi
vedesse!
«- Fu allora che mi nacque un
sospetto; perdonami, Fulvia; ti amavo... E presi anch'io una carrozza di
piazza, e seguii quella che ti conduceva. E scesi allo stesso albergo, e presi
la camera accanto alla tua; e traverso la porta ti ho vegliata sempre. Ho
vedute le tue impazienze, le tue lagrime. Ho udita la tua conversazione con
Giorgio, e la terribile confessione del tuo amore per Guiscardi. T'ho veduta
con lui... Ho sofferto, Fulvia; ho molto sofferto. Ma partii di là, ti seguii a
Milano colla certezza che, se non mi amavi più, non avevi cessato d'esser buona
ed onesta. Ti ricordi che quando volesti farmi la tua confessione, io ti
risposi:
«- So tutto!
«- Te ne ricordi? Poi vidi la lotta
che si agitava nel tuo cuore, quando una fatalità dolorosa e cara ci tenne per
tanti giorni strettamente uniti al letto del povero babbo. Un istante mi parve
che tu mi amassi ancora, e fu con tutta la sincerità del mio cuore che ti
dissi:
«- Vuoi essere mia sposa domani?
«- Tu trovasti una scusa;
respingesti l'offerta. Sentii che m'ero ingannato.
«- Allora mi ritirai colla morte
nel cuore, e non pensai che a combinare coll'impresario per farti riavere la
scrittura di Nuova-York, per allontanarti dai luoghi che ti ricordavano la
dolorosa perdita del povero babbo.
«- Ma dopo la tua partenza, Torino
mi riescì insopportabile.
«- Lasciai le mie lezioni, lasciai
tutto; ti seguii in America, dove ottenni di dirigere l'orchestra d'un teatro
secondario; e vissi vicino a te, e ti vidi, Fulvia; e la tua cameriera, che
avevo saputo guadagnare, m'introdusse nelle tue stanze tutte le sere in cui per
combinazione al mio teatro era riposo, mentre al tuo cantavi.
«- Sì, Fulvia; rinunciavo alla
gioia di vederti, per sedermi al tuo scrittoio, nella tua poltrona, ed al lume
della tua lampada, in quell'atmosfera piena di te, leggere, a misura che le
avevi scritte, le tue memorie.
«- Allora conobbi i miei torti,
Fulvia, ed il tuo amore; il tuo nobile e generoso amore.
«- Avrei voluto correre a' tuoi
piedi e ridomandarti piangendo quella dolce promessa che la mia stupida
freddezza t'aveva indotta a ritogliermi. Ma ero povero allora; non avevo più
posizione; avevo lasciato tutto per seguirti. Era necessario ch'io mi rifacessi
una rendita sufficiente per offrirti il mio appoggio.
«- Scrissi subito; ma ci volle del
tempo, e quando mi fu offerto il posto di direttore d'orchestra in uno dei
primi teatri di Vienna, tu eri partita da due giorni.
«- Partii subito anch'io, ma, sbarcato
a Genova, dovetti fare una corsa a Milano, per firmare il contratto che mi
assicurava un avvenire degno di te.
«- Allora, felice del tuo amore, e
della mia posizione, corsi a Torino. La tua cameriera m'aveva detto a che
albergo contavi discendere. Vi accorsi. Anche di là eri partita. Interrogai i
pochi conoscenti che avevamo comuni, e dopo un giorno di ricerche inquiete,
seppi che eri stata pochi giorni a Torino, che eri triste ed abbattuta, ed eri
ripartita per Chamounix diretta al Monte Bianco.
«- Avevo letto le ultime pagine del
tuo giornale, in cui esprimevi l'idea triste del suicidio. Un dubbio crudele mi
strinse il cuore.
«- T'inseguii a precipizio. Giunsi
a Chamounix avant'ieri. Credendomi già in ritardo, domandai soltanto se non
erano accadute disgrazie, e tosto impresi la salita sperando di raggiungerti
qui, o al Grande Altipiano... Mi ero vestito in modo da non esser conosciuto
per risparmiarti una sorpresa forse fatale al tuo animo esaltato.
«- Oh! se tu sapessi, Fulvia, che
angoscie mi straziarono il cuore a misura che salivo in quei deserti di
ghiaccio. In ogni voragine mi sembrava di vedere un lembo delle tue vesti, di
scoprire una traccia di sangue. Non ho sentito il freddo, non ho provato la
menoma vertigine, non ho avvertito pericoli, non ho pensato che a te.
«- Ma quando scendevo disperato,
cupo, deciso ad esaurire fin l'ultimo passo per trovarti, od a morire con te,
lo spirito del povero babbo ti ha condotta in questa capanna. Egli è qui tra
noi, ci ascolta e ci vede, Fulvia. Oggi come allora, te lo domando dal fondo
del cuore: «Vuoi essere mia sposa? Vuoi lasciare la tua carriera, il tuo paese,
e non vivere che per me? ed essere mia?»
«In quella sorpresa di gioia e
d'amore il mio cuore lungamente oppresso si era sciolto, ed avevo pianto come
la più miserabile delle donne. Era un pianto dolcissimo che mi faceva tanto
bene. Non avevo detto una parola per interrompere il mesto racconto del mio bel
Gualfardo. Lo ascoltavo, inebriata e felice di essere amata così; profondamente
addolorata di averlo tanto male giudicato e compreso. Soltanto a quell'ultima
soave preghiera esclamai tra i singhiozzi:
«- Oh! Gualfardo, io non sono degna
di te.
«- Non dirlo, cara, riprese colla
sua generosa bontà. Tu mi hai giudicato per quello che mi mostrai. Avevi
ragione, povera Fulvia. Tu eri ardente come il tuo bel sole d'Italia, ed io ero
tedesco come un soldatino di piombo. - È vero; ho avuto torto; non ho saputo
adattarmi al tuo carattere, alle tue aspirazioni; ma, credilo, ti amavo con
tutta l'anima. Dimmi che mi perdoni!
«I miei compagni di viaggio,
chiamati dalle guide, si destarono, scesero dai loro materassi, e si disposero
alla gran salita. Quanto a me, che m'importava omai del Monte Bianco, e di
tutti i ghiacciai della terra? Quel ghiaccio che mi aveva pesato sul cuore, che
m'aveva resa infelice e colpevole, era sciolto. La vita mi sorrideva come una
promessa d'amore. Ero felice. Che potevo cercare più in alto?
«Ridiscesi colla gioia nell'anima
quel tratto di monte che avevo salito in tanta desolazione. Con che spavento
trattenni fin il respiro nel passaggio della congiunzione, quando le
guide raccomandarono il silenzio, perchè anche il più lieve spostamento d'aria
prodotto da un suono potrebbe staccare un masso di ghiaccio, una valanga, e
seppellirvi il nostro avvenire, il nostro amore, la nostra felicità!
«Dove prima vedevo quasi
l'impossibilità di morire, ora tremavo ad ogni passo; volevo vivere, e
paventavo per due vite.
«Oggi siamo rimasti a Chamounix per
passeggiare insieme, per dirci e ripeterci la storia dei nostri passati dolori.
Siamo andati passeggiando fino a metà strada da Argentières. Ho detto a Welfard
che vi ho spedito le mie memorie; ed ora, mentre egli fuma accanto a me, vi ho
scritto l'esito felice ed inaspettato del mio prosaico romanzo.
«Noi ci sposeremo fra otto giorni a
Torino, e partiremo subito per Vienna. Non vi vedrò forse mai più. Perdonatemi
d'avervi cagionato un dolore, forse un rimorso, coll'ultima mia lettera. Ora è
passato, come passa tutto. Come il nostro folle amore, come la freddezza di
Welfard, come la mia disperanza. Addio, Max. Siate felice come me, nella sola
gioia che non passa, che resiste al tempo ed agli eventi, l'amore della
famiglia.
«Fulvia.»
Mi asciugai una lagrima, e corsi in
camera di mia moglie che abbracciai con trasporto.
- Che hai? mi disse. Sei agitato...
- Ho che ti amo. Che sono felice
d'esser sposo e padre; vuoi che andiamo domani a vedere il nostro bambino dalla
nutrice?
FINE
|